mercoledì 3 settembre 2014

Giovanni Giudici - ADDIO, PROIBITO PIANGERE - Einaudi 1982 - £ 18.000


Amo quelle librerie dove si può passare un pomeriggio parlando amabilmente con anziani commessi che conoscono la clientela abituale, e sono in grado di consigliare sempre il libro giusto.

Questo libro di traduzioni, Addio, proibito piangere, - il titolo è tratto da un verso di John Donne - mi fu consigliato da una gentile signora che dirigeva una piccola libreria che frequentavo negli anni ottanta, in zona Prati, vicina all'ufficio di rappresentanze commerciali dove lavoravo; consiglio che, inizialmente, accettai più per condiscendenza, che per convinzione. Poi leggendolo, e tornando a leggerlo nel corso degli anni, l'ho apprezzato moltissimo, ed è uno di quelli che spesso occupa il posto d'onore sul comodino.

Giovanni Giudici (1924-2011) uno dei massimo poeti del Novecento, come recitano tutte le biografie che lo riguardano, ligure, poeta per passione, giornalista per vocazione, traduttore per caso, e su commissione..... come lui stesso si definisce,  con quell'ironia che gli era propria, nella prefazione al volume, che è anche una esposizione ragionata sui principî della traduzione.  


   Dei dodici poeti qui proposti nelle mie occasionali traduzioni soltanto otto hanno scritto nel nostro secolo e possono dunque, stando alla convenzione, definirsi contemporanei; tre sono del secolo scorso e uno, infine, del secolo XVII. Fra gli otto contemporanei appena due io ebbi il privilegio di incontrare personalmente: forse tre volte (ma senza cavarne più che sette parole) il vecchio Pound, una sola volta Jiří Kolář, settembre 1968, nel pomeriggio di una soffitta praghese. Soltanto Kolář, di tutti, è ancora vivo e operante. Ero andato a trovarlo per chiedergli qualche poesia da includere, tradotta in italiano, in una frettolosa scelta di poeti cechi: - Ah grazie, molto gentile, - mi disse segnandone alcune in un suo libro. - Questa qui, o questa, o questa ancora: scelga lei, a suo piacere-. Il poeta Kolář, voglio dire, deponeva docilmente il suo collo sul ceppo della ghigliottina traduttiva; eppure si sarà domandato: «Come farà a tradurmi costui che non spiccica una parola nella mia lingua?»
   Beh, questo sarà un altro problema (non minore di quello che si ponga a chi, pur espertissimo nella lingua straniera di cui si serve la poesia da tradurre, non lo sia altrettanto in quella lingua straniera in grado ulteriore (o lingua strana, tout court) che è la «lingua poetica» in cui la data poesia consiste). Dal poeta Kolář, che non ho più incontrato, non mi pervennero rimostranze, forse (se non erro) ancora ringraziamenti: non so se ciò fosse dovuto ad assenza di errori nelle mie traduzioni o a sua pigrizia nel protestare (per quanto mi riguarda, quando il tradotto sono io, non protesto mai e quasi sempre ringrazio). Magari fu dovuto a intoppi del sistema di comunicazioni postali fra paesi come la Cecoslovacchia e l'Italia, divisi dal cuius regio del nostro tempo. E poi quante parole potrà sapere in italiano il poeta Kolář
L'unica poesia del boemo Jiří Kolář (1914-2002) che Giudici ha inserito in questo volume, è intitolata Mensile di poesia, trentuno norme a cui attenersi per fare poesia, scandite in versi una per giorno:

Chi si mette a scrivere una poesia il primo del mese
non deve perder la testa
altrimenti il mistero non riconosce la sua passione degna di riscatto dalla mortalità
e dovrà contentarsi solo del corpo della poesia.
Chi si mette a scrivere il due del mese
deve fare attenzione al linguaggio
perché chi imprime ai versi un tono altro dal linguaggio reale della gente
anche se parli in diamanti
scriverà sui diamanti
ma non farà poesia. 
(.................)
Il trenta
deve sapere che le parole sono rose e anche capestri
ma che è segno di stupidità
regalare senza  sgarbo un mazzo di capestri o impiccarsi a una rosa
perché la poesia non è
non senso ma miracolo di vita.
Il trentuno
deve capire che il destino non è un salto di morte sotto un treno
ma un salto sotto un treno
scampandone senza il minimo danno
Di un altro poeta boemo, Jiří Orten (1919-1941), morto a soli 22 anni a Praga, lui che da ebreo già soffriva per i divieti imposti dagli occupanti nazisti, fu investito e ucciso da un loro carro; Giudici ha inserito molte poesie, che erano già apparse in una raccolta del 1969 per Einaudi col titolo La cosa chiamata poesia.

La cosa chiamata poesia
quella vorresti fare?
In solitudine singhiozzare
e tanto volere bene

Senti? E' il tuo ticchettio
Così disperato giocare
La cosa chiamata poesia
quella vorresti fare?

Forse lo sai che spesso
la parola è troppo sciocca
ma Dio ti chiude la bocca
e altro non ti può dare

La cosa chiamata poesia
quella vorresti fare?
 7.12.1938
 Di chi sono?

Io sono dei piovaschi e delle siepi
e delle erbe chinate dalla pioggia
e della chiara canzone che non gorgheggia,
del desiderio che sta chiuso in lei.

Di chi sono?
Io sono di ogni piccola cosa smussata
 che mai spigoli ha conosciuto,
dei piccoli animali che reclinano la testa,
sono della nuvola quando è straziata.

Di chi sono?
Io sono del timore che mi ha tenuto
con le sue trasparenti dita,
del coniglietto che in un giardino in penombra
esercita il suo fiuto.

Di chi sono?
Io sono dell'inverno ostile ai frutti
e della morte, se il tempo lo chieda,
io sono dell'amore, di cui sbaglio la porta,
al posto di una mela ai vermi lasciato in preda.
26.5.1940

Questa la cospicua squadra di poeti presenti nell'antologia, che per la grande eterogeneità delle loro personalità e opere, rende molto prezioso questo volume.


  • John Donne
  • Hart Crane
  • Emily Dickinson
  • Ezra Pound
  • Robert Frost
  • John Crowe Ramson
  • Jiří Orten
  • Jiří Kolář
  • Aleksandr S. Puškin
  • William B. Yeats
  • Samuel T. Coleridge







Nessun commento:

Posta un commento