venerdì 31 agosto 2012

Milan Kundera - L'ARTE DEL ROMANZO - Adelphi - 1988 - £ 12.000


Credo di fare cosa gradita ai numerosissimi estimatori di Milan Kundera proponendo la lettura (o ri-lettura) di questo fondamentale saggio su L'arte del romanzo.

Come tutte le opere di Milan Kundera, anche questo saggio è articolato in sette parti, sette è una sorta di numero magico, un numero che equivale - parola di Kundera - ad una forma musicale perfetta:

  1. La denigrata eredità di Cervantes
  2. Dialogo sull'arte del romanzo
  3. Note ispirate dai Sonnambuli
  4. Dialogo sull'arte della composizione
  5. In qualche posto là dietro
  6. Sessantasei parole
  7. Discorso di Gerusalemme: il romanzo e l'Europa
Anche come saggista Milan Kundera ha il dono stupefacente della chiarezza, e le questioni più complesse, nelle sue parole, emergono con una nitidezza da farcele comprendere come cose ovvie.

Il romanzo non indaga la realtà, ma l'esistenza. E l'esistenza non è ciò che è avvenuto, l'esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l'uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell'esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire "essere-nel- mondo". E' necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. In Kafka tutto questo è evidente: il mondo kafkiano non assomiglia ad alcuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano. Vero è che questa possibilità traspare dietro al nostro mondo reale e sembra prefigurare il nostro avvenire. Ecco perché si parla della dimensione profetica di Kafka.




Dall capitolo Sessantasei parole, alla parola LIBRO:

Mille volte ho sentito dire alla radio o alla televisione:  "...comme je le dis dans mon livre..." ("come dico nel mio libro"). La sillaba li e pronunciata molto lunga e almeno un'ottava più alta della sillaba presedente:


Ogni volta che rileggo questa voce,  da questo geniale dizionarietto di sessantasei parole, rimango incantato da tanta sottigliezza analitica: quella sillaba pronunciata un'ottava più alta e la misura della saccenteria di chi la pronuncia.

Ma il saggio di Milan Kundera è una miniera inesauribile di scoperte di cui, dentro di noi, in qualche modo, avevamo conoscenza: per esempio, sulla poesia.

I poeti non inventano le poesie
la poesia è in qualche posto là dietro
è la da moltissimo tempo
il poeta non fa che scoprirla.
Scrivere significa dunque per il poeta abbattere un muro dietro il quale si nasconde nell'ombra qualcosa di immutabile (la poesia).    Ecco perché (grazie a questo disvelamento sorprendente e improvviso) la poesia ci si offre innanzi tutto come un abbagliamento.


Alla voce Romanziere:

Il romanziere non da grande importanza alle proprie idee: E' uno scopritore che, a tentoni,  si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell'esistenza. Non è affascinato dalla propria voce, ma da una forma che insegue, e solo le forme che rispondono alle esigenze  del suo sogno fanno parte della sua opera. Fielding, Sterne, Flaubert, Proust, Faulkner, Céline, Calvino.

 Un grande libro necessario per gli amanti della lettura.

giovedì 30 agosto 2012

IL BACIO DELLA DONNA RAGNO di Manuel Puig - Einaudi (1978)




Questo è uno di quei casi in cui la visione del film ha preceduto la lettura del romanzo e, come accade di solito, il romanzo, nel confronto, è risultato migliore del film, nonostante la buona fattura del film, la bravura degli interpreti, il bravo W.Hart (Oscar e Prix a Cannes), Sonia Braga (Golden Globe) e la regia di Hector Babenco candidato all'Oscar, ma la giuria gli preferì Sidney Pollack per La mia Africa.

Questo ritornello del testo che è spesso migliore della versione filmica, è una vecchia querelle che ha a che fare con il piacere della lettura, la fantasia di chi legge e che ricostruisce senza alcuna mediazione l'intera storia.  Ma chi è Manuel Puig?


Manuel Puig (1932-1990) argentino, dopo la laurea visse a lungo a Roma dove seguì dei corsi al Centro Sperimentale di Cinematografia con C.Zavattini, sognando di scrivere per il cinema e poi a New York dove approfondì la conoscenza delle sue stelle preferite: Greta Garbo, Marlene Dietrich e Rita Hayworth.

Della passione di Puig  per il mito di Rita Hayworth troviamo conferma nel titolo del suo primo libro  Il tradimento di Rita Hayworth (1968) un intenso, moderno romanzo, dove il giovane protagonista Toto, grande collezionista di ritagli degli annunci dei film che si propiettano,  scopre il sesso e il mondo degli adulti attraverso i miti del cinema holliwoodiano.

Un libro che mi ha confermato, insieme agli altri letti, Una frase, un rigo appena del 1969 e Fattaccio a Buenos Aires del 1973, come - dopo il dirompente periodo della beat-generation nordamericano - tutte le invenzioni narrative provengano ormai solo dal Sud delle americhe e come Puig riesca ad includere linguaggi e forme diverse di narrazione, senza che mai la sperimentazione risulti fine a se stessa. 


Se Il bacio della donna ragno, grazie sopratutto al film passato più volte anche in TV, è storia troppo nota per  invogliare alla lettura, lo raccomandiano per sua forma narrativa che dovrebbe sicuramente risultare allettante.
Manuel Puig, che ha vissuta gran parte della sua breve esistenza lontano dall'Argentina, ha molto sofferto l'indifferenza quando non l'ostilità della critica del suo paese, come si evince leggendo la bellissima intervista del 1988 rilasciata a Rosa Montero, giornalista del El Pais Semanal -"Un caracol sin cocha".

Manuel Puig pertenece a ese tipo de personas que, cuando sonríen, parece que llevan el corazón entre los labios. 
Pocas veces he conocido personas que aparentaran una sinceridad tan despojada de cosmética.
Y así, cuando ríe, se parece asombrosamente a Tyrone Power, a un satinado galán de cine mudo, Valentino disfrazado de jeque árabe en apoteosis de palmeras de cartón piedra.


L'intervista completa all'indirizzo:
                 http://www.manuelpuig.blogspot.it/2008/11/un-carracol-sin-concha.html

venerdì 24 agosto 2012

Carlo M.Cipolla - ALLEGRO MA NON TROPPO - il Mulino 2012 -




Un’amica intelligente e curiosa, sempre alla ricerca di letture sfiziose mi ha fatto dono di un libricino davvero interessante edito da “il Mulino”, Allegro ma non troppo contenente due saggi di uno storico dell’economia Carlo M. Cipolla (1922-2000), dove si tratta con leggerezza e ironia di “Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo” e “Le leggi fondamentali della stupidità umana”.

L'autore, che nella sua lunga carriera universitaria ha insegnato storia dell'economia a Venezia, Torino, Pavia, Normale Superiore di Pisa e Berkley in California, ha una bibliografia di testi accademici troppo vasta per essere qui riprodotta. Un suo studio sul rapporto tra popolazioni e disponibilità energetiche "The Economic History of World Population" del 1962 (edizione italiana Uomini,tecniche,economie - Feltrinelli, 1978) gli valse la fama internazionale.

Ciò che colpisce scorrendo la lunga bibliografia di questo insigne storico, è l'originale angolo visuale dal quale analizza cause ed effetti dello sviluppo economico: tecnologia, alfabetizzazione, ma anche le conseguenze socio-economiche delle grandi  epidemie in Europa.

Dal primo saggio, Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo, apprendo che una possibile causa della fine dell'Impero Romano sia da addebitare al progressivo avvelenamento da piombo della classe aristocratica romana.
Il piombo, se ingerito o assorbito in dosi superiori ad 1 mg. al giorno, può provocare dolorosa stitichezza, perdita dell'appetito, paralisi delle estremità e infine può causare la morte. Può inoltre causare sterilità tra gli uomini e aborti fra le donne.
Non solo Plinio il Vecchio raccomandava che venissero usati recipienti di piombo e non di bronzo nella cottura dei cibi, ma il piombo veniva anche utilizzato nella fabbricazione delle tubature idriche, dei boccali dei cosmetici, delle medicine e dei coloranti. S'aggiunga che i Romani, per meglio conservare e dolcificare il vino, aggiungevano del succo d'uva non fermentato che a sua volta era stato bollito e decantato in recipienti rivestiti internamente di piombo. Così facendo, mentre ritenevano di sterilizzare il vino i Romani non si rendevano conto che sterilizzavano se stessi.
Caduta dell'Impero Romano, Medioevo, Crociate si susseguono nella narrazione con una grande finezza di spirito e così  apprendiamo che,  ad esempio, gli scandinavi, che premevano dal nord sull'Europa con sanguinose incursioni, erano spinti, oltre che da una superiore tecnologia navale, da ragioni interne:

Una recente pubblicazione norvegese afferma che notevole importanza ebbe il ruolo delle donne nella bellicosa società scandinava. Fiere e fornidabili le donne vichinghe sapevano all'occasione diventare anche pericolosamente infide e in ogni caso non si lasciarono mai sottomettere.
Non fa meraviglia che i mariti di donne così formidabili optassero per lunghi soggiorni all'estero. Tanto più che nel sud i Vichinghi maschi trovarono piacevoli occasioni per dimenticare i difficili problemi domestici.
E a proposito di pepe e di Crociate:

Il pepe si sa è un potente afrodisiaco. Privati del pepe, gli Europei riuscirono a stento  a controbilanciare le perdite di vite umane causate da baroni locali, guerrieri scandinavi,invasori ungheresi, e pirati arabi. la popolazione diminuì, le città si spopolarono mentre foreste e paludi si estesero sempre di più. Persa ogni speramza in una vita migliore in questo mondo, la gente pose sempre più le proprie speranze nella vita nell'al di là e l'idea di riompense in Cielo l'aiutò a sopportare la mancanza di pepe su questa terra.

Non anticipo altro di questo delizioso libro di storia per non togliere al possibile lettore il piacere della scoperta, che è sempre logica ma sorprendente.
Le leggi fondamentali della stupidità  umana sono quattro e qui vengono ampiamente spiegate anche con l'ausilio di grafici, utili per analizzare noi stessi e i nostri conoscenti.
Per concludere,  una lettura  erudita. ma fresca e leggera come un romanzo di Wodehouse.

lunedì 20 agosto 2012

Giorgio Bocca PALMIRO TOGLIATTI - Editori Laterza 1973 - £ 45.000


  
 Sono passati 48 anni dalla morte di Palmiro Togliatti a Yalta, due generazioni di italiani sono nate e cresciute nel frattempo avendone solo sentito parlare, senza averne percepito la grande autorità e il prestigio che riscuoteva anche tra gli avversari politici. In occasione di questo anniversario mi sembra utile presentare questa bella, esauriente e niente affatto partigiana biografia di Giorgio Bocca che, come è noto, non aveva peli sulla lingua e nessuna simpatia per i comunisti.

Palmiro Togliatti è ricordato come uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, parlava con voce nasale, un intellettuale avaro nei sentimenti, un politico scaltro che conosceva la langue russe, cinico. Resta allora da spiegare perché l'Italia proletaria fu pronta all'insurrezione armata quando si attentò alla sua vita, e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica e, comunque, uno di cui si era debitori di mutamenti importanti.

Per gli italiani e per il mondo, quei funerali rimangono come la rivelazione di un rapporto umano e politico che sfugge ad una definizione esauriente, ma che conferma il ruolo storico del personaggio. Quegli incredibili funerali! Un milione di persone al seguito del feretro, gente arrivata da ogni parte d'Italia, comunisti e non comunisti, gente che ha preso il primo treno, il primo aereo per vederlo l'ultima volta nella camera ardente dove montano la guardia d'onore i grandi del comunismo mondiale, da Leonid Brežnev a Dolores Ibarruri e dove giungono i messaggi di cordoglio di tutti i partiti operai che piangono in lui il grande dirigente.

Un milione di persone dietro il feretro e altre centinaia di migliaia lungo il percorso da via delle Botteghe Oscure, dove è la direzione comunista, per piazza Venezia, via dei Fori Imperiali, via Cavour, fino a S.Giovanni, che salutano con il pugno chiuso o chinando il capo, o segnandosi con la croce, donne e uomini in lacrime come se piangessero un loro padre. Ma l'uomo che è morto non è colui che ha sempre ritenuto la politica cosa troppo importante per lasciarla fare alla gente semplice? Eppure in piazza S.Giovanni la folla sta per sommergere il palco su cui Longo, dinanzi al feretro, pronuncia l'orazione funebre e Brežnev dirà ai compagni del Comitato centrale di non aver mai visto una tale commozione popolare.

Parlano anche Ferruccio Parri, Umberto Terracini, Fernando Santi, Francesco De Martino, uomini politici da lui trattati con durezza, con ironia, con sufficienza; eppure c'é della sincerità nel loro cordoglio. Che cosa è che essi e gli italiani piangono in quell'uomo? Perché i più grandi e alteri capi del movimento comunista, da Stalin a Mao, da Totskij a Dimitrov, lo hanno ascoltato, ne hanno seguito i consigli e comunque lo hanno rispettato?
Queste sono le domande a cui Giorgio Bocca cerca di rispondere, nella bella e completa biografia di Palmiro Togliatti, effigiato nella sopracopertina da un disegno eseguito da Bucharin nel 1928, per dire il personaggio.

 Il 21 agosto del 1964, eravamo in casa a festeggiare il quarto anno di mio figlio, quando un invitato entrando mi disse che Togliatti era morto. L'Unità quella mattina aveva riportato la notizia che era stato sottoposto ad un intervento chirurgico.Il giorno dopo così titolavano l'Unità e Paese Sera:





















Andai in via delle Botteghe Oscure e per la prima volta entrai nel Bottegone, come veniva chiamato affettuosamente dai compagni e con livore dagli avversari, il palazzone rosso d'angolo, a ridosso di piazza Venezia.

 Al centro dell'androne, inventato da Giò Pomodoro, una stella d'oro a cinque punte incassata nell'opus incerto del pavimento (*) il feretro coperto dal tricolore, ai quattro lati come impietriti, quattro compagni a turno montavano la guardia d'onore; si davano il cambio dirigenti di partito, delegazioni operaie, delegazioni di partito straniere.

Con la mia piccola Ferrania scattai queste foto.




















E' passato quasi mezzo secolo da allora ed è difficile dire che le cose nel frattempo  siano migliorate: non c'è più il PCI e l'URSS,  tutto il blocco comunista è scomparso, il mondo non è più diviso da blocchi politico-militare contrapposti, ma lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non è stato sconfitto, di guerre cruente ce ne sono state ancora, il divario tra paesi poveri e paesi ricchi si è accentuato,  il capitalismo ha stravinto ed ha imposto una globalizzazione economica dissennata che rischia ora, di schiacciare anche paesi democratici  che si ritenevano sicuri delle loro economie.

Il futuro è incerto e  l'umanità non sembra più in grado di credere che possa, un giorno, brillare  il sol dell'avvenire. Amen.







* Miriam Mafai "Botteghe Oscure, addio"





domenica 19 agosto 2012

MOEBIUS - VENEZIA CELESTE - Milano Libri 1984 - £ 22.000

            





                                                                                                                                                                       
Jean Giraud (1938-2012) meglio conosciuto come Moebius (e per un certo periodo come Gir) è stato uno dei più importanti disegnatori di fumetti del mondo, particolarmente versato nelle storie fantastiche.

Nel libro di immagini che presento, Venezia Celeste, vi sono molte storie disegnate con stili diversi, dove la fantasia del grande artista ha modo di spaziare senza limiti, e il segno grafico, preciso al limite della minuziosità, si alterna a figure dove la cromaticità delle tavole ha trasparenze irreali che rimandano ad esperienze di trascendenza.


















Così Milo Manara, nel presentare l'opera di Moebius:

Si, il disegno di Moebius è un disegno mistico.  Potrei prolungare per ore questo tentativo di analisi, assaporando la possibilità di penetrare questo mistero meraviglioso che è il disegno di Moebius, fatto di magia e di scienza, Ma la paura di smarrirmi, il timore di immiserire tutto seguitando in questa sterile scomposizione mi costringono a tacere.















Illuminante quanto scrive Moebius a proposito di Venezia:
Venezia è un luogo elaborato in maniera molto cosciente dalla sua popolazione. In più c'è unaccordo a livello planetario perché Venezia rimanga un luogo della bellezza. Bellezza resa più eccitante proprio dal fatto di essere minacciata. Una bellezza che si conserva sul luogo, a disposizione del mondo. Ogni pietra è un evento, ogni muro di mattoni un dipinto, ogni prospettiva di stradine è stata costruita da migliaia di vite, da artisti ignari e geniali, non sempre consapevoli di ciò che stavano creando. Nessuna impresa cosciente può eguagliare l'accumulazione di creatività selvaggia che è propria delle città antiche.
Sopra e sotto immagini per il progetto Internal Trasfert




giovedì 16 agosto 2012

Thornton Wilder - IDI DI MARZO - Mondadori 1966 - £ 350


Thornton Wilder (1897-1975) scrittore e drammaturgo statunitense, dedicò questo romanzo storico, scritto nel 1948, allo scrittore, poeta e antifascista Lauro De Bosis - che aveva tradotto il suo romanzo più famoso, Il Ponte di San Luis Rey, il primo dei tre Premi Pulizer vinti dallo scrittore.

La forma scelta da Thornton è quella del romanzo epistolare, dove tutti gli attori della vicenda  che ruota intorno a Cesare, nell'ultimo periodo della repubblica romana, si scambiano messaggi, lettere, rapporti, appunti; mettendo in luce, viste dall'interno, i conflitti, le speranze, i drammi, gli amori e le tragedie che caratterizzano quel periodo storico.

La figura centrale è ovviamente Cesare che, nel coacervo di opinioni che i vari attori della vicenda esprimono, ne esce ingigantita; ma l'aspetto che maggiormente mi ha sorpreso, fin dalla prima volta che lo lessi molti anni or sono, della personalità di Cesare qui ricostruita, è il suo dichiarato intento di abolire e/o modificare il fardello di superstizioni che condizionavano la vita di Roma.

Scrive Cesare all'amico Lucio Mamilio Turrino, nel volontario reclusorio di Capri:

Accludo nel plico di questa settimana una mezza dozzina degli innumerevoli rapporti che, quale Pontefice Massimo, ricevo dagli Aùguri, Indovini, Astrologhi e Bambinaie di polli.
Accludo pure le direttive che ho impartire per la Commemorazione mensile della Fondazione della Citta.
Che Fare?
Ho ereditato questo fardello di superstizioni e di sciocchezze. Domino innumerevoli uomini ma sono dominato da uccelli e colpi di tuono.
Tutto questo intralcia spesso le operazioni di Stato; chiude i battenti del Senato e dei Tribunali per giorni e a volte per settimane intere. Coinvolge parecchie migliaia di persone. Chiunque vi abbia a che fare, Pontefice Massino compreso, lo manipola per i propri interessi.
Sopratutto, però, queste pratiche intaccano e corrodono lo spirito vitale stesso nella mente degli uomini. Suscitano nei nostri Romani, dagli spazzini ai consoli, un vago senso di fiducia dove fiducia non c'è da avere e insieme una paura dilagante, una paura che non spinge all'azione e neanche desta sentimenti nobili, ma si limita a paralizzare.
.....................
Non sono dedito alla meditazione, ma spesso mi sorprendo a maditare su questa faccenda.
Che fare?
A volte, nel cuore della notte, cerco d'immaginare che cosa succederebbe se abolissi ogni cosa; se, Dittatore e Pontefice Massimo, abolissi tutte le pratiche dei giorni propizi e sfavorevoli, di viscere e di voli d'uccelli, di tuoni e di lampi, se chiudessi tutti i templi tranne quelli di Giove Capitolino.
Certo, non è una ricostruzione storica, ma il Cesare qui partorito dalla fantasia di un grande autore, oltre che essere dal punto di vista umano più simpatico che in molte biografie lette, ce lo rendono più vicino e credibile, in una parola moderno nel suo insanabile pessimismo. Scrive ancora a Lucio Milio Turrino:

Probabilmente il mio ultimo istante di coscienza sarà riempito dall'ultima conferma che le cose del mondo procedono con la stessa irragionevolezza con la quale un fiume trasporta le foglie nel suo corso.

Una ri-lettura piacevolissima, che consiglio a quanti non lo avessero ancora fatto, approfittando della ristampa fatta da Sellerio.


domenica 12 agosto 2012

Annie Vivanti - NAJA TRIPUDIANS - Mondadori 1970 - £ 500


Tra le singolarità letterarie che l'estro del momento e la cospiqua riserva cartacea a disposizione mi consente, non poteva mancare Annie Vivanti, nata a Londra nel 1866 dove il padre Anselmo, patriota e garibaldino, aveva trovato rifugio dopo i moti del 1851; imparò prima dell'italiano l'inglese e il tedesco della madre Anna Lindau.

Nel 1889 la Vivanti si presentò a Carducci con un biglietto così concepito:

Audaces fortuna iuvat
Se l'aiuto è in proporzione all'audacia, Voi Signore, che oggi per me rappresentate la fortuna, mi sarete benigno. Sono donna, ho vent'anni, e vengo da lontano assai onde vederVi. Non sono italiana, ma profonda ammiratrice del Vostro linguaggio e di Voi, il più forte dei suoi poeti. Sventura vuole che io scriva versi; e quell'unica frase di latino ch'io conosco mi ispira la temerarietà di mandarVene. Ora: o li getterete via senza leggerli (e sarà male!) o li leggerete e poi li getterete via (e sarà peggio) o leggerete due versi - ed a me permetterete di vederVi. Se ciò fosse, debbo venir io da Voi? o vorrete onorarmi di una Vostra visita qui? E quando? Con grande stima ed ammirazione.
                                                                                         Annie Vivanti

Carducci cercò di sottrarsi sia all'incontro che al giudizio, accampando scuse legate ai numerosi impegni, ma la Viviani più esperta in mondanità e spirito lo prese in parola dicendosi disposta ad aspettare come Esaù che attese 14 anni per giungere alla dubbia felicità di sposare la figlia del vecchio Giacobbe

Ora per poter salutar Voi, credo d'esser io più giustificata ad attendere (fosse anche altrettanto tempo!) che non lo fosse lo sposo di Rebecca. Ed attenderò.

Nella schermaglia  la determinazione della giovane  poetessa ebbe naturalmente la meglio e Carducci non solo corresse i suoi versi e la incontrò, ma scrisse la prefazione al primo volume di versi Lyrica, la presentò alla Regina che l'intrattenne, insieme furono a trovare Verdi; la frequentò tanto da eccitare la fantasia nel paese che si produsse in infiniti  pettegolezzi su una loro presunta relazione.

Tra i primi versi che la Viviani inviò a Carducci c'è questa filastrocca, intitolata Ego, che è una biografia e un autoritratto esemplare:

Il Mondo ha spalancato i suoi mille occhi
E chi sei tu? mi grida: e cosa fai?
Dimmi la fede tua, l'età, la patria,
Che cerchi, donde vieni e dove vai!

Del mio paese chiedi? Io ti rispondo
Non ho paese: è mia tutta la terra!
La patria mia qual'è? Mamma è tedesca,
Babbo italiano, io nacqui in Inghilterra

E quale la mia fede? Io vado a messa;
La musica mi edifica e ricrea:
Ma sono battezzata protestante,
Di nome e di profilo sono ebrea.

Chiedi dell'età mia? quasi vent'anni.
E quale la mia meta? Ancor l'ignoro.
Che cerco? Nulla, attendo il mio destino.
E rido e canto e piango e m'innamoro.

Questo romanzo scritto nel 1921, è fra le opere più vive della Viviani. Naja Tripudians è un cobra pieno di meravigliosa grazia che nasconde un veleno mortale.  Simile a quello stesso che subdolamente si respira tra lo sfarzo elegante dell'aristocrazia, corrotta e decadente, che attrae, abbagliandole con lo sfarzo e il lusso, due giovannissime fanciulle per corromperne l'innocente bellezza.

Gli ultimi anni della Viviani furono tristissimi, così li descrive Pietro Pancrazi:

Qusta donna e scrittrice che era per due volte comparsa con tanto estro e spicco nella vita italiana, ne fu poi improvvisamente addirittura bandita. Durante la guerra, perché suddita inglese ed ebrea la Vivanti fu costretta a lasciare Torino dove aveva la casa e gli amici, e a rifugiarsi confinata in Arezzo. Qui nel 1941 le giunse notizia che erano morti a Londra sotto un bombardamento la figlia Vivien e il marito Richard Young. L'anno dopo anche Annie Vivanti moriva in Torino il 20 febbraio 1942; e, dalla censura di allora, ai tanti memori amici che aveva, artisti, scrittori e giornalisti, non fu concesso farne pubblico ricordo. Tutti e tutto sparito.