«Tranquillo, non è il solito romanzetto rosa» mi disse
l'anziana signorina della libreria, porgendomi il volume, e anticipando il rifiuto che aveva letto nella mia
espressione, «se le è piaciuta la Sagan, vedrà, la Simonet è ancora più
pungente e ironica». A me la Sagan non era piaciuta affatto, forse perché
leggendola molti anni dopo il suo clamoroso esordio, non ne avevo colto la
carica dissacratoria di quel mondo borghese ipocrita, appena uscito dalla
guerra.
«La Simonet è vissuta in una Parigi diversa da quella della
Sagan, una Parigi favolosa, alla fine della Belle Époque». La simpatica
signorina di mezza età che gestiva la piccola libreria in Prati, doveva avermi
scelto come suo lettore ideale, da plasmare secondo i suoi gusti letterari;
forse suggestionata da alcuni libri di poesia che avevo acquistato nelle mie
prime visite, ed ogni volta che entravo da lei, mi proponeva qualcosa che
dovevo assolutamente leggere. Un po' per debolezza, un po' per cortesia e un
po' anche per non deludere l'immagine che doveva essersi fatta di me,
acquistavo senza fiatare le sue proposte di lettura, senza grosse delusioni
veramente, ma anche senza scoperte clamorose: la verità è che cominciavo a
stancarmi di questa forma di condizionamento.
«No, non credo che possa interessarmi» le dissi,
restituendole il libro che avevo svogliatamente sfogliato, «non è il mio
genere». Mi guardò con aria divertita: «E qual è il suo genere?» mi chiese
interessata, senza alcun intento ironico. Bella domanda, mi dissi, qual è il
mio genere? La mia passione per la lettura era cresciuta in modo spontaneo e
disordinato, senza nessuna regola, neanche quella ingenua che aveva formato il
mio idolo di adolescente, Martin Eden: cioè l'ordine alfabetico.
A quel tempo amavo il linguaggio diretto e sincopato degli
americani della lost generation, solo da poco, grazie a Lo Scialo di Pratolini,
mi ero avvicinato agli italiani e le scoperte erano state tante e coinvolgenti.
«Albertine Simonet è un personaggio centrale di Alla
ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust. Non mi dica che non l'ha letto?»
l'espressione di sorpresa, ma anche di sottinteso rimprovero con la quale mi
poneva la domanda, mi lasciò sconcertato e risposi, impacciato, che i molti
impegni di lavoro non mi lasciavano il tempo necessario per un'impresa così
impegnativa.
«Si, lo so, è la scusa di tutti i pigri, ma lei dà
l'impressione di cercare qualcosa di più dalla lettura, che il semplice
passatempo, o la curiosità. Lo so, la recherche richiede impegno,
concentrazione, ma ciò che se ne riceve in cambio, ha un valore di gran lunga
superiore all'impegno profuso, senza considerare il piacere di esser preso come
da un incantesimo».
Imbarazzato, quasi mi scusai per quella grave lacuna nelle
mie letture, che promisi di colmare in tempi migliori.
Per tornare al volumetto della Simonet, la gentile libraia
mi raccontò, per sommi capi, la storia di quel libro. Era la ristampa di una
traduzione che era uscita nei primi anni cinquanta ad opera di un letterato
italiano, residente da anni a Parigi, che ne aveva curato la traduzione, amico nientemeno di Colette. Sembra che fu
Colette a spingere Albertine Simonet,
cui era legata da affettuosa amicizia, a scrivere questa autobiografia
ed a curarne la pubblicazione.
Non potei fare a meno di portarmi a casa il libro, con la
segreta intenzione di regalarlo ad una mia amica, lettrice onnivora quanto
accanita.
Come spesso accade, soprattutto nelle case disordinate, il
libro della Simonet scomparve nel mare magnum cartaceo e da allora se ne
persero le tracce, ma non dispero di ritrovarlo
ora che giudicherei preziosa quella lettura.
(La copertina è una ricostruzione di fantasia, sul ricordo
di quella vista tanti anni fa)