lunedì 24 agosto 2015

Heinrich Böll - E NON DISSE NEMMENO UNA PAROLA - Mondadori 1956 - £ 850



Quando questa vecchia Medusa entrò in casa, nel febbraio 1956, non suscitò in me alcuna curiosità preso com'ero, in quel periodo, da una passione esclusiva per gli scrittori americani, e in particolare per le  invenzioni narrative della trilogia USA di Dos Passos.

Di Heinrich Böll ho letto solo recentemente lo splendido romanzo L'onore perduto di Katharina Blum del 1974, (vedi):

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/10/heinrich-boll-lonore-perduto-di.html

mentre questo, E non disse nemmeno una parola, è del lontano 1953, e, come ci ricordano le macerie che incontriamo insieme  ai due protagonisti nelle loro lunghe peregrinazioni, la guerra è finita da poco e le rovine materiali della città sono il naturale scenario di quelle altrettanto dolorose dei sopravvissuti.

Il romanzo ha struttura lineare, narrato in prima persona, alternativamente, da Fred e Käte Bogner,  coniugi in crisi che vivono in miseria, separati fisicamente e moralmente, e attorniati da una umanità preoccupata di ripristinare quel benessere materiale che la guerra ha spazzato via. 

Spesso, leggendo, si ha l'impressione che l'essere cresciuto in ambiente cattolico abbia in qualche modo condizionato l'autore, che racconta un asfisiante ambiente di cattolici bigotti, con un eccesso  di vescovi, preti, sacrestie, confessionali, e  processioni che sembrano scene del profondo sud d'Italia.

   Rivestito della porpora dei martire, il vescovo incedeva, solo e isolato, tra il gruppo del Santissimo e la società corale. Le facce accaldate dei cantori avevano un aspetto smarrito, quasi stolido, come se ascoltassero mentalmente l'urlo dolce e melodioso che avevano appena interrotto.
   Il vescovo era alto e slanciato e i suoi folti capelli bianchi uscivano a sboffi di sotto il piccollo zucchetto paonazzo. Camminava dritto, a mani giunte, ma io mi accorsi che non prgava, benché avesse le mani giunte e lo sguardo fisso in avanti. La croce d'oro, sul suo petto, dondolava leggermente di qua e di là, al ritmo dei passi. Il vescovo aveva un incedere regale: le sue gambe si alternavano in un movimento largo e misurato, e a ogni passo alzava un tantito i piedi, chiusi in pantofole di marocchino rosso, sicché pareva una variazione blanda del passo da parata Era stato ufficiale. La sua faccia d'asceta era fotogenica. Si adattava benissimo per le copertine delle riviste religiose.
   A breve distanza seguivano i canonici. Due soli avevano la fortuna di possedere un viso ascetico; tutti gli altri erano grassi, o pallidissimi o rubicondi, e le loro fisionomie avevano un'aria di indignazione di cui non si riusciva a capire la causa.
   Quattro uomini in smoking reggevano il baldacchino barocco guarnito di preziosi ricami, e sotto di esso avanzava il vescovo suffraganeo, con l'ostensorio. L'ostia, benché fosse assai grande, non riuscivo a vederla bene. M'inginocchiai, feci il segno della croce, ed ebbi, per un istante, la sensazione di essere un ipocrita. Ma poi pensai che Dio era innocente e che non è ipocrisia inginocchiarsi dinanzi a lui. Quasi tutti, lungo i due marciapiedi, s'inginocchiavano. Solo un giovane col basco e con una giacca sportiva verde rimase in piedi senza togliersi il beretto dal capo né le mani dalle tasche. Mi fece piacere che almeno non fumasse. Un uomo dai capelli bianchi gli si accostò per didietro, gli bisbigliò qualcosa, e l'altro, facendo spallucce, si tolse il berretto e se lo tenne sul ventre, ma senza inginocchiarsi.
Beh, intolleranza per intolleranza, almeno quel giovane non lo hanno picchiato, come sarebbe accaduto qualche anno prima se non avesse mostrato il rispetto dovuto a una sfilata di svastiche!  Un'ultima cosa, ma che il vescovo fosse  suffraganeo o metropolita, perché precisarlo, visto che ai fini della narrazione è assolutamente irrilevante?  Mah!

Comunque, nel complesso, il romanzo mi è piaciuto.   Heinrich Böll, ricordiamo che ha meritato il premio Nobel nel 1972, ha una capacità descrittiva notevole, i protagonisti si muovono  nella città ancora devastata, osservando ogni piccola cosa, come se avessero una cinepresa che ci trasmette l'immagine di una Germania anno zero.

Il titolo è ripreso dal canto gospel He Never Said a Mumbling Word che Käte ascolta in chiesa, e chiaramente fa riferimento a Cristo che fu crocifisso e non disse nemmeno una parola. Qui sotto il link per poterlo ascoltare.

https://www.youtube.com/watch?v=7SE-In7Wf80



giovedì 20 agosto 2015

John Steinbeck - I PASCOLI DEL CIELO - I Libri del Pavone - Mondadori 1953 - £ 250


«Questa nuova iniziativa editoriale che ha il suo corrispondente nei celebri poket books americani venduti a milioni di esemplari, integra e completa, nel campo della narrativa, la Biblioteca Moderna Mondadori, con il ristampare i migliori romanzi contemporanei. A una rigorosa scelta di opere da molto tempo assenti nelle librerie e insistentemente richieste dal pubblico, la nuova collana "I libri del Pavone" unisce una elegante presentazione editoriale e tecnica. I volumi, stampati su buona carta con copertina a quattro colori verniciata, sono soprattutto destinati a penetrare dignitosamente nella rete vastissima della classe media che è sempre la più volenterosa e attenta acquirente di libri non appena il prezzo divenga accessibile. »
Con queste parole viene presentato nel Maggio del 1953 il primo numero della collana I libri del Pavone, con il romanzo I pascoli del cielo di Steinbeck, già presente dal 1940 nel catalogo Mondadori nella collana La Medusa.

Riesumando I pascoli del cielo mi chiedevo perché il mio blog  parli solo di questi vecchi libri, con i dorsi ingialliti e polverosi e le ridicole copertine illustrate come dei fumetti, poi l'ho capito: è perché parlando di questi vecchi romanzi che mi hanno appassionato quand'ero ragazzo, è come se parlassi un po' di me, come se rievocassi la mia fanciullezza e adolescenza. Di questo romanzo di Steinbeck, che entrò in casa nel dicembre 1953, mi ha sempre colpito la scena illustrata dalla copertina e l'occhiello - selvaggio amore in California - che non hanno niente, ma proprio niente a che vedere con il romanzo, né l'immagine né la scritta. Poco male, un espediente per richiamare quei potenziali lettori che potevano essere respinti dal titolo dal sapore biblico.

Questa rilettura un po' nostalgica, se devo dirla tutta, in fondo non mi ha dato quella gioia che mi aspettavo, quella che avevo provato da adolescente leggendolo la prima volta. Non certo per colpa dei personaggi che popolano la bella valle californiana,  con le loro storie, alcune molto belle, come quella delle sorelle Lopez, Rosa e Maria, che per dare impulso alla loro attività di vendita di tortillas y enchiladas, si concedono gratuitamente, ma solo a quei clienti che ne consumano in gran numero.  Più semplicemente, invecchiando, anche il piacere della lettura perde l'entusiasmo giovanile della scoperta, e si trasforma  in una pratica quotidiana di cui però non si può fare a meno.

Il romanzo è tradotto niente meno che da Elio Vittorini. Ma di Vittorini traduttore sarà bene ricordare che, non solo non capiva bene l'inglese parlato, ma neanche l'inglese scritto, secondo le dichiarazioni della moglie, Rosa Quasimodo, sorella del poeta, che aveva sposato dopo una fuitina d'amore.

 "La signora Rodocanachi faceva a Elio la traduzione letterale, parola per parola che a leggerla non si capiva niente. Lui, poi, a quelle parole dava forma. Sua era la costruzione, l'invenzione; non si legava a quelle parole fredde. Lui raccomandava sempre a lei di fare la traduzione letterale, precisa, parola per parola, articolo per articolo, frase per frase. E poi lui la trasformava in un romanzo. Erano romanzi suoi che traduceva."

Adesso si capisce perché in una traduzione di Faulkner (il Borgo?) la tasca posteriore dei pantaloni da uomo viene chiamata da Vittorini con molta inventiva, tasca deretana.



 Fu Montale a chiedere a Lucia Morpurgo Rodocanachi  (1901-1978) se fosse disposta ad eseguire per Elio Vittorini una traduzione letterale a tamburo battente da D.H. Lawrence. Ebbe così inizio un' avventura durata parecchio, durante la quale Lucia, battezzata da Montale la negresse inconnue eseguì traduzioni letterali dall' inglese, dal tedesco, dal francese, spesso così ben fatte che vi veniva mutato poco o niente per Vittorini (il quale le prometteva parte dei compensi, ma era pessimo pagatore e da lei definito negriero), per lo stesso Montale, per Sbarbaro, per Gadda (il più generoso di tutti); e tutti, che evidentemente distruggevano le lettere di lei, da cui risultavano le prove del misfatto e chiedevano caldamente il più geloso segreto. 

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/09/15/solo-per-te-lucia.html

Questo l'incipit, che chiarisce il titolo del romanzo:

   Quando nel 1776, si costruiva la sede per la Missione Carmelitana dell'Alta California, un gruppo di venti convertiti indiani abbandonavano una notte la religione e le capanne loro. Questo piccolo scisma, oltre a costituire un cattivo precedente, comprometteva il corso dei lavori nelle cave dove veniva preparato l'impasto di argilla per i mattoni.
   Dopo un breve consiglio delle autorità civili e religiose, una squadra di uomini a cavallo, comandata da un caporale spagnolo, partiva per ricondurre quelle smarrite pecorelle nel seno di Madre Chiesa. Fu un difficile viaggio che i soldati fecero su per la valle del Carmelo e poi nelle montagne, ma in capo a una settimana essi trovarono i fuggitivi dissidenti, malgrado la diabolica abilità da essi dimostrata nel nascondere le tracce del loro passaggio, e li trovarono sul fondo di un erboso canyon per il quale scorreva un torrente, occupati a dormirsela in atteggiamenti di eretico abbandono.
   Indignati, i militari li afferrarono e, senza curarsi dei loro ululati di protesta, li legarono l'uno all'altro con una lunga catena. Poi la colonna prese il cammino di ritorno per dare a quei poveri neofiti l'occasione di pentirsi nelle cave d'argilla.
   Nel pomeriggio del secondo giorno un giovane cervo passò di volata dinanzi al caporale e scomparve dietro un ciglione. Il caporale si staccò dalla colonna per inseguirlo. Quando, sullo stremato cavallo, raggiunse la vetta del ciglione, si fermò stupito per lo spettacolo che gli si aprì sotto gli occhi. Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi.
   Al cospetto di tanta serena bellezza il caporale si sentì commosso. Lui che aveva frustato tante schiene di indiani, che, maschio rapace, si adoperava per forgiare una nuova razza per la California, lui il selvaggio, barbuto apportatore di civiltà, scese di sella e si tolse il casco d'acciaio.
   «Madre di Dio!» mormorò. «Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!»




sabato 15 agosto 2015

John Steinbeck - LA LUNA E' TRAMONTATA - Oscar Mondadori n 5 - 1965 - £ 350


Che questa'opera del 1942 di John Steinbeck (1902-1968) sia stata originariamente pensata  come testo teatrale (con il titolo "The New Order"), è abbastanza evidente perché tutto lo ricorda: le scene di interni, i lunghi dialoghi, il carattere didascalico della parte narrativa.  gli agenti teatrali rifiutarono l'opera perchè, come apprendiamo da Wikipedia, consideravano che la prospettiva di un'invasione e occupazione degli Stati Uniti potesse scoraggiare il morale dei combattenti e dei loro familiari. Decise quindi di trasformarlo in romanzo e di spostare l'ambientazione in Norvegia. Dopo la pubblicazione, ne uscì una versione teatrale, rappresentata per la prima volta a Broadway l'8 aprile 1942 e pubblicata dal "Dramatists Play Service" di New York lo stesso anno.
La morale, l'insegnamento de La luna è tramontata, è l'insopprimibile anelito alla libertà di un popolo che non si lascia asservire dal nemico invasore. Pur essendo stata scritta in giorni di pericolo per la civiltà, quando le armate tedesche avevano già invaso e occupato gran parte dell'Europa e il Giappone era all'offensiva nel Pacifico, il romanzo trascende la cronaca e amplia il discorso sul valore etico dell'uomo.
Centrale è la figura del vecchio sindaco Orden che, al pari  del suo amico dottor Winter, rappresenta il sapiente, cioé colui in grado di riconoscere l'indefinibilità assoluta del bene, possedendo in quanto sindaco da sempre, la scienza di ciò che è utile per la comunità intera. Non è casuale che il romanzo, chiamiamolo così, ma sarebbe interessante leggere anche la versione per il teatro, finisce con il sindaco Orden che si reca alla sua fucilazione recitando, in coppia col dottor Winter, l'Apologia di Socrate.

 Il sindaco Orden spiega al colonnello Lanser, comandante dell'esercito invasore:


«Vedete, signore, nulla può mutare la situazione. Voi sarete disfatti e scacciati.» La sua voce era morbida, sommessa. «I popoli non amano essere conquistati e per questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre. Vi accorgerete che è cosi, signore.»

lunedì 10 agosto 2015

Sergiusz Piasecki - L'AMANTE DELL'ORSA MAGGIORE - Oscar Mondadori 1965 - £ 350



Quando questo romanzo uscì nel 1937 ebbe immediatamente un grande successo in Polonia e, in seguito, in tutta Europa; in Italia fu pubblicato nel 1942 da Mondadori. Era stato scritto tra 1934 e il 1937 in carcere, da un detenuto che scontava una pena a quindici anni (dopo che gli era stata commutata la precedente pena di morte) per contrabbando. Si deve all'interessamento di Melchior Wańkowicz (1882-1974), popolare scrittore-giornalista polacco, che lo incitò a scrivere sotto forma di romanzo la sua avventura di contrabbandiere tra il confine polacco e quello sovietico, e si interessò per la sua pubblicazione.
Partiamo dalla complessa e, per certi versi, oscura biografia dell'autore: Sergiusc Piasecki (1901-1964) - già sulla tomba, nel cimitero di Hastings UK, la data di nascita segnata è un'altra, 1899; tanto per cominciare con i misteri che riguardano la vita di quest'uomo, diventato scrittore per caso ma anche per necessità, se è vero che la pubblicazione del romanzo gli valse il perdono giudiziario.
Dalla pagina in inglese che Wikipedia  dedica a Piasecki, apprendiamo che il contrabbandiere, acceso anticomunista, non solo ha collaborato come spia del governo polacco, ma ha anche svolto l'oscuro e ripugnante incarico di eseguire delle sentenze di morte.
Cosa c'entra tutto questo con il romanzo? Secondo Charles Augustin de Saint-Beuve (1804-1869) per comprendere a pieno l'opera di un artista non si può prescindere dalla sua biografia. Proust nel Contre Sante-Beuve, ma anche in tutta l'opera posteriore, tende a demolire questa tesi, dimostrando che «Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». 
Non so quanto il romantico contrabandiere Vladek, protagonista e io narrante del romanzo, i cui valori sono quelli dell'amicizia, della libertà e del vivere pericolosamente, magari anche imponendo la propria legge morale, che è poi la legge del più forte, sia completamente identificabile con l'autore, secondo gli argomenti di Sainte-Beuve, o se abbia arricchito la personalità di Vladek con quell'idealismo romantico che lo ha reso, in quegli anni di acceso anticomunismo, l'eroe positivo che si lascia guidare nelle scorribande lungo i confini sovietico-polacco dall'Orsa Maggiore, in nome di un ideale di libertà.

https://en.wikipedia.org/wiki/Sergiusz_Piasecki

Lo schema del racconto è abbastanza semplice e ripetitivo. I commercianti ebrei mettono a disposizione la merce che le varie bande confezionano in pacchi da 30 a 60 libbre da legarsi sulle spalle come uno zaino; quindi, dopo qualche bevuta di vodka, guidati dal macchinista si parte per il confine dove prima bisogna evitare i verdoni (guardie confinarie polacche) e poi le più pericolose guardie rosse. Superato il confine, con sempre nuove difficoltà dovute al terreno, alla pioggia, alla neve, alla nebbia, bisogna marciare ancora molte ore per raggiungere la tampa, che è il luogo dove si deposita la merce e si viene pagati e spesso è pronta la merce per il viaggio di ritorno. Qui finalmente ci si riposa e si può mangiare: frittata, stufatino con cavolo, frittelle calde, pagnotte e lardo affumicato, ma prima di ogni cosa fiaschi di vodka che tutti bevono come fosse acqua.
La presenza di donne nel racconto è assolutamente marginale, presenze secondarie: mamme e sorelle premurose, o giovani procaci  e disponibili, per il divertimento dei maschi. Anche quelle che fanno lo stesso rischioso mestiere degli uomini, non hanno la medesima dignità, quasi che il loro essere femmine sovrasti e condizioni l'essere contrabbandiere..
La vita di città è caotica e deludente, in confronto alla schiettezza della vita a ridosso del confine:

Oh, come mi annoiava tutto questo! Ero stanco di bagordi cittadini, stanco di quella gente che mentiva e della città in cui si contrabbandava attraverso molte barriere la verità, come da noi la merce. Tutto vi era artificiale, scintillante e molto complicato, ma sotto si nascondevano le solite brutture e il vuoto.... Là respiravo a pieni polmoni. Là gli uomini sono sinceri e sotto la rude scorza delle parole nascondono pensieri d'oro, e nel petto chiudono vivaci sentimenti e un cuore caldo. Qui, non un pensiero schietto, non una parola sincera. Tutti qui, dovunque e sempre, fingono, recitano una parte in una enorme farsa o commedia che sia. Teatro sempre, in casa e fuori... Qui le donne mascherano con le graziose vesti e l'elegante biancheria miseri corpi malaticci. Là, sotto le rozze vesti palpitano corpi vigorosi, caldi, amanti senza inganno, per necessità, non per curiosità o per interesse.
Devo confessare però che, nonostante i limiti qui ricordati, ho riletto con piacere questo romanzo; certo non è Conrad, neanche  Melville, né Stevenson, ma per quel senso dell'avventura che lo pervade, quella specie di magia che, leggendo, ti prende, al di là del suo valore letterario. 
 

Piasecki nel 1939
L'interesse per questo romanzo è confermato anche da un film, di scarso successo, di Valentino Orsini del 1971, con Giuliano Gemma nella parte del protagonista e Senta Berger in quella della glaciale Fela, e uno sceneggiato del 1984 di Anton Giulio Majano in sette puntate.

martedì 21 luglio 2015

Marcel Proust - JEAN SANTEUIL - Einaudi 1976 - £ 8.000

 Ecco il romanzo incompiuto di Marcel Proust, il romanzo abbandonato, il romanzo propedeitico À la recherche du temps perdu, ma pubblicato postumo, nella traduzione di Franco Fortini (1917-1994).   
 C'è una vecchia diatriba tra chi sostiene che si debba stampare tutto di un autore e chi ritiene non lo si possa fare contro la volontà dell'autore. Fortunatamente per noi lettori un po' fanatici di Marcel Proust, si scelse di pubblicare tutto questo materiale, trovato, dopo la morte dell'autore, in un armadio in fogli sparsi e in quaderni, costituito da capitoli ma anche da molti frammenti e brani, alcuni molto brevi.  
 L'autore, abbandonando il manoscritto, non ha potuto correggere, integrare o eliminare quanto poi è stato pubblicato, e questo che leggiamo come romanzo, formalmente non lo è, trattandosi di materiale preparatorio.
 La scrittura densa, sontuosa, comporta una lettura attenta e concentrata, ma delle più piacevoli a condizione che si ami questa narrazione attenta ad ogni manifestazione di natura,  descritta con una ricchezza di particolari che ce la fa percepire più intensamente che se vi assistessimo con i nostri occhi: grandezza della parola, quando viene usata con questa geniale ricchezza.

In mezzo al prato, sul suo piedistallo, la Giunone di marmo che teneva tra le braccia la propria figlia, pareva tenderla alla benedizione del sole che non le si negava e sommergeva madre e figlia nella sua onda dorata. Qualche piccione posava lentamente le zampette su quell'erba come per una prudente investigazione, mentre qualche passero, saltellando, la percuoteva con una più rapida auscultazione, come se pensasse quel luogo propizio a qualche rito sacro o a qualche sapiente scavo, poiché un tale luogo colmo in quel momento di sole pareva infatti uno di quelli che sono popolati dalle opere d'arte, perché sulla sua superficie erano dispersi quei misteriosi piccioni fatti di una materia così preziosa, grigia come l'argento vecchio ma quanto più dolce, così gravi nel loro silenzio che in ogni frullo del loro volo parevano adempiere un rito, e così finiti, nella loro forma cesellata fin al delicato ornamento del loro becco, da far credere, ogni volta che si posavano, di dar compimento per un attimo alla perfezione della cosa nella quale avevano eletto domicilio. E i quel momento, in quel gran vaso antico d'argento, in un angolo del prato, inoltrandovisi, essi parevano mostrar quanto fosse vasto e profondo e quanto abbondantemente avrebbe contenuto le cose che - e fin troppo lo si dimenticava - poteva offrire e che il piccione sembrava cercarvi, restituendole uno dei suoi nomi, conferendole un'acconciatura di parata e, con quel che aveva di palpitante o anche (quando pareva immobile) di colorato, aggiungendo alla statua quella invenzione d'un colore supplementare, di una fantasia derivata dalla natura, che ci incanta in certe sculture antiche; o camminando a passi lenti su quell'erba dorata ma appena dando l'idea dei volgari godimenti di calore, pigrizia e sonno, offrendo la gloriosa apparenza d'una terra di bellezza, amica delle belle forme, dove si aggirassero misteriosi uccelli d'argento grigio. 

La forma narrativa scelta per questo materiale, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, è la terza persona, a differenza di quanto avviene ne la recherche che è scritta in prima persona, ma dove l'identificazione con l'autore è meno diretta, ovvero Jean Santeuil è più simile a l'autore di quanto non lo sia il Marcel di la recherche. Questa differenza non è di poco conto se si pensa quanto Proust fosse in contrasto con Sainte-Beuve, che tendeva a ridurre il valore dell'opera letteraria al valore dell'uomo che l'ha scritta, mentre Proust riteneva che le grandi opere nascono da un io diverso e più profondo di quello che si manifesta nell'esistenza privata.



  Sempre conversando, entrarono nella prima sala, dove il marchese accese tutte le lampade elettriche per mostrare i suoi Manet.
  I vari luoghi della terra sono anch'essi degli esseri, con personalità tanto forti che taluni muoiono se ne son separati e comunque tanto particolari che molti ricercano ogni anno il diletto della loro compagnia e conservano nell'assenza il ricordo del loro incanto. E ognuno di essi ha di volta in volta le sue differenti espressioni, onde chi ama un luogo ama i tempi diversi e tutte le ore di quel luogo, per quanto possa sembrare poco animata, è in realtà molto più varia di quanto siamo soliti credere.
  Quando, mentre già il sole si fa penetrante, il fiume dorme ancora nei sogni della nebbia, noi non lo vediamo più di quanto esso stesso ci veda. Qui è già fiume, ma là lo sguardo è interrotto, si vede solo il nulla, una bruma che impedisce di guardare più lontano. In quella parte della tela, non dipingere né quel che si vede, poiché non si vede nulla, né quel che non si vede, perché si deve dipingere solo quel che si vede, ma dipingere che non si vede, e che all'occhio incapace a vogare sulla nebbia sia inflitta sulla tela la medesima sconfitta che ha subito sul fiume, questo è davvero bello. Ed è bello anche quando si tratta di una cattedrale, perché il portale che non si vede è una cosa molto bella ma è una cosa che vive nella natura. E certe ore della vita sono belle perché non sono viste, perché sono visitate dalla nebbia e perché allora nessuno può avvicinarle. Noi non sappiamo tutto quel che c'è di reale e di vario nella vita del luogo e che tuttavia non lo rende puramente negativo perché il suo incanto può essere manifestato. Sappiamo bene che quel luogo è bello d'autunno, quando è quasi trasfigurato, ma lo avremmo amato meglio se non lo avessimo avuto in un solo momento dell'anno come uno spettacolo, se avessimo amato tutte le ore della sua vita perché manifestano appunto la sua vita, la sua vita, quando l'estate fa tanto ardenti le tegole del tetto della chiesa e orla il sentiero familiare di tanti papaveri fioriti e manipoli di fieno, o se, un giorno di sgelo, invece di andarcene quasi colui che senza toccarlo scorreva su quel paesaggio fosse stato un nemico estraneo a quel luogo, noi avessimo veduto il sole, il turchino del cielo, il ghiaccio spezzato, il fango, l'acqua corrente far del fiume uno specchio abbacinante che l'occhio non può fissare e dove non può riconoscersi, non riuscendo a ritrovar la forma di nulla, mentre gli alberi spogli e lucidi di brina son là, intorno ad una radura o lungo qualche riva, chi sa.

Una lettura davvero incantevole, nel senso letterale: che incanta.

giovedì 25 giugno 2015

Mario Lodi - IL SOLDATINO DEL PIM PUM PA' - Einaudi 1974 - £ 3.500





Una vita per la scuola, così si potrebbe sintetizzare la vita di Mario Lodi (1922-2014)  insegnante, pedagogista e scrittore; antifascista attivo contro la guerra, subisce il carcere e, dopo la liberazione, lo troviamo impegnato nel movimento democratico per rinnovare profondamente la scuola italiana ancora pervasa dal veleno fascista.

Per chi non conosca l'opera e la personalità di questo grande uomo, la sua semplicità e modestia, il suo amore per l'insegnamento, il suo contributo pedagogico nella scuola italiana, il suo impegno per la democrazia, la poderosa mole di libri pubblicati, libri per ragazzi, fiabe, testi teatrali, lavori per la TV, la sua bibliografia completa, insieme alle iniziative promosse da Lodi e proseguite anche dopo la sua scomparsa, può essere utile il link del suo sito:

 http://www.casadelleartiedelgioco.it/mariolodi/riconoscimenti.php

Il soldatino del pim pum pam è un libro dove le immagini giocano un ruolo fondamentale, come complemento narrativo della parola, perché parlano direttamente alla mente attraverso l'occhio e stimolano la fantasia.










                                           



Fa un certo effetto, con i tempi che corrono, rileggere queste storie o fiabe, e scoprire quanto fosse primario nella narrazione di Mario Lodi il concetto di democrazia, come ne avesse fatto l'elemento centrale, e come ritenesse essenziale il valore della conoscenza e dell'unione, perché solo attraverso la conoscenza e l'unione si possono difendere e affermare i diritti sanciti dalla Costituzione.






















Il re inforcò gli occhiali e lesse il peso «Un chilo e un etto». Il contadino levò dalla tasca il coltello, uccise il pesce e lo mise sulla bilancia. Il re si mise gli occhiali e disse «O bella... un chilo e un etto come prima... il peso è uguale!»
Il popolo fece un grande applauso e il re disse: «Sia dato a questo contadino il sacco di monete d'oro».
 































domenica 21 giugno 2015

Jack Kerouac - LA VITA STREGATA e altri scritti - Mondadori 2014 - € 10,00



Ho letto questo racconto inedito di Kerouac, e gli altri scritti giovanili che compongono il libro, con sentimenti contrastanti. Certo, è prevalsa la curiosità entusiasta, un'aspettativa forse eccessiva per un autore che mi è caro, ma anche molto interesse per l'avventurosa storia del manoscritto, misteriosamente riemerso dopo quasi cinquant'anni, che è già di per se molto romanzesco. 

Dimenticato in un taxi a Lowell nel 1944, ritroviamo il manoscritto  in un catalogo Sotheby's nel 2002, dove un anonimo acquirente se lo aggiudica per 95.600 dollari. Sapremo in seguito che il manoscritto, rimasto per una quarantina di anni in un armadietto dell'Università di Lowell, è stato recuperato e messo in vendita quando si è saputo che il famoso rotolo di On the Road era stato battuto ad un'asta di Sotheby's per 2.430.000 dollari!

La prima cosa che emerge fin dall'incipit, ma non è una novità,  è il profondo razzismo della provincia americana, lo spirito xenofobo più retrivo e un odio profondo per Roosevelt, che mi ha ricordato la trama di quel romanzo di Philip Roth, Il complotto contro l'America (2004), di cui ho avuto occasione di parlare qualche tempo fa:

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/07/philip-roth-il-complotto-contro.html

L'incipit di La vita stregata:

«L'America non è più il paese di una volta, non è neppure più l'America." Mr Martin aspirò il suo sigaro con scoraggiata e rabbiosa decisione. "E' diventato uno stramaledetto buco per tutte le miserabili razze che vengono da fuori. L'America non è più l'America. Un bianco non può camminare per strada, entrare in un ristorante, mettersi in affari, o fare qualsiasi cosa senza doversi rimescolare a questi fottutissimi immigrati che vengono da fuori.»
Dal divano nella stanza buia, Peter Martin sogghignò, aspirando una sigaretta.
«Gentaccia!» gridò Mr Martin, tossendo fumo.
La luce della cucina, da dove la zia Marie stava lavando i piatti, irruppe nel salotto buio in cui Mr Martin stava ancora tossendo nel momento esatto in cui sua sorella lo richiamò, china sull'acquario: «Allora, ricominci?»
«Lo sai che ho ragione, porca miseria!» disse quasi soffocando.
Peter si allungò verso la manopola della radio per alzare il volume; era appena cominciato un pezzo di Benny Goodman. Represse l'impulso di annunciare il titolo a tutta la stanza; il un juke joint (*) l'avrebbe gridato a squarciagola per dimostrare a tutti la sua cultura in fatto di jazz.
«Ruffiani!»ripreseMr Martin,con la sua voce spessa. «Ebrei!Greci!Negri!Armeni, siriani, qualsiasi razza schifosa del mondo. Sono venuti tutti qua, ci stanno ancora venendo, e continueranno a venirci stipati nei bastimenti. Ricordatevi quel che vi dico: verrà il giorno in cui un americano vero non avrà uno straccio di possibilità di trovare un lavoro e di vivere decentemente nel proprio paese, il giorno in cui distruzione e bancarotta si abbatteranno sulla nostra nazione perché questi dannati stranieri avranno messo le mani su tutto e ne avranno fatto un bordello.»
(*) Locale tipico del Sudest degli Stati Uniti in cui si ballava al ritmo della musica suonata da un juke-box

Quando Kerouac scriveva questo inizio di romanzo, era poco più che ventenne e ancora non aveva acquisito quel suo particolarissimo stile, ritmato come un pezzo bebop suonato da Dizzie Gillespie; in questo romanzo, che potrebbe essere l'antefatto di On the Road, la prosa è convenzionale, ancora nel solco dei grandi della generazione precedente,  la cosiddetta lost generation.

In queste pagine non c'è ancora traccia di ribellione nei confronti della società, solo desiderio di evadere da Galloway, asfissiante cittadina di provincia dove non succede nulla, pietrificata nei gesti quotidiani in perenne attesa di qualcosa, come nei dipinti di Hopper. La prosa a volte ricorda Saroyan; le descrizioni sono meticolose come se l'occhio di una cinepresa, dopo un'inquadratura d'insieme, stringa sui dettagli per raccontare la totalità della scena nei suoi infiniti particolari..

   C'è qualcosa nelle case americane di periferia che lenisce tutte le apprensioni della vita. Il pomeriggio successivo vide Peter seduto in veranda con un bicchiere di limonata; ascoltava il match fra Red Sox contro Detroit alla radio portatile.
   Le veneziane verdi della zia Marie erano sbarrate contro il sole delle quattro sul lato destro della casa, e a sinistra l'olmo dei Quigley ergeva una barriera di verde maculato. Kewpie il gatto fissava distratto la strada tranquilla dalla sua postazione di fronte alla porta con la zanzariera. Una mosca ronzava all'orecchio di Peter e, quando la scacciò, lo sforzo fece scricchiolare l'amaca; Kewpie girò i suoi placidi occhi verdi e lo fissò, stupefatto.
   A Peter piaceva ascoltare le radiocronache delle partite di baseball. Durante le pause del cronista, quando non aveva niente da dire, si potevano sentire le urla dalle gratinate e dalle panchine, le lontane battute di spirito dei ricevitori, e qualche fischio occasionale. Era un suono vasto e sonnolento.

La vita stregata occupa una ottantina di pagine, il resto del volume riguarda altri scritti che rappresentano un importante contributo per la comprensione di Kerouac, come uomo e come scrittore. 

In Schizzi e riflessioni, c'è uno scritto del 1948 che riguarda Città e metropoli, dove emerge forse con maggior chiarezza che in tutti gli altri scritti, come l'uomo idolatrato dai figli dei fiori, padre riconosciuto della beat generation, non differisca in modo sostanziale dall'uomo medio americano, con i suoi valori tradizioni, le sue convinzioni e le sue fobie.

Scrive Kerouac:
Una forma di masochismo (o amore per l'impotenza) e qualcos'altro che somiglia a una sorta d'impetuosità sembrano farsi la prova più tangibile di quel che ho chiamato "decadenza intellettuale"...
Il masochismo si manifesta sotto varie forme, ma viene sempre generato dagli stessi abissi, dalla stessa psicologia, dalla stessa "struttura di carattere" o, se non vogliamo usare questo termine reichiano, dalla stessa dissoluzione del carattere. Il masochismo è la vera caduta della virilità. Intendo ciò nel senso più letterale del termine. E in parallelo, nelle donne, il masochismo consiste nella perdita della femminilità, ancora nel senso più letterale del termine. Il masochismo rende l'uomo incapace di affrontare le situazioni concrete della vita reale, vale a dire, un tipo di vita primaria che viene arbitrariamente mistificata da convenienti modelli metropolitani che non possono durare, né mai dureranno. (....)

Molta della magnanimità del  nostro "liberalismo" è connesso al masochismo. Il radicale di New York che si precipita a sud a "combattere per il negro", in realtà vuole soltanto dimostrare che lui è meglio di noi; e allo stesso tempo rivela senz'altro che lui vuole essere punito. Questo è Burroughs, salvo che lui si occupa del rovesciamento dei valori, i valori borghesi, e non dei capovolgimenti politici. Tutte queste divergenze radicali sono solo pose. intese a rivendicare contrapposizioni cariche d'invidia e malizia, quali l'invidia della ricchezza, dello status sociale e del linguaggio. Poiché niente di tutto ciò riguarda l'andamento generale della razza americana (per non dire della razza umana del mondo intero), concludo che la gente non è pazza; sono invece gli intellettuali a essere pazzi. La gente a pazienza, senso dell'umorismo, è assennata, a volte agisce con brutalità e violenza, ma alla fine, è leale e forte. Così è facile osservare come gli intellettuali delle Metropoli, che si avvalgono di strumenti moderni e potenti mezzi di propaganda e comunicazione di notizie,possono alla fine esercitare una pessima influienza sui figli di questa gente, e rovinare le generazioni future.
Questo kerouac-pensiero non cambia il mio giudizio sulla grandezza dello scrittore, semmai mi consente di fare una distinzione netta tra l'artista e l'uomo, tra il mito cresciuto intorno al suo nome e la realtà di un uomo con tutti i suoi limiti, che si è autodistrutto perché incapace di vivere.

Per una maggiore comprensione del fenomeno Kerouac, può essere utile la lettura di un articolo di Alberto Arbasino, che lo incontrò insieme a Domenico Porzio  nell'ottobre 1966 in un albergo di Roma, questo il link:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/a-colloquio-con-jack-kerouac/

Dopo Roma visitò Napoli. A Napoli l’incontro avvenne nei saloni di Villa Pignatelli e fu un autentico disastro. Lo scrittore arrivò ubriaco, imbottito di birra e cognac (il suo cocktail preferito) e fu particolarmente aggressivo con gli studenti che gli chiedevano del suo lavoro letterario, ma anche della guerra nel Vietnam, che lui giustificò provocando una colossale contestazione con ingiurie e improperi e fu costretto ad uscire dalla porta di servizio per impedire che l’incontro degenerasse in una rissa incontrollabile.