domenica 19 agosto 2012

MOEBIUS - VENEZIA CELESTE - Milano Libri 1984 - £ 22.000

            





                                                                                                                                                                       
Jean Giraud (1938-2012) meglio conosciuto come Moebius (e per un certo periodo come Gir) è stato uno dei più importanti disegnatori di fumetti del mondo, particolarmente versato nelle storie fantastiche.

Nel libro di immagini che presento, Venezia Celeste, vi sono molte storie disegnate con stili diversi, dove la fantasia del grande artista ha modo di spaziare senza limiti, e il segno grafico, preciso al limite della minuziosità, si alterna a figure dove la cromaticità delle tavole ha trasparenze irreali che rimandano ad esperienze di trascendenza.


















Così Milo Manara, nel presentare l'opera di Moebius:

Si, il disegno di Moebius è un disegno mistico.  Potrei prolungare per ore questo tentativo di analisi, assaporando la possibilità di penetrare questo mistero meraviglioso che è il disegno di Moebius, fatto di magia e di scienza, Ma la paura di smarrirmi, il timore di immiserire tutto seguitando in questa sterile scomposizione mi costringono a tacere.















Illuminante quanto scrive Moebius a proposito di Venezia:
Venezia è un luogo elaborato in maniera molto cosciente dalla sua popolazione. In più c'è unaccordo a livello planetario perché Venezia rimanga un luogo della bellezza. Bellezza resa più eccitante proprio dal fatto di essere minacciata. Una bellezza che si conserva sul luogo, a disposizione del mondo. Ogni pietra è un evento, ogni muro di mattoni un dipinto, ogni prospettiva di stradine è stata costruita da migliaia di vite, da artisti ignari e geniali, non sempre consapevoli di ciò che stavano creando. Nessuna impresa cosciente può eguagliare l'accumulazione di creatività selvaggia che è propria delle città antiche.
Sopra e sotto immagini per il progetto Internal Trasfert




giovedì 16 agosto 2012

Thornton Wilder - IDI DI MARZO - Mondadori 1966 - £ 350


Thornton Wilder (1897-1975) scrittore e drammaturgo statunitense, dedicò questo romanzo storico, scritto nel 1948, allo scrittore, poeta e antifascista Lauro De Bosis - che aveva tradotto il suo romanzo più famoso, Il Ponte di San Luis Rey, il primo dei tre Premi Pulizer vinti dallo scrittore.

La forma scelta da Thornton è quella del romanzo epistolare, dove tutti gli attori della vicenda  che ruota intorno a Cesare, nell'ultimo periodo della repubblica romana, si scambiano messaggi, lettere, rapporti, appunti; mettendo in luce, viste dall'interno, i conflitti, le speranze, i drammi, gli amori e le tragedie che caratterizzano quel periodo storico.

La figura centrale è ovviamente Cesare che, nel coacervo di opinioni che i vari attori della vicenda esprimono, ne esce ingigantita; ma l'aspetto che maggiormente mi ha sorpreso, fin dalla prima volta che lo lessi molti anni or sono, della personalità di Cesare qui ricostruita, è il suo dichiarato intento di abolire e/o modificare il fardello di superstizioni che condizionavano la vita di Roma.

Scrive Cesare all'amico Lucio Mamilio Turrino, nel volontario reclusorio di Capri:

Accludo nel plico di questa settimana una mezza dozzina degli innumerevoli rapporti che, quale Pontefice Massimo, ricevo dagli Aùguri, Indovini, Astrologhi e Bambinaie di polli.
Accludo pure le direttive che ho impartire per la Commemorazione mensile della Fondazione della Citta.
Che Fare?
Ho ereditato questo fardello di superstizioni e di sciocchezze. Domino innumerevoli uomini ma sono dominato da uccelli e colpi di tuono.
Tutto questo intralcia spesso le operazioni di Stato; chiude i battenti del Senato e dei Tribunali per giorni e a volte per settimane intere. Coinvolge parecchie migliaia di persone. Chiunque vi abbia a che fare, Pontefice Massino compreso, lo manipola per i propri interessi.
Sopratutto, però, queste pratiche intaccano e corrodono lo spirito vitale stesso nella mente degli uomini. Suscitano nei nostri Romani, dagli spazzini ai consoli, un vago senso di fiducia dove fiducia non c'è da avere e insieme una paura dilagante, una paura che non spinge all'azione e neanche desta sentimenti nobili, ma si limita a paralizzare.
.....................
Non sono dedito alla meditazione, ma spesso mi sorprendo a maditare su questa faccenda.
Che fare?
A volte, nel cuore della notte, cerco d'immaginare che cosa succederebbe se abolissi ogni cosa; se, Dittatore e Pontefice Massimo, abolissi tutte le pratiche dei giorni propizi e sfavorevoli, di viscere e di voli d'uccelli, di tuoni e di lampi, se chiudessi tutti i templi tranne quelli di Giove Capitolino.
Certo, non è una ricostruzione storica, ma il Cesare qui partorito dalla fantasia di un grande autore, oltre che essere dal punto di vista umano più simpatico che in molte biografie lette, ce lo rendono più vicino e credibile, in una parola moderno nel suo insanabile pessimismo. Scrive ancora a Lucio Milio Turrino:

Probabilmente il mio ultimo istante di coscienza sarà riempito dall'ultima conferma che le cose del mondo procedono con la stessa irragionevolezza con la quale un fiume trasporta le foglie nel suo corso.

Una ri-lettura piacevolissima, che consiglio a quanti non lo avessero ancora fatto, approfittando della ristampa fatta da Sellerio.


domenica 12 agosto 2012

Annie Vivanti - NAJA TRIPUDIANS - Mondadori 1970 - £ 500


Tra le singolarità letterarie che l'estro del momento e la cospiqua riserva cartacea a disposizione mi consente, non poteva mancare Annie Vivanti, nata a Londra nel 1866 dove il padre Anselmo, patriota e garibaldino, aveva trovato rifugio dopo i moti del 1851; imparò prima dell'italiano l'inglese e il tedesco della madre Anna Lindau.

Nel 1889 la Vivanti si presentò a Carducci con un biglietto così concepito:

Audaces fortuna iuvat
Se l'aiuto è in proporzione all'audacia, Voi Signore, che oggi per me rappresentate la fortuna, mi sarete benigno. Sono donna, ho vent'anni, e vengo da lontano assai onde vederVi. Non sono italiana, ma profonda ammiratrice del Vostro linguaggio e di Voi, il più forte dei suoi poeti. Sventura vuole che io scriva versi; e quell'unica frase di latino ch'io conosco mi ispira la temerarietà di mandarVene. Ora: o li getterete via senza leggerli (e sarà male!) o li leggerete e poi li getterete via (e sarà peggio) o leggerete due versi - ed a me permetterete di vederVi. Se ciò fosse, debbo venir io da Voi? o vorrete onorarmi di una Vostra visita qui? E quando? Con grande stima ed ammirazione.
                                                                                         Annie Vivanti

Carducci cercò di sottrarsi sia all'incontro che al giudizio, accampando scuse legate ai numerosi impegni, ma la Viviani più esperta in mondanità e spirito lo prese in parola dicendosi disposta ad aspettare come Esaù che attese 14 anni per giungere alla dubbia felicità di sposare la figlia del vecchio Giacobbe

Ora per poter salutar Voi, credo d'esser io più giustificata ad attendere (fosse anche altrettanto tempo!) che non lo fosse lo sposo di Rebecca. Ed attenderò.

Nella schermaglia  la determinazione della giovane  poetessa ebbe naturalmente la meglio e Carducci non solo corresse i suoi versi e la incontrò, ma scrisse la prefazione al primo volume di versi Lyrica, la presentò alla Regina che l'intrattenne, insieme furono a trovare Verdi; la frequentò tanto da eccitare la fantasia nel paese che si produsse in infiniti  pettegolezzi su una loro presunta relazione.

Tra i primi versi che la Viviani inviò a Carducci c'è questa filastrocca, intitolata Ego, che è una biografia e un autoritratto esemplare:

Il Mondo ha spalancato i suoi mille occhi
E chi sei tu? mi grida: e cosa fai?
Dimmi la fede tua, l'età, la patria,
Che cerchi, donde vieni e dove vai!

Del mio paese chiedi? Io ti rispondo
Non ho paese: è mia tutta la terra!
La patria mia qual'è? Mamma è tedesca,
Babbo italiano, io nacqui in Inghilterra

E quale la mia fede? Io vado a messa;
La musica mi edifica e ricrea:
Ma sono battezzata protestante,
Di nome e di profilo sono ebrea.

Chiedi dell'età mia? quasi vent'anni.
E quale la mia meta? Ancor l'ignoro.
Che cerco? Nulla, attendo il mio destino.
E rido e canto e piango e m'innamoro.

Questo romanzo scritto nel 1921, è fra le opere più vive della Viviani. Naja Tripudians è un cobra pieno di meravigliosa grazia che nasconde un veleno mortale.  Simile a quello stesso che subdolamente si respira tra lo sfarzo elegante dell'aristocrazia, corrotta e decadente, che attrae, abbagliandole con lo sfarzo e il lusso, due giovannissime fanciulle per corromperne l'innocente bellezza.

Gli ultimi anni della Viviani furono tristissimi, così li descrive Pietro Pancrazi:

Qusta donna e scrittrice che era per due volte comparsa con tanto estro e spicco nella vita italiana, ne fu poi improvvisamente addirittura bandita. Durante la guerra, perché suddita inglese ed ebrea la Vivanti fu costretta a lasciare Torino dove aveva la casa e gli amici, e a rifugiarsi confinata in Arezzo. Qui nel 1941 le giunse notizia che erano morti a Londra sotto un bombardamento la figlia Vivien e il marito Richard Young. L'anno dopo anche Annie Vivanti moriva in Torino il 20 febbraio 1942; e, dalla censura di allora, ai tanti memori amici che aveva, artisti, scrittori e giornalisti, non fu concesso farne pubblico ricordo. Tutti e tutto sparito.

sabato 11 agosto 2012

Aldo Salvo - MAL DI ROMA - il Ventaglio 1986 - £ 12.000



Più che diffidenza ho una vera fobia per tutti quei tentativi che, periodicamente, vengono attuati per equiparare le ragioni di chi combatté nella resistenza e chi a fianco dei nazisti. Quando poi queste vere e proprie falsificazioni storiche vengono compiute da figure istituzionali l'indignazione si tramuta in collera.

Che poi, singolarmente, ognuno parli della propria esperienza, delle motivazioni che portarono a schierarsi da una parte o dall'altra, nulla da eccepire, in democrazia  è normale dialettica.

E' il caso di questo libricino di Aldo Salvo, giornalista radiofonico della Rai, che costruisce con sapiente dosaggio una avvincente e sofferta storia, raccontata da una visuale inconsueta, con due uscite di assoluta insicurezza, come ci ricorda l'autore nella breve prefazione. 

Nella lanterna magica della mia prima infanzia l'avevo già visto da lontano. Un idrovolante d'argento galleggiava al sole e lui accoglieva De Pinedo, ammarato sul Tevere dopo un favoloso raid. Gennariello era il nome dell'idrovolante. La seconda volta era affacciato al balcone di Palazzo Chigi, davanti a quella pasticceria dove andavo a prendere la cioccolata con mia madre. Mussolini sul balcone aveva un cerotto al naso perché una donna irlandese gli aveva sparato in Campidoglio, sbagliandolo d'un soffio. La piazza era picchiettata di alà-la alalà, uno urlava più di tutti che Dio era con noi. Lui aveva molta fretta perché doveva partire. Queste cose le ho viste perché c'ero, ma le parole delle immagini si rinfrescavano spesso in famiglia. La pasticceria si chiamava Egidi e mia madre dondolava un po' la testa quando l'orchestrina suonava nel pomeriggio.
Bibo, come affettuosamente la madre, mezza nobile, chiama il giovane narratore, osserva Roma degli anni '30, vive la sconvolgente notizia della morte del padre, ufficiale-ingegnere, trucidato coi suoi uomini dagli abissini nel '35, medaglia d'oro alla memoria; gli amici del liceo, uno dei più austeri, le prime esperienze sessuali prima dei fatidici diciott'anni.

Fu nella generale euforia per la seconda vittoria dell'Italia ai mondiali di calcio che finalmente colsi la meta più tirata.
Fuori legge sulla porta non mi chiesero i documenti, la sigaretta appesa al labbro, il fumo che m'accecava un occhio. Si e no diciassettenni io e Mario e Berto, forza Bibo va avanti tu. Svolazzi di veli sulla carne nuda, pupazze molli che costavano i soldi rubati nel cassetto. Quelle giocavano in casa con gli uomini un po' vergognosi, sul divano tutt'intorno nel salone. Io sono di Cremona: turùn, turàs e tetàs, vedere e non palpare. Sveglia, smidollati, ragazzi in camera. Io sono Rosa la libidinosa. Bocche tonde, tacchetti che scendono le scale: era piccolo così, era grosso così, lo chiamavan Bombolo... Dai buttati se no te la fregano. Ma come si fa così presto. No, aspetto la prossima. Che sono un novellino si capisce a naso  e lei si siede di botto sulle ginocchia - mi chiamo Luana - bacia con l'alito di dentifricio, fa scena, sono acceso come un tizzo e se non mi trascinasse su prenderei il fugone col cuore penzoloni tra le gambe.
Salvo usa una prosa  essenziale e descrittiva, che diventa lirica quando racconta Roma:

Sopra i tetti di Sant'Eustachio la cupola di Sant'Ivo alla Sapienza sfiammava sempre in cielo il più bel Barocco di zucchero e d'incenso. Chissà se mio padre aveva ragione prima quando si scatenava contro il Barocco, sottolineando in rosso il Capitale, chissà se aveva ragione dopo quando voleva fecondare l'impero. Doveva pur esserci un qualche nesso.
Tutte le ombre dei vicoli le conoscevo, lente e solitarie, nel passo del giorno e delle stagioni si muovevano poggiando un po' qua e un po' là, intime come le ombre di casa mia, anzi già casa mia. E sotto i tetti di Sant'Eustacchio facevo apposta ad arrivare giocandoci a nascondarella, allora alzavo la testa di scatto e la cupola di Sant'Ivo eccola là, t'ho presa. Che Roma, che Roma. E la cupola sorrideva senza rancori per mio padre in paradiso.

Gli eventi incalzano, la guerra di Spagna,  il Duce a Monaco nel ruolo di grande mediatore, nel frattempo le leggi raziali costringono una cara amica ebrea a scappare a Marsiglia e intanto arriva il 10 giugno del 1940, l'ora delle decisioni irrevocabili...

A Largo Argentina incontrai Berto e Mario che stavano a sentire alcuni universitari in sahariana nera. Erano molto su di giri e parlavano difficile: la nemesi, la palingenesi, la vittoria che darà un ordine nuovo all'Europa, una giusta ridistribuzione delle ricchezze. Ma io volevo proprio metterci il becco: passi con l'Inghilterra, ma ci facciamo una figura cacina con la Francia che è già in ginocchio. Dopo una pausa di sconcerto, uno dei neri coi capelli rossi mi prese di petto: vuoi scherzare o dici sul serio? Dico sul serio. Sei uno sporco disfattista e via, andata e ritorno, finché mi tirò una sberla e ci avvinghiammo. Urlavano tutti e il crocchio si gonfiò, Mario un salvagente: è figlio di una medaglia d'oro. Fermi tutti, fece Berto con timbro poliziesco. Ti va liscia per tuo padre, grugnì il nero col fiatone. Mi trascinarono verso l'imbocco della mia via. Basta, piantatela e finì lì. In Piazza della Minerva l'elefantino era lucidissimo sotto il primo cielo di guerra. Una squadra di operai stava già dipingendo i lampioni di blu.

Non voglio raccontare il libro, che mi ha preso moltissimo, togliendo il gusto di leggerlo a quei pochi fortunati che forse riescono a trovarlo ancora in qualche bancarella, perché pur essendo solo (solo?) del 1986 è introvabile; mi limiterò a dire che le scelte di Bibo potrebbero essere due e  assolatamente contrapposte e causali e tragiche.


giovedì 9 agosto 2012

Anna Banti - ARTEMISIA - Mondadori 1974 - £ 1.000


Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti (1895-1985) non era una donna facile e non faceva nulla per sembrarlo, scostante, inavvicinabile, autoritaria; di carattere imperioso, si adattava con sforzo a praticare la diplomazia a cui certi impegni la costringevano; e soffriva in segreto, nei momenti di solitudine, di grande vulnerabilità, secondo un giudizio di Cesare Garboli. Scrittrice prolifica di decine di romanzi, assai poco letti, e alcune biografie tra le quali, un vero gioiello,  Matilde Serrao (1965).

Allieva dello storico dell'arte Roberto Longhi (1890-1970) alla terza liceo Visconti di Roma, lo sposò nel 1924. Aveva esordito come storica dell'arte collaborando alla rivista "Arte" di Adolfo Venturi, con ricerche e articoli che firmava ancora Lucia Lopresti e che, forse, sarebbe utile ristampare.  Fu lo stesso Longhi a suggerirle la strada del romanzo: a lei  piaceva scrivere storie, quella era la sua strada. Si chiamò Anna Banti e scrisse qualche racconto che piacque a Emilio Cecchi.

Questa l'avvertenza  di Anna Banti ai lettori, nella sua prosa elegante, in apertura del romanzo Artemisia:

Al Lettore
Un nuovo accostarsi e coincidere fra vita perenta e vita attuale; una nuova misura di connivenza storico-letteraria; il tentativo d'immettere nella palude bastarda dell'italiano letterario in corso, vecchie e potabilissime fonti dell'uso popolare nostrano: tali erano le ambizioni del racconto che, intitolato Artemisia, era alle ultime pagine nella primavera del 1944. In quell'estate, per eventi bellici che non avevano, purtroppo, nulla di eccezionale, il manoscritto venne distrutto.
A giustificare l'ostinazione accorata con cui la memoria non si stancò, negli anni successivi, di tener fede a un personaggio forse troppo diletto, queste nuove pagine dovrebbere, almeno, riuscire. Ma perché questa volta, l'impegno del narrare non sosteneva che la forma commemorativa del frammento, e il dettato si legava, d'istinto, a una commozione personale troppo imperiosa per essere obliterata - tradita -: credo che al lettore si debba qualche dato dei casi di Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio Gentileschi, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell'onore e nell'amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s'azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi.
Le biografie non indicano l'anno della morte.             A.B.

La forma scelta, è come una tessitura in cui ordito e trama, il presente in cui viene scritto il romanzo e i fatti di tre secoli prima,si intrecciano per costruire la storia.

Dalla bella prefazione del poeta Attilio Bertolucci:

Quel che per me è più affascinante, di Artemisia, è il peregrinare della pittrice per l'Italia, per l'Europa poi, nella ferma, assoluta, invincibile fedeltà alla vocazione per l'arte.
Una delle grandi strade del romanzo, dall'Odissea a Huck Finn, è quella dell'eroe itinerante. La Banti non se li è certo inventati, gli spostamenti e i viaggi della sua eroina, essi fanno parte della cronaca veridica d'una vita realmente vissuta. Ma che partito la scrittrice ha saputo trarre, da dati probabilmente minimi di documenti d'archivio, nel dare ritmo ai viaggi, verità alle ambientazioni, coerenza alla psicologia del personaggio a lei caro. Che prima si sposta a Firenze per desiderio del babbo Orazio, il quale però l'abbandona subito per recarsi altrove: rimasta sola a Firenze, Artemisia se la cava facendosi apprezzare dall'establishment, divenendo in un certo senso donna di moda e riuscendo all'impresa di dipingere quella Giuditta che rimane il suo quadro più celebre. E forse emblematico: con quella celebrazione della donna forte e capace, di tanta evidenza plastica e coloristica e, perché no, ideologica.



Dipinto a Napoli 1612-13 cm 158,8x125,5 Museo Capodimonte

Dipinto a Firenze 1618-20 cm 199x162,5 Galleria degli Uffizi