domenica 24 giugno 2012

GLI SCRITTORI E LA FOTOGRAFIA - A cura di Diego Mormorio - Prefazione di Leonardo Sciascia - Editori Riuniti-Albatros 1988 - £ 30.000



Leonardo Sciascia, nella prefazione a questo intrigante libro, definisce in modo suggestivo la funzione della fotografia:

Per abolirlo o per fermarlo, per abolirlo fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo, non illustre, umile e quotidiana piuttosto, ma appunto nel suo essere umile, nel suo essere quotidiana, nel suo essere oggi ovunque in agguato e invadente, in un certo senso violenta, raggiunge e sorpassa - anche nei suoi risultati più grezzi, più brutali o banali - le altre forme già illustri, di guerra contro il tempo: la storia, il romanzo.
Non solo:

Contemporaneamente, la macchina fotografica, con la sua possibilità di fissare ogni attivo del divenire, forniva al nascente positivismo il più grande archivio di fatti, creando il mito della verità fotografica....

Attraverso la raccolta di scritti di autori diversi, Diego Mormorio, storico della fotografia, ha costruito la storia del fecondo rapporto tra fotografia e scrittori, dalla nascita della fotografia ai nostri giorni diviso, in tre capitoli: Linguaggi e tecniche, Fotografi e fotografie, Racconti e istantanee.

Gli autori i più eterogenei,  da Apollinaire a Steimbeck, da Barthes a Evtušenko, da Shaw a Kundera, da Bufalino a Sartre, a Moravia, a Flaiano, a Calvino, a Vittorini, a Majakowskij, alla Sontag, a Lewis Carroll e a decine di altri di tutte le nazionalità e periodi storici, un panorama completo su quanto è stato scritto intorno alla dodicesima (?) musa.

Questo l'incipit dello scritto di Evtušenko, La Musa della fotografia:
Le strade sono percorse da milioni di uomini i cui ritratti non saranno dipinti mai da grandi pittori. I grandi pittori non bastano per tutti. Nel volto di ciascun uomo è celato il mistero dell'unicità della sua vita. Il volto umano è un documento della storia. Ecco una donna anziana e stanca, carica di fagotti. Il suo volto sembra riflettere una totale indifferenza per la vita. Improvvisamente questa donna si ferma perché trova la strada sbarrata da bambine che saltano la corda. Invece di arrabbiarsi, il suo volto comincia a illuminarsi per qualche lontano ricordo che la riporta alla gioia della sua infanzia quasi dimenticata e che oggi appartiene ad altri. Un giorno, anche queste bambine invecchieranno e anch'esse guarderanno con tristezza l'arcobaleno della corda di altre bambine che sbarrerà loro la strada. La musa della pittura sarebbe stata troppo lenta per fissare l'attimo di luce apparso sul viso di questa donna.


L'incontro degli scrittori con la fotografia ha prodotto pagine bellissime, fatti singolari e divertenti, qui sono riunite in un unico disegno armonico, che interesserà certamente gli amanti della fotografia.






giovedì 21 giugno 2012

Pellegrino Artusi - LA SCIENZA IN CUCINA E L'ARTE DI MANGIAR BENE - Bemporad Marzocco Firenze 1967 - £ 1.200


Apprendo dalla rivistina della Coop Nuovo Consumo che dal 16 al 24 giugno  Forlimpopoli rende omaggio al suo concittadino più illustre, quel Pellegrino Artusi che nel 1891, a proprie spese, diede alle stampe il primo e più diffuso libro della cucina italiana. Una settimana di iniziative che trasformerà Forlimpopoli in "città da assaggiare, dove le strade, i vicoli e le piazze diventano veri e propri percorsi gastronomici. Ci saranno oltre 150 appuntamenti fra laboratori e degustazioni, una ventina di incontri imperniati sulla cultura del cibo, più di 50 spettacoli di vario genere (teatro,cabaret,concerti, performance di strada), oltre 30 ristoranti appositamente allestiti. Inoltre, come ogni anno, s'incorona il miglior cuoco o cuoca dilettanti, assegnando il Premio Marietta."

 Marietta è stata la cuoca del maestro, la persona cioé che materialemnte realizzava le ricette che Artusi andava raccogliendo, con la passione dell'antropologo culturale, in giro per l'Italia. Ed è a lei che Artusi lascia in eredità i diritti del suo libro, divenuto nel corso degli anni un vero best-seller.

Il libro, è bene ricordarlo, non è un semplice ricettario, ma, come correttamente recita il titolo, La Scienza in cucina e l'Arte di mangiare bene, dove vengono dispensati consigli di ogni genere e, in anticipo di quasi un secolo, di informazioni sui fattori nutritivi dei vari alimenti.

In questo brano, parlando dei Tortellini alla bolognese, anticipa un concetto che profeticamente si realizzerà solo nei tempi moderni.
"Bologna è un gran castelazzo dove si fanno continue magnazze", diceva un tale che a quando a quando colà si recava a banchettare cogli amici. Nell'iperbole di questa sentenza c'è un fondo di vero, del quale, un filantropo che vagheggiasse di legare il suo nome a un'opera di beneficienza nuova in Italia, potrebbe giovarsi. Parlo di un Istituto culinario, ossia scuola di cucina a cui Bologna si presterebbe più di qualunque altra città pel suo grande consumo, per l'eccellenza dei cibi e pel modo di cucinarli.

La descrizione della ricetta il più delle volte viene arricchita da notizie che riguardano i luoghi dove sono state raccolte, case private, osterie ecc., ma anche gustosi ritratti di persone. Questa spassosa descrizione anticipa la ricetta della Zuppa alla Stefani:

L'illustre poeta dott. Olindo Guerrini, essendo bibliotecario dell'Università di Bologna, ha modo di prendersi il gusto istruttivo, a quanto pare, di andare scavando le ossa dei Paladini dell'arte culinaria antica per trarne forse delle illazioni strabilianti a far ridere i cuochi moderni. Si è compiaciuto perciò di favorirmi la seguente ricetta tolta da un libricino a stampa, intitolato: L'arte di ben cucinare, del signor Bartolomeo Stefani bolognese, cuoco del Serenissimo Duca di Mantova alla metà del 1600, epoca nella quale si faceva in cucina grande uso ed abuso di tutti gli odori e sapori, e lo zucchero e la cannella si mettevano nel brodo, nel lesso e nell'arrosto. Derogando per questa zuppa dai suoi precettiio mi limiterò, in quanto a odori, a un poco di prezzemolo e di basilico; e se l'antico cuoco bolognese, incontrandomi all'altro mondo, me ne facesse rimprovero, mi difenderò col dirgli che i gusti sono cambiati in meglio; ma che, come avviene in tutte le cose, si passa da un estremo all'altro e si comincia anche in questa ad esagerare fino al punto di voler escludere gli aromi e gli odori anche dove sarebbero più opportuni e necessari. E gli dirò altresì che delle signore alla mia tavola, per un poco di odore di noce moscata, facevano boccacce da spaventare.

In genere le ricette guardano la cucina borghese dell'epoca, dove abbondano i pasticci di pernici, dove per farcire pollastre vengono impiegati due-tre etti di tartufo bianco, non certo la cucina contadina e operaia, impegnata com'era più a conciliare il pranzo con la cena che  occuparsi di gastronomia.

Ma lentamente, con le varie edizioni che si susseguono, riesce infine a far breccia anche in quel mondo contadino, che finisce per riconoscersi in quei sapori e quelle pratiche culinarie, per diventare il libro di cucina di tutti gli italiani.

martedì 12 giugno 2012

Carnacina - Buonassisi - ROMA IN CUCINA - Aldo Martello Editore - 1972 - £ 2.400


Luigi Carnacina a soli dodici anni inizia a lavorare come sguattero e cameriere in una osteria. A quattordici lascia l'Italia è inizia il suo percorso nel mondo alberghiero e della ristorazione, dove a modo di conoscere e lavorare per il grande maestro Auguste Escoffier al Savoy Hotel di Londra e in seguito dirigendo grandi hotels e ristoranti in Europa e in America.

Vincenzo Buonassisi è stato un apprezzato giornalista, scrittore e gastronomo, autore di libri di cucina e di programmi televisivi.

Di questo libro che è riduttivo definire di cucina, piuttosto di cultura storico-gastronomica, preciso ed esauriente, ho sempre molto apprezzato (ricette a parte che essendo romano conosco abbastanza bene) l'introduzione che è un vero e proprio saggio  sulle caratteristiche della cucina romana.

C'è una sorprendente continuità nella cucina delle fettuccine, dell'abbacchio, della pajata, della testina, della coda alla vaccinara, del pecorino con le fave, dell''anguilla, delle frappe, delle cime di rape, di tanti altri piatti: una continuità che ciene, si, dalle materie impiegate, ma anche ancor più dal modo costante di sfruttarle, legarle, condirle.
 Un romano di mille o duemila anni fa sbalzato da una macchina del tempo nel mondo di oggi non subirebbe a tavola, propabilmente, uno choc troppo grave: mancherebbero tante cose, ma ci sarebbero anche piatti noti, un certo carattere familiare in questa cucina dell'olio e del guanciale, del latte, della ricotta, delle erbe, dei legumi.

Viene analizzato come l'introduzione in alcuni prodotti provenienti dalle Americhe, non abbia, come in quasi tutta Europa, rivoluzionato la cucina romana. La patata, il pomodoro,  infatti entrano nella cucina romana come un accessorio, danno colore, sfumature di gusto, ma non incidono profondamente, non rivoluzionano il modo di concepire la preparazione del cibo.

Poi estendendosi il potere di Roma repubblicana, a questi cibi se ne unirono altri suggeriti dalle risorse e dalla civiltà agricola delle terre vicine, conquistate. Comparve il pane, intanto, senza eliminare le pultes; il pane che si mangiava col formaggio, oppure con l'aglio, con le cipolle, primo sostegno degli stessi legionari romani (donde, per secoli, il motto:"Ubi Roma, ibi allium", che si può tradurre liberamente: dove arriva Roma, lì si sente l'aglio). 

Divennero elementi base dell'alimentazione le olive, l'olio, il vino, considerato come un cibo vero e proprio, oltre che una bevanda; il maiale e gli insaccati; gli ortaggi di ogni specie e i frutti: primo fra tutti il fico, per cui i romani avevano una vera passione; lo ritroviamo in tutte le descrizioni di pasti, in molte ricette. Con erbe e verdure si facevano piatti misti, vere insalate.

Racconta poi come le stravanze di Lucullo e di Eliogabalo, e quanto di eccessivo c'è nella letteratura latina (vedi L'Asino d'oro o Satiricon) riguardava una ristretta cerchia di gaudenti che ruotava intorno agli imperatori, senza nessun legame col popolo romano.

Troviamo l'autorevole conferma di Orazio quando (seconda satira secondo libro) elogia la sobrietà:

La salute anzitutto, che è quel che più conta:
per convincerti che i piatti troppo elaborati
fanno male, basterà che ricordi
come hai ben digerito le pietanze più semplici: ma se vuoi
mescolare l'arrosto col lesso, le ostriche e i tordi,
tutte queste dolcezze si convertono in fiele, e il catarro
ti sconvolge lo stomaco. Non vedi come, da un banchetto
sontuoso, escono tutti pallidi e stanchi? E l'indomani
il corpo, dalla crapula oppresso, l'anima aggrava
e a terra costringe anche la parte divina che è in te.
E ancora:
Lui racconta: "Ho avuto giudizio: nei giorni feriali bastava
al mio pasto un po' di verdura e uno zampetto di porco.
E se veniva a trovarmi un amico dopo tanto tempo,
o un caro vicino in un giorno di pioggia, ci davamo riposo
facendo gran festa, non coi pesci mandati a comprare
in città, ma con un pollo o un capretto nostrani; e alle frutta,
un po' di una passa, due noci con i fichi secchi.

 Si chiedono gli autori:

Avevano già i romani le lasagne, antenate delle moderne fettuccine? Pare proprio di si, sebbene i pareri non siano unanimi: Si usava a Roma un cibo chiamato laganum che era fatto con farina e acqua mescolati: l'impasto veniva schiacciato e tagliato a pezzi, poi cotto. Non sappiamo altro, ma è chiaro per incominciare, che questo laganum era stato preso dalla cucina greca, diffusa nel sud d'Italia.
Poi le notizie che abbiamo sono sempre incomplete, citazioni casuali. Per esempio certi versi di Orazio dicono "inde domum me ad porri et ciceris refero, laganique catinum"; dunque se ne andava a casa per mangiarsi una scodella di porri, ceci e legano. Cicerone, a sua volta, se ne confessa ghiotto.

Che si tratti delle antenate delle fettuccine si può ricavare dalla terminologia napoletana moderna che chiama ancora laganelle i taglierini, e laganaturo il mattarello.

Poteva mancare qualche esempio di poesia romanesca dedicata al cibo? Questa che proponiamo e firmata solo "er Patocco":

Benché l'anni so' tanti, nun me scordo
'na via che me pareva un coridore
indove, sur cantone, er friggitore
venneva li pezzetti a cinque un sòrdo.
U' misto d'ojo fritto un po' balordo...
se spanneva dar dentro l'ore e l'ore,
ma 'sti pezzetti avevano un sapore
che là pe là ce doventavi ingordo.
Broccoli, gobbi, baccalà, patate...
co' poco se faceva pranzo o cena;
la gente li comprava a cartocciat.
Ah, come li risogno 'sti pezzetti,
che, assieme ar mezzolitro su' la vena,
era er mejo scialà da poveretti!


Un libro prezioso, da leggere, da consultare, da tenere sempre a portata di mano per scoprire i mille semplici segreti (e la loro storie) della vera cucina romana.

sabato 9 giugno 2012

Artur London - LA CONFESSIONE - Nell'ingranaggio del processo di Praga - Garzanti 1969 - £ 3.000



Ai miei compagni di sventura, giustiziati innocenti, o morti in prigione,
A tutte le vittime innocenti dei processi,
A tutti i compagni di battaglie, conosciuti e sconosciuti, che hanno sacrificato la vita per l'avvento di un mondo migliore,
A tutti quelli che continuano la lotta per restituire al socialismo il suo volto umano.
Artur London nasce nel 1915 a Ostrava (Cecoslovacchia), a 14 anni entra nella gioventù comunista, a 16 subisce il primo arresto e altri negli anni successivi; finché nel 1934 si rifugia a Mosca dove lavora nell'organizzazione giovanile del Comintern. Nel 1936, arruolatosi nelle Brigate internazionali, parte per la Spagna e qui combatte fino alla caduta della Catalogna. Riparato in Francia, milita nel PC francese e, nell'agosto del 1940, entra nella resistenza. Nel 1942, a Parigi, viene arrestato dai nazisti e deportato a Mauthausen dove, celando la sua origine ebrea, riesce a sopravvivere, ma contrae una grave tubercolosi. Nel 1949 insistentemente richiesto in patria dal PC cecoslovacco, raggiunge Praga e viene nominato vice ministro degli Esteri a fianco di Clementis. Questo il passato del "traditore" London. Il 28 gennaio 1951, pur ricoprendo ancora la carica di vicemistro degli Esteri, viene arrestato. Il libro comincia a questo punto.

Ha scritto Luis Aragon:

Dei quattordici imputati, undici furono condannati a morte e impiccati, tre vennero condannati all'ergastolo. Tutti avevano confessato i loro crimini, tutti erano innocenti. La confessione è il resoconto del processo fatto da uno dei tre superstiti, Artur London. Bisogna assolutamente leggere questo libro; è una lettura difficilmente sopportabile, ma bisogna leggerlo.
Quando nel 1969 lessi per la prima volta questo sconvolgente libro ero un iscritto al PCI e, ricordo bene come  all'interno del partito, nonostante fossero passati cinque anni, fosse ancora viva l'impressione suscitata dal Memorale di Yalta che Togliatti lasciò morendo, dove rivendicava la giustezza delle vie nazionali al socialismo e  criticava i limiti nel processo di destalinizzazione dopo la denuncia del XX Congresso dell'URSS.


Questo libro è la dimostrazione della drammatica stupidità di quella degenerazione politica storicamente definita stalinismo. Com'era già accaduto in URSS durante le grandi purghe del 1935-36 che decimò l'Armata Rossa, anche questa serie di processi,  iniziati nei primi anni '50, falcidiarono i dirigenti comunisti di Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania e Germania, sopratutto i reduci delle brigate internazionali che combatterono in Spagna contro fascisti, franchisti e nazisti.

La ricerca furiosa  del nemico all'interno del partito, di volta in volta identificato col trotskismo o titoismo non è  solo un pretesto per la lotta di potere all'interno dell'URSS, è sopratutto il mezzo attraverso il quale si afferma il ruolo dominante dell'Unione Sovietica sui paesi a democrazia popolare, con l'allineamento dei loro governi e partiti in nome della solidarietà del campo socialista e dell'internazionalismo proletario.

 Al di fuori di questa visione c'è il deviazionismo nazionalista e per combatterlo non si esita ad utilizzare i peggiori metodi, i più disumani e crudeli, non ultimo quello secondo cui se è vero che sei un buon comunista obbedisci e confessa quello che il partito in questo momento ti chiede.

Con la morte di Stalin nel 1953 e di Klement Gottwald Segretario Generale del PCC nove giorni dopo, inizia un lento processo che porterà alla scarcerazione e riabilitazione dei tre superstiti il processo di Praga, per gli impiccati il percorso sarà più lungo e controverso.

Con le cose dette non vorrei aver dato un'impressione errata di questo libro forte, bello, intenso, che ha tutte le caratteristiche per una lettura avvincente un po' come Il Conte di Montecristo: l'innocente accusato, incarcerato, condannato e poi, dopo tante sofferenze fisiche e psicologiche, finalmente, scarcerato e riabilitato. Nel Libro non ci sono solo analisi politiche o racconti di beghe interne ai vari partiti comunisti europei, c'è la storia di un uomo che tutta la vita ha combattuto contro le ingiustizie, credendo fermamente in un ideale di riscatto umano, la storia di Lisa, sua moglie francese, comunista anch'essa, che rimarrà nonostante tutto al suo fianco.

Nel 1970 Costa Gavras, reduce dal successo di Z l'orgia del potere, sui colonneli greci, girerà un film da questo libro con Yves Montand, Simone Signoret e Gabriele Ferzetti.

http://www.youtube.com/watch?v=Q3CrWuP69oc

Avendo deciso di alleggerire l'argomento del post successivo, scelgo  un libro politicamente neutro, innocuo: Gli scrittori e la fotografia - Editori Riuniti -  1988 - £ 30.000, prefazione di Leonardo Sciascia; una raccolta di scritti intorno all'esperienza della fotografia. Consultando l'indice mi accorgo che è presente anche uno scritto di Milan Kundera intitolato E' rimasto solo il berretto, che riporto integralmente perché riguarda in qualche modo l'argomento de La Confessione, un esempio di quanto è stato tragicamente ridicolo lo stalinismo.

Milan Kundera
E' rimasto solo il berretto.

   Nel febbraio 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare alle centinaia di migliaia di cittadini che gremivano la piazza della Città Vecchia. Fu un momento storico per la Cecoslovacchia. Un momento fatale, come ce ne sono uno o due in un millennio.
   Gottwald era circondato dai suoi compagni e proprio accanto a lui c'era Clementis. Faceva freddo, cadevano grossi fiocchi di neve, e Gottwald era a capo scoperto. Clementis, premuroso, si tolse il berretto di pelliccia che portava e lo posò sulla testa di Gottwald.
   La sezione propaganda diffuse in centinaia di migliaia di esemplari la fotografia del balcone da cui Gottwald, col il berretto di pelo in testa e il compagno al fianco, parlava al popolo. Su quel balcone cominciò la storia della Cecoslovacchia comunista. Dai manifesti, dai libri di scuola e dai musei, ogni bambino conosceva quella foto.
   Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e impiccato. La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. Da allora Goyywald, su quel balcone ci sta da solo. Lì dove c'era Clementis c'è solo la nuda parete del palazzo. Di Clementis è rimasto solo il berretto che copre la testa di Gottwald.

Il testo di Kundera citato in Gli scrittori e la fotografia, che mi suonava molto familiare è infatti l'incipit del romanzo Il libro del riso e dell'oblio (Adelphi 1980)