giovedì 20 settembre 2012

Gaia Servadio - DON GIOVANNI - L'AZIONE CONSISTE - Feltrinelli 1968 - £ 1.500



Nello scaffale della Coop di Genzano dedicato ai libri abbandonati, ho trovato questo stranissimo esperimento editoriale della Feltrinelli datato 1968, una sorta di libro bifronte: da una parte il romanzo Don Giovanni e, capovolgendo il volume, l'altro romanzo, L'azione consiste. Vederlo e farlo mio è stata questione di un attimo.

Non conosco l'autrice, apro il volume e trovo una sua paradossale biografia che vale la pena  riprodurre:





Troppo divertente! A questo punto l'interesse per lo strano libro aumenta enormemente, ma anche per la sua originale autrice.

Chi è Gaia Servadio?

 Basta rovesciare il libro è c'è la sua vera biografia. Così apprendiamo che Gaia Servadio è nata nel 1938 e risiede a Londra  dove, dopo la laurea sposa William Mostyn-Owen, storico dell'arte e assistente di Bernard Berenson. Giornalista eclettica, collabora a "Il Mondo", "L'Espresso", "Il Caffè", "La Gazzetta di Parma", "Il Corriere della Sera", "La Stampa ", "La Fiera Letteraria", "The Daily Telegraph", alla "BBC Television", alla "BBC italiana" e alla RAI. Ha esordito con il romanzo Tanto gentile e tanto onesta (1967), tradotto in molti paesi, Un'infanzia diversa (1988), Il lamento di Arianna (1988), La storia di R. (1990), E i morti non sanno (2005). Nella saggistica: Luchino Visconti (1984), La donna nel Rinascimento (1986), Mozia. Alla scoperta di una civiltà scomparsa (2003)

L'azione consiste
è la storia di due romanzi in divenire. Salomè, la moglie, scrittrice di successo, alla continua ricerca del romanzo perfetto, descrive la propria vita in appunti pieni di dettagli e di calcolate bugie, ben sapendo che il marito li leggerà. Il marito, un pigro intellettuale,  impegnato in una interminabile traduzione di Milton, legge e chiosa gli appunti della moglie, filtrando ciò che è vero da ciò che è narrazione.


Dagli appunti di Salonè:


Descrivere il marito della protagonista. E' biondo e basso. Assomiglia fisicamente ad un tenore wagneriano, in magro. Non è un personaggio importante e la relazione tra lui e la protagonista non è mai descritta. Lei ricorderà, mentre gli telefona, di come si sono incontrati e di cosa si dicono, in genere. Gli dirà che ha degli affari da discutere con il suo editore e non può tornare a colazione. Sarà a casa tardi perché poi deve andare a farsi fare delle fotografie.

Mentre il marito,  ma è lui il vero protagonista del romanzo? (perché nella narrativa chi scrive in prima persona  è protagonista), così annota:
Intanto descrivermi in questo modo. Sono biondo ma non somiglio affatto a un tenore wagneriano. Comunque Salomé non è mai stata all'opera in vita sua. Lo sapevo benissimo quando mi ha telefonato. Questo editore che tira sempre in ballo non avrebbe tempo di pubblicare un solo libro se davvero la portasse fuori ogni cinque minuti. Non che mi sia dispiaciuto. Quando lei non c'è riesco sempre a lavorare. A meno che Salomé non stia scrivendo un libro come adesso. Allora mi diverte leggermelo, così so esattamente cosa ha fatto. Il guaio è che non fa altro che scrivere libri. La telefonata con me non la descrive neanche.
Bisogna che io sia preciso e dica subito che questo non è un diario. I diari non si scrivono più e comunque quelli veri si buttano via. Questi, invece, sono pensieri che trascrivo.
Figuriamoci, un diario non lo potrebbe mai essere. Nè potrebbe essere una lettera. Pensavo che se avessi potuto corrispondere con amici avrei potuto fotocopiare i pezzi salienti dei brogliacci di Salomé, e mandare i fogli. E così sarebbe saltato fuori "il romanzo". Per eccellenza, quello non stampato. Ma con un lettore anonimo si arriva a un linguaggio più coerente. Più di finzione, se vogliamo. Ma il mio rapporto con Salomé è teatrale, quindi va benissimo.

Era il 1968, con la fine del neorealismo si andavano affermando linguaggi  che abolivano di fatto le forme  tradizionali della narrazione, questo della Servadio ne è un esempio mirabile.

Don Giovanni,  è una trasposizione moderna dal libretto di  Da Ponte, che sarebbe interessante far leggere a quel genio della regia teatrale di Carsen che ha curato una discutibile regia del Don Giovanni all'inaugurazione della Scala,  pensando di fare una cosa molto moderna. Il Don Giovanni di Gaia Servadio è del 1968 cioé di quarantacinque anni fa!

Nel complesso un libro sorprendentemente stimolante.

martedì 18 settembre 2012

Francesca Duranti - LIETO FINE - Rizzoli - 1986


Una lettura fresca, come un bicchiere d'acqua quando hai sete, come una ventata improvvisa che scompiglia i capelli, come un libro ottimista che costruisce una storia in cui il lieto fine è la conclusione non scontata, ma naturale.

Da un po' di tempo sono attratto dalla narrativa al femminile, mi sembra di scorgervi meno disperazione e un qualche elemento in più di speranza per i poveri personaggi che animano la narrativa contemporanea. 

 Mia madre bevve l'ultimo goccio di caffe, e con i gomiti appoggiati sul tavolo tenne sollevata la tazza, a metà strada tra i suoi occhi e i miei. Era una tazza di terraglia bianca con una striscia verdina, di quel colore che sembra scelto deliberatamente per dare un'ulteriuore impronta di desolazione a tutto ciò che - pubblico o privato - è comunque povero: zoccoli verniciati nelle bettole più squallide, porte di gelide aule scolastiche, moscaiole in legno e rete metallica rugginosa per contenere cibi sciatti e insufficienti. E' il colore della miseria, e per un certo periodo, subito dopo la guerra, divenne assurdamente di moda, con il nome di "verde pennicellina"

Falsario in gioventù e mercante d'arte di successo nella maturità, Aldo esce brillantemente dalla miseria cui sembrava destinato e ora può osservare, dall'alto della sua villa, la vita che si svolge nelle altre tre ville che sorgono nello stesso complesso, appartenenti alla stessa famiglia di cui vorrebbe far parte.


Sono alla finestra della mia torre guardando il parco Santini, attendendo che accada qualcosa, che lo spettacolo abbia inizio.
Certo sono in grande anticipo - cosa mai può avvenire in quest'ora bruciata? Ma non ho fretta. Il sole, il vino bianco bevuto alla piscina hanno dilatato i miei processi mentali ed essi si svolgono ora con movimenti rallentati, pigramente subacquei e in forma di spirale, sempre riavvolgendosi lungo il proprio percorso ma senza mai ritrovarsi allo stesso punto.
Una commedia brillante animata da personaggi originali, raccontati con affettuosa ironia e grande sensibilità stilistica, che ne fanno una lettura partricolarmente gradevole.

mercoledì 12 settembre 2012

Milan Kundera - L'IGNORANZA - Gli Adelphi 2005 - € 8,00


L'ignoranza cui allude Milan Kundera non ha niente a che fare con quella forma di conformismo  che ha portato decine di migliaia di persone in libreria a comprare lo stesso romanzaccio del nuovo genere, il cosiddetto mommy-porn, spinte da un pruriginoso passaparola. 

L'ignoranza a cui fa riferimento Milan Kundera è quella che determina la nostalgia (nóstos: ritorno, álgos: sofferenza), del non sapere cosa ne è della persona cara, cosa succede nel paese lontano.

Mi piace come scrive Milan Kundera, come riesce ad imbastire storie interessanti, anche trattando su quell'unico argomento che per decine di romanzi sembra averlo completamente assorbito, e cioè l'esilio, la lontananza dalla patria,  l'impossibilità del ritorno, ma sempre spaziando in tutte le direzioni, con digressioni di carattere letterario, filosofico, storico o musicale.

L'Odissea, l'epopea fondatrice della nostalgia, è nata agli albori dell'antica cultura greca. Va sottolineato: Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, è anche il più grande nostalgico. Partì (senza grande piacere) per la guerra di Troia e vi rimase dieci anni. Poi si affrettò a tornare alla natia Itaca, ma gli intrighi degli dèi prolungarono il suo periplo, dapprima di tre anni pieni dei più bizzarri avvenimenti, poi di altri sette, che trascorse, ostaggio e amante, presso la dea Calipso, la quale, innamorata, non lo lasciava andar via dalla sua isola.
Nel quinto canto dell'Odissea, Ulisse le dice: "So anch'io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla..... Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno". E Omero prosegue: "Così diceva: e il sole s'immerse e venne giù l'ombra: entrando allora sotto la grotta profonda l'amore godettero, stesi vicino uno all'altra".
 E ancora:
Non c'è niente da fare. Omero rese gloria alla nostalgia con una corona d'alloro e stabilì in tal modo una gerarchia morale dei sentimenti. Penelope sta in cima, molto al di sopra di Calipso.
Calipso, oh Calipso! Penso spesso a lei. Ha amato Ulisse. Hanno vissuto insieme sette anni. Non sappiamo per quanto tempo Ulisse avesse condiviso il letto di Penelope, ma certo non così a lungo. Eppure tutti esaltano il dolore di Penelope e irridono alle lacrime di Calipso.

Il romanzo racconta l'incontro casuale di Sylvie e Josef, due esuli cecoslovacchi, mentre tornano in patria, le loro storie diverse, le ragioni dell'esilio e l'impossibilità di stabilire un rapporto, anche perché dopo una lunga assenza "i loro ricordi non si somigliano".

venerdì 31 agosto 2012

Milan Kundera - L'ARTE DEL ROMANZO - Adelphi - 1988 - £ 12.000


Credo di fare cosa gradita ai numerosissimi estimatori di Milan Kundera proponendo la lettura (o ri-lettura) di questo fondamentale saggio su L'arte del romanzo.

Come tutte le opere di Milan Kundera, anche questo saggio è articolato in sette parti, sette è una sorta di numero magico, un numero che equivale - parola di Kundera - ad una forma musicale perfetta:

  1. La denigrata eredità di Cervantes
  2. Dialogo sull'arte del romanzo
  3. Note ispirate dai Sonnambuli
  4. Dialogo sull'arte della composizione
  5. In qualche posto là dietro
  6. Sessantasei parole
  7. Discorso di Gerusalemme: il romanzo e l'Europa
Anche come saggista Milan Kundera ha il dono stupefacente della chiarezza, e le questioni più complesse, nelle sue parole, emergono con una nitidezza da farcele comprendere come cose ovvie.

Il romanzo non indaga la realtà, ma l'esistenza. E l'esistenza non è ciò che è avvenuto, l'esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l'uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell'esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire "essere-nel- mondo". E' necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. In Kafka tutto questo è evidente: il mondo kafkiano non assomiglia ad alcuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano. Vero è che questa possibilità traspare dietro al nostro mondo reale e sembra prefigurare il nostro avvenire. Ecco perché si parla della dimensione profetica di Kafka.




Dall capitolo Sessantasei parole, alla parola LIBRO:

Mille volte ho sentito dire alla radio o alla televisione:  "...comme je le dis dans mon livre..." ("come dico nel mio libro"). La sillaba li e pronunciata molto lunga e almeno un'ottava più alta della sillaba presedente:


Ogni volta che rileggo questa voce,  da questo geniale dizionarietto di sessantasei parole, rimango incantato da tanta sottigliezza analitica: quella sillaba pronunciata un'ottava più alta e la misura della saccenteria di chi la pronuncia.

Ma il saggio di Milan Kundera è una miniera inesauribile di scoperte di cui, dentro di noi, in qualche modo, avevamo conoscenza: per esempio, sulla poesia.

I poeti non inventano le poesie
la poesia è in qualche posto là dietro
è la da moltissimo tempo
il poeta non fa che scoprirla.
Scrivere significa dunque per il poeta abbattere un muro dietro il quale si nasconde nell'ombra qualcosa di immutabile (la poesia).    Ecco perché (grazie a questo disvelamento sorprendente e improvviso) la poesia ci si offre innanzi tutto come un abbagliamento.


Alla voce Romanziere:

Il romanziere non da grande importanza alle proprie idee: E' uno scopritore che, a tentoni,  si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell'esistenza. Non è affascinato dalla propria voce, ma da una forma che insegue, e solo le forme che rispondono alle esigenze  del suo sogno fanno parte della sua opera. Fielding, Sterne, Flaubert, Proust, Faulkner, Céline, Calvino.

 Un grande libro necessario per gli amanti della lettura.

giovedì 30 agosto 2012

IL BACIO DELLA DONNA RAGNO di Manuel Puig - Einaudi (1978)




Questo è uno di quei casi in cui la visione del film ha preceduto la lettura del romanzo e, come accade di solito, il romanzo, nel confronto, è risultato migliore del film, nonostante la buona fattura del film, la bravura degli interpreti, il bravo W.Hart (Oscar e Prix a Cannes), Sonia Braga (Golden Globe) e la regia di Hector Babenco candidato all'Oscar, ma la giuria gli preferì Sidney Pollack per La mia Africa.

Questo ritornello del testo che è spesso migliore della versione filmica, è una vecchia querelle che ha a che fare con il piacere della lettura, la fantasia di chi legge e che ricostruisce senza alcuna mediazione l'intera storia.  Ma chi è Manuel Puig?


Manuel Puig (1932-1990) argentino, dopo la laurea visse a lungo a Roma dove seguì dei corsi al Centro Sperimentale di Cinematografia con C.Zavattini, sognando di scrivere per il cinema e poi a New York dove approfondì la conoscenza delle sue stelle preferite: Greta Garbo, Marlene Dietrich e Rita Hayworth.

Della passione di Puig  per il mito di Rita Hayworth troviamo conferma nel titolo del suo primo libro  Il tradimento di Rita Hayworth (1968) un intenso, moderno romanzo, dove il giovane protagonista Toto, grande collezionista di ritagli degli annunci dei film che si propiettano,  scopre il sesso e il mondo degli adulti attraverso i miti del cinema holliwoodiano.

Un libro che mi ha confermato, insieme agli altri letti, Una frase, un rigo appena del 1969 e Fattaccio a Buenos Aires del 1973, come - dopo il dirompente periodo della beat-generation nordamericano - tutte le invenzioni narrative provengano ormai solo dal Sud delle americhe e come Puig riesca ad includere linguaggi e forme diverse di narrazione, senza che mai la sperimentazione risulti fine a se stessa. 


Se Il bacio della donna ragno, grazie sopratutto al film passato più volte anche in TV, è storia troppo nota per  invogliare alla lettura, lo raccomandiano per sua forma narrativa che dovrebbe sicuramente risultare allettante.
Manuel Puig, che ha vissuta gran parte della sua breve esistenza lontano dall'Argentina, ha molto sofferto l'indifferenza quando non l'ostilità della critica del suo paese, come si evince leggendo la bellissima intervista del 1988 rilasciata a Rosa Montero, giornalista del El Pais Semanal -"Un caracol sin cocha".

Manuel Puig pertenece a ese tipo de personas que, cuando sonríen, parece que llevan el corazón entre los labios. 
Pocas veces he conocido personas que aparentaran una sinceridad tan despojada de cosmética.
Y así, cuando ríe, se parece asombrosamente a Tyrone Power, a un satinado galán de cine mudo, Valentino disfrazado de jeque árabe en apoteosis de palmeras de cartón piedra.


L'intervista completa all'indirizzo:
                 http://www.manuelpuig.blogspot.it/2008/11/un-carracol-sin-concha.html

venerdì 24 agosto 2012

Carlo M.Cipolla - ALLEGRO MA NON TROPPO - il Mulino 2012 -




Un’amica intelligente e curiosa, sempre alla ricerca di letture sfiziose mi ha fatto dono di un libricino davvero interessante edito da “il Mulino”, Allegro ma non troppo contenente due saggi di uno storico dell’economia Carlo M. Cipolla (1922-2000), dove si tratta con leggerezza e ironia di “Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo” e “Le leggi fondamentali della stupidità umana”.

L'autore, che nella sua lunga carriera universitaria ha insegnato storia dell'economia a Venezia, Torino, Pavia, Normale Superiore di Pisa e Berkley in California, ha una bibliografia di testi accademici troppo vasta per essere qui riprodotta. Un suo studio sul rapporto tra popolazioni e disponibilità energetiche "The Economic History of World Population" del 1962 (edizione italiana Uomini,tecniche,economie - Feltrinelli, 1978) gli valse la fama internazionale.

Ciò che colpisce scorrendo la lunga bibliografia di questo insigne storico, è l'originale angolo visuale dal quale analizza cause ed effetti dello sviluppo economico: tecnologia, alfabetizzazione, ma anche le conseguenze socio-economiche delle grandi  epidemie in Europa.

Dal primo saggio, Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo, apprendo che una possibile causa della fine dell'Impero Romano sia da addebitare al progressivo avvelenamento da piombo della classe aristocratica romana.
Il piombo, se ingerito o assorbito in dosi superiori ad 1 mg. al giorno, può provocare dolorosa stitichezza, perdita dell'appetito, paralisi delle estremità e infine può causare la morte. Può inoltre causare sterilità tra gli uomini e aborti fra le donne.
Non solo Plinio il Vecchio raccomandava che venissero usati recipienti di piombo e non di bronzo nella cottura dei cibi, ma il piombo veniva anche utilizzato nella fabbricazione delle tubature idriche, dei boccali dei cosmetici, delle medicine e dei coloranti. S'aggiunga che i Romani, per meglio conservare e dolcificare il vino, aggiungevano del succo d'uva non fermentato che a sua volta era stato bollito e decantato in recipienti rivestiti internamente di piombo. Così facendo, mentre ritenevano di sterilizzare il vino i Romani non si rendevano conto che sterilizzavano se stessi.
Caduta dell'Impero Romano, Medioevo, Crociate si susseguono nella narrazione con una grande finezza di spirito e così  apprendiamo che,  ad esempio, gli scandinavi, che premevano dal nord sull'Europa con sanguinose incursioni, erano spinti, oltre che da una superiore tecnologia navale, da ragioni interne:

Una recente pubblicazione norvegese afferma che notevole importanza ebbe il ruolo delle donne nella bellicosa società scandinava. Fiere e fornidabili le donne vichinghe sapevano all'occasione diventare anche pericolosamente infide e in ogni caso non si lasciarono mai sottomettere.
Non fa meraviglia che i mariti di donne così formidabili optassero per lunghi soggiorni all'estero. Tanto più che nel sud i Vichinghi maschi trovarono piacevoli occasioni per dimenticare i difficili problemi domestici.
E a proposito di pepe e di Crociate:

Il pepe si sa è un potente afrodisiaco. Privati del pepe, gli Europei riuscirono a stento  a controbilanciare le perdite di vite umane causate da baroni locali, guerrieri scandinavi,invasori ungheresi, e pirati arabi. la popolazione diminuì, le città si spopolarono mentre foreste e paludi si estesero sempre di più. Persa ogni speramza in una vita migliore in questo mondo, la gente pose sempre più le proprie speranze nella vita nell'al di là e l'idea di riompense in Cielo l'aiutò a sopportare la mancanza di pepe su questa terra.

Non anticipo altro di questo delizioso libro di storia per non togliere al possibile lettore il piacere della scoperta, che è sempre logica ma sorprendente.
Le leggi fondamentali della stupidità  umana sono quattro e qui vengono ampiamente spiegate anche con l'ausilio di grafici, utili per analizzare noi stessi e i nostri conoscenti.
Per concludere,  una lettura  erudita. ma fresca e leggera come un romanzo di Wodehouse.

lunedì 20 agosto 2012

Giorgio Bocca PALMIRO TOGLIATTI - Editori Laterza 1973 - £ 45.000


  
 Sono passati 48 anni dalla morte di Palmiro Togliatti a Yalta, due generazioni di italiani sono nate e cresciute nel frattempo avendone solo sentito parlare, senza averne percepito la grande autorità e il prestigio che riscuoteva anche tra gli avversari politici. In occasione di questo anniversario mi sembra utile presentare questa bella, esauriente e niente affatto partigiana biografia di Giorgio Bocca che, come è noto, non aveva peli sulla lingua e nessuna simpatia per i comunisti.

Palmiro Togliatti è ricordato come uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, parlava con voce nasale, un intellettuale avaro nei sentimenti, un politico scaltro che conosceva la langue russe, cinico. Resta allora da spiegare perché l'Italia proletaria fu pronta all'insurrezione armata quando si attentò alla sua vita, e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica e, comunque, uno di cui si era debitori di mutamenti importanti.

Per gli italiani e per il mondo, quei funerali rimangono come la rivelazione di un rapporto umano e politico che sfugge ad una definizione esauriente, ma che conferma il ruolo storico del personaggio. Quegli incredibili funerali! Un milione di persone al seguito del feretro, gente arrivata da ogni parte d'Italia, comunisti e non comunisti, gente che ha preso il primo treno, il primo aereo per vederlo l'ultima volta nella camera ardente dove montano la guardia d'onore i grandi del comunismo mondiale, da Leonid Brežnev a Dolores Ibarruri e dove giungono i messaggi di cordoglio di tutti i partiti operai che piangono in lui il grande dirigente.

Un milione di persone dietro il feretro e altre centinaia di migliaia lungo il percorso da via delle Botteghe Oscure, dove è la direzione comunista, per piazza Venezia, via dei Fori Imperiali, via Cavour, fino a S.Giovanni, che salutano con il pugno chiuso o chinando il capo, o segnandosi con la croce, donne e uomini in lacrime come se piangessero un loro padre. Ma l'uomo che è morto non è colui che ha sempre ritenuto la politica cosa troppo importante per lasciarla fare alla gente semplice? Eppure in piazza S.Giovanni la folla sta per sommergere il palco su cui Longo, dinanzi al feretro, pronuncia l'orazione funebre e Brežnev dirà ai compagni del Comitato centrale di non aver mai visto una tale commozione popolare.

Parlano anche Ferruccio Parri, Umberto Terracini, Fernando Santi, Francesco De Martino, uomini politici da lui trattati con durezza, con ironia, con sufficienza; eppure c'é della sincerità nel loro cordoglio. Che cosa è che essi e gli italiani piangono in quell'uomo? Perché i più grandi e alteri capi del movimento comunista, da Stalin a Mao, da Totskij a Dimitrov, lo hanno ascoltato, ne hanno seguito i consigli e comunque lo hanno rispettato?
Queste sono le domande a cui Giorgio Bocca cerca di rispondere, nella bella e completa biografia di Palmiro Togliatti, effigiato nella sopracopertina da un disegno eseguito da Bucharin nel 1928, per dire il personaggio.

 Il 21 agosto del 1964, eravamo in casa a festeggiare il quarto anno di mio figlio, quando un invitato entrando mi disse che Togliatti era morto. L'Unità quella mattina aveva riportato la notizia che era stato sottoposto ad un intervento chirurgico.Il giorno dopo così titolavano l'Unità e Paese Sera:





















Andai in via delle Botteghe Oscure e per la prima volta entrai nel Bottegone, come veniva chiamato affettuosamente dai compagni e con livore dagli avversari, il palazzone rosso d'angolo, a ridosso di piazza Venezia.

 Al centro dell'androne, inventato da Giò Pomodoro, una stella d'oro a cinque punte incassata nell'opus incerto del pavimento (*) il feretro coperto dal tricolore, ai quattro lati come impietriti, quattro compagni a turno montavano la guardia d'onore; si davano il cambio dirigenti di partito, delegazioni operaie, delegazioni di partito straniere.

Con la mia piccola Ferrania scattai queste foto.




















E' passato quasi mezzo secolo da allora ed è difficile dire che le cose nel frattempo  siano migliorate: non c'è più il PCI e l'URSS,  tutto il blocco comunista è scomparso, il mondo non è più diviso da blocchi politico-militare contrapposti, ma lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non è stato sconfitto, di guerre cruente ce ne sono state ancora, il divario tra paesi poveri e paesi ricchi si è accentuato,  il capitalismo ha stravinto ed ha imposto una globalizzazione economica dissennata che rischia ora, di schiacciare anche paesi democratici  che si ritenevano sicuri delle loro economie.

Il futuro è incerto e  l'umanità non sembra più in grado di credere che possa, un giorno, brillare  il sol dell'avvenire. Amen.







* Miriam Mafai "Botteghe Oscure, addio"