Ecco un libro che si può leggere e rileggere più volte, senza stancarsi mai, e ogni pagina apre ad una visione del mondo affatto nuova. Merito dell'estro, della genialità, dell'umanità, della semplicità del grande affabulatore Federico Fellini (1920-1993), maestro di ogni mezzo espressivo, dal disegno alla caricatura, dalla narrazione verbale al cinema.
Fare un film - un titolo riduttivo che lo assimila ingiustamente ad un manuale per cineamatori - è un collage di molti scritti di Fellini (primo fra tutti La mia Rimini del '67), e da interviste rilasciate in periodi diversi, che tuttavia svela i legami misteriosi, talvolta inquietanti, che lo avvincono al suo lavoro, ma è anche una profonda riflessione sul cinema di un professionista che il cinema lo ha percorso in lungo e in largo, ricoprendone tutti i ruoli: attore, regista, soggettista-sceneggiatore, scenografo, costumista e produttore.
Il libro è anche una carellata, a volte esilarante, di personaggi che lo animano, produttori, distributori, i colleghi registi, gli attori, gli amici di sempre: tra tutti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. Alcuni ritratti sono di una vividezza abbagliante, come questo di Anna Magnani:
Fellini giornalista aveva una rubrica sulla rivista Cinemagazzino un giorno fece un'intervista a Totò:
La grande capacità espressiva di Fellini trasforma ogni frase in una sequenza filmica, cosi che sembra di averla già vista sullo schermo:
Mi ha colpito la lucida capacità di analisi quando parla di Roma e dei romani, senza ipocrite finzioni diplomatiche ma anche senza astio, con quella sua tenerezza innata:
Ci sarebbero tantissimi altri aspetti del libro che varrebbe la pena sottolineare, per esempio l'identificazione delle personalità con le due figure dei clown: il Bianco (il culto superbo della ragione) e l'Augusto (la libertà dell'istinto); il suo rapporto con la psicanalisi junghiana...
Precede il testo, l' Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino, uno scritto del 1974 che racconta il suo speciale rapporto con il cinema, che vede come funzione primaria dell'inserimento nel mondo.
Fare un film - un titolo riduttivo che lo assimila ingiustamente ad un manuale per cineamatori - è un collage di molti scritti di Fellini (primo fra tutti La mia Rimini del '67), e da interviste rilasciate in periodi diversi, che tuttavia svela i legami misteriosi, talvolta inquietanti, che lo avvincono al suo lavoro, ma è anche una profonda riflessione sul cinema di un professionista che il cinema lo ha percorso in lungo e in largo, ricoprendone tutti i ruoli: attore, regista, soggettista-sceneggiatore, scenografo, costumista e produttore.
Il libro è anche una carellata, a volte esilarante, di personaggi che lo animano, produttori, distributori, i colleghi registi, gli attori, gli amici di sempre: tra tutti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. Alcuni ritratti sono di una vividezza abbagliante, come questo di Anna Magnani:
Mi era simpatica la Magnani, l'ammiravo, ma mi dava un po' di soggezione con quell'aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera. E invece era una ragazzetta timida dietro quel cipiglio minaccioso, aggressivo nascondeva un'ingenuità, un pudore selvatico, un entusiasmo da monella, e il sentimento caldo, pieno, di una vera donna, come vorresti incontrare più spesso.
Fellini giornalista aveva una rubrica sulla rivista Cinemagazzino un giorno fece un'intervista a Totò:
Era al Giulio Cesare, un localone immenso che faceva film e grandi avanspettacoli. Era domenica pomeriggio, c'era quella gran folla degli spettacoli domenicali, doveva essere l'intervallo, o forse no, non era ancora cominciato lo spettacolo, perché Totò stava vicino alla cassa, protetto da transenne per tenere lontana la gente che aspettava di entrare. Era appoggiato al marmo, la testa un po' reclinata come un mobile o un amorino, come se facesse parte dell'arredamento, il colletto alto, i capelli impomatati, tutto tirato a lustro fumava con un'aria da gran signore, assorto e distaccato. Andarono a dirgli che ero un giornalista. Totò mi guardò e mi fece segno con la mano di raggiungerlo. Gli dissi che volevo fargli un'intervista. Con un lieve abbassar delle ciglie mi fece capire che acconsentiva, e poi disse subito con tono calmo e definitivo: "Allora scrivete questo, che a me piace la donna e il denaro. Avete capito?" Non disse proprio donna, ma pronunciò un vocabolo napoletano che non avevo mai sentito, tenero e osceno, infantile e cabalistico, un suono di sillabe che dava benissimo l'idea di una cosa dolce, molle, umida. Mi vide perplesso: "Perché, a voi non piace?"
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Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici: la giraffa, il pellicano, il bradipo; e c'era anche la gioia e la gratitudine di vedere l'incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi davanti a te. Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un'altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito.
La grande capacità espressiva di Fellini trasforma ogni frase in una sequenza filmica, cosi che sembra di averla già vista sullo schermo:
Arrivato a Roma cominciai a frequentare di più il cinematografo, una volta alla settimana, una volta ogni quindici giorni. Quando non sapevo dove andare o quando c'erano film abbinati al varietà. I miei locali erano il Volturno, il Fenice, l'Alcione, il Brancaccio. L'avanspettacolo mi ha sempre emozionato, come il circo. Per me il cinema è una sala ribollente di voci e di sudori, le mascherine, le caldarroste, la pipì dei bambini: quell'aria da fine del mondo, da disastro, da retata. Il tramestio che precede il varietà, i professori che arrivano in orchestra, gli accordi, la voce del comico, e i passi delle ragazze dietro il velario. Oppure la gente che esce d'inverno dalle porte di sicurezza, in un vicolo, un po' rimbambiti dal freddo, qualcuno che canticchia il motivo del film, delle risatacce, qualcuno che piscia.
Mi ha colpito la lucida capacità di analisi quando parla di Roma e dei romani, senza ipocrite finzioni diplomatiche ma anche senza astio, con quella sua tenerezza innata:
(Roma) Col suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. E' una città di bambini svogliati, scettici e maleducati: anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale.
Anche per questo a Roma c'è un tale attacamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. "Te presento mi' cognato. Ecco Lallo, er fjo de mi' cugino". E' una catena: si vive fra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate.....
E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune: "Ma chi sei? Nun sei nessuno!" è confortante. Perché non c'è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno, quindi puoi anche essere tutto. Tutto può ancora essere fatto. Si può partire da zero.
Insultata come nessun'altra citta, Roma non reagisce. Il romano dice: "Mica è mia, Roma". Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice "ma che te ne frega!", nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egi si rinchiude in cerchio gastrosessuale.
Ci sarebbero tantissimi altri aspetti del libro che varrebbe la pena sottolineare, per esempio l'identificazione delle personalità con le due figure dei clown: il Bianco (il culto superbo della ragione) e l'Augusto (la libertà dell'istinto); il suo rapporto con la psicanalisi junghiana...
Precede il testo, l' Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino, uno scritto del 1974 che racconta il suo speciale rapporto con il cinema, che vede come funzione primaria dell'inserimento nel mondo.
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