Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), letterato, orientalista e politico francese, di orientamento legittimista e reazionario, deve la sua discutibile fama ad un libello del 1854 dall'eloquente titolo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, testo fondamentale del pensiero razzista moderno: una illogica accozzaglia di eccentriche opinioni, spesso in contraddizione le une con le altre, volte a dimostrare la superiorità della razza bianca (ariana), rispetto alla nera e alla gialla! In una parola cazzate in libertà - per usare un eufemismo - che hanno però rappresentato la base culturale per quel criminale malato di mente che ha imperversato in Europa dal 1934 al 1945.
Ma Arthur de Gobineau è stato anche altro, ad esempio amico e capo di gabinetto di Alexis de Tocqueville (quello dello studio sulla democrazia americana) - interessante sarebbe leggere il carteggio tra i due personaggi, apparentemente così lontani - ma anche autore di opere storiche sulla Persia, romanzi, poemi e questo arguto, insolito racconto dal sapore picaresco.
Due parole sull'edizione. Si tratta della prestigiosa collana La Bibliotreca Blu di Franco Maria Ricci, un gioiello editoriale che è un piacere sfogliare: pesante carta Fabriano 120 grammi, eleganti caratteri Bodoni corpo 12, leggibile anche senza occhiali, due sguardie colorate come la copertina e una bianca precedono il frontespizio e chiudono il libro: per dire una stampa opulenta, senza le meschine economie che accompagnano le edizioni economiche.
Il racconto è vissuto dal punto di vista dell'astuto Aga, giovane e fatalista iraniano, impegnato nella difficile arte di sopravvivere alla vita, con le astuzie e la filosofia del povero che, sotto ogni latitudine, vuole che chi è stato ingannato o derubato si rivarrà su altri, allargando così all'infinito quella vasta e truffaldina fraternità.
Aga, dunque, dopo un breve matrimonio con la bella Leila da cui è costretto a separarsi, si trova, dopo varie peripezie, a combattere una balorda guerra contro i Turcomanni, razziatori di schiavi, che scorazzano ai confini del paese. Fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, si adatterà alla nuova realtà ritagliandosi, con un disinvolto uso della menzogna, dello spergiuro e del ladrocinio spicciolo, uno suo spazio di vivibile felicità. Ma tornato in libertà, le sorprese non sono finite e l'avventura continua.
Questo l'incipit nel quale il protagonista spiega il complesso problema del nome:
Ma Arthur de Gobineau è stato anche altro, ad esempio amico e capo di gabinetto di Alexis de Tocqueville (quello dello studio sulla democrazia americana) - interessante sarebbe leggere il carteggio tra i due personaggi, apparentemente così lontani - ma anche autore di opere storiche sulla Persia, romanzi, poemi e questo arguto, insolito racconto dal sapore picaresco.
Due parole sull'edizione. Si tratta della prestigiosa collana La Bibliotreca Blu di Franco Maria Ricci, un gioiello editoriale che è un piacere sfogliare: pesante carta Fabriano 120 grammi, eleganti caratteri Bodoni corpo 12, leggibile anche senza occhiali, due sguardie colorate come la copertina e una bianca precedono il frontespizio e chiudono il libro: per dire una stampa opulenta, senza le meschine economie che accompagnano le edizioni economiche.
Il racconto è vissuto dal punto di vista dell'astuto Aga, giovane e fatalista iraniano, impegnato nella difficile arte di sopravvivere alla vita, con le astuzie e la filosofia del povero che, sotto ogni latitudine, vuole che chi è stato ingannato o derubato si rivarrà su altri, allargando così all'infinito quella vasta e truffaldina fraternità.
Aga, dunque, dopo un breve matrimonio con la bella Leila da cui è costretto a separarsi, si trova, dopo varie peripezie, a combattere una balorda guerra contro i Turcomanni, razziatori di schiavi, che scorazzano ai confini del paese. Fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, si adatterà alla nuova realtà ritagliandosi, con un disinvolto uso della menzogna, dello spergiuro e del ladrocinio spicciolo, uno suo spazio di vivibile felicità. Ma tornato in libertà, le sorprese non sono finite e l'avventura continua.
Questo l'incipit nel quale il protagonista spiega il complesso problema del nome:
Mi chiamo Gholam-Hosein: come mio nonno. Parlando di lui i miei genitori aggiungevano sempre Aga, com'è naturale: monsignore, cioè. Ma il nome del capofamiglia non si deve ripetere futilmente: per questo io ero chiamato Aga e basta. E così mi chiamo. Così si chiamano anche innumerevoli miei compatrioti sparsi nel mondo; per la stessa ragione che portano il nome dei loro nonni: Alì, Hassan, Mohammed o un altro qualsivoglia. Tutti Aga!
E dunque io Aga sono. Ma con gli anni e quando la sorte mi è stata benigna, cioè qiando ho avuto un vestito decente e un po' di sciachì in saccoccia, mi è sembrato non disdicevole il titolo di Beg. Aga-Beg suona niente male. Spesso però il titolo è svanito a causa della grama fortuna e del vestiario meschino. Son diventato allora Babà-Aga; zio Aga, cioè. Me ne son fatto una ragione. Più tardi, circostanze nelle quali la mia volontà non entrava, mi hanno concesso di visitare nella città santa di Mescied la tomba degli Imam, e di mangiare tutte le volte che ho potuto la zuppa della moschea. Mi è quindi sembrato naturale fregiarmi del titolo di Mesciedì, o pellegrino di Mescied. Dà l'aria di uomo pio, grave e posato. Ho dunque il bene di vedermi conosciuto ora con il nome di Aga-Babà-Mesciedì, ora con quello che prediligo, di Mesciedì-Aga-Beg. Ma Dio dispone tutto come meglio crede!
La guerra dei turcomanni appartiene alle Nouvelle asiatiques che De Gobineau scrisse negli ultimi anni della sua vita, e dimostra una tale conoscenza della materia che tratta (usi, costumi, mentalità, linguaggio) da far sembrare il suo scritto tratto dalle Mille e una notte.
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