Quando nei primi anni '60 uscì questo romanzo di Marcello Venturi (1925-2008), il mio interesse di lettore era ancora in formazione, uscivo da una ubriacatura da letteratura americana, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck, Hemingway, London, Caldwell: affascinato dalla lontananza di quei personaggi e da quei linguaggi per me nuovi, mi avvicinavo ai narratori italiani con una sorta di immotivata diffidenza.
Era stato il clamore che aveva accompagnato l'uscita di Lo Scialo di Vasco Pratolini - all'epoca lavoravo al magazzino di Roma della Mondadori - ad iniziarmi agli incanti e alle emozioni dei narratori italiani contemporanei: a Pratolini seguì Buzzati con i Sessanta racconti, poi Calvino con Il sentiero dei nidi ragno, Cassola di La ragazza di Bube, e Pavese, Fenoglio, Pasolini de I ragazzi di vita, Loria, e tutti gli altri a seguire.
Era stato il clamore che aveva accompagnato l'uscita di Lo Scialo di Vasco Pratolini - all'epoca lavoravo al magazzino di Roma della Mondadori - ad iniziarmi agli incanti e alle emozioni dei narratori italiani contemporanei: a Pratolini seguì Buzzati con i Sessanta racconti, poi Calvino con Il sentiero dei nidi ragno, Cassola di La ragazza di Bube, e Pavese, Fenoglio, Pasolini de I ragazzi di vita, Loria, e tutti gli altri a seguire.
Il mio novello interesse per la narrativa italiana era però legato ad argomenti di carattere sociale o politico, e difettavo di quella sensibilità necessaria ad apprezzare pienamente quelle opere di narrativa, propriamente letterarie e confinanti con la poesia, come L'ultimo veliero di Venturi.
A distanza di tanti anni, lógoro di vita quel tanto che basta per riconoscermi nelle ansie del Capitano Maestrelli Bernardo e al suo disperato desiderio di libertà, la rilettura del romanzo ha completamente capovolto il mio giudizio, catturandomi interamente, a riprova del fatto che ci sono libri che solo con la maturità si riescono ad apprezzare compiutamente.
Questo l'incipit di L'ultimo veliero:
Questa è la storia di Maestrelli Bernardo, ex comandante di velieri, in pensione; soprannominato il Capitano. Un uomo che, a bordo dell'Eliseo, del Levantino, del Santa Maria, - e di cento altri barchi - aveva navigato tutti gli oceani. Il cui nome era diventato famoso.Di quegli anni portava ancora i segni sul volto. Un volto asciutto, bruciato dal sole, su cui spiccava il naso a becco d'uccello e in cui scintillavano due occhi azzurri, di un azzurro chiaro, come slavati dalla salsedine. Ed era altissimo, sulle gambe da trampoliere; con spalle strette, cui stavano attaccate le braccia che parevano pale da mulino. Questo era Maestrelli Bernardo, fu Giovanni Battista.Aveva spesso da un pezzo di navigare, ma quell'andatura stracca da marinaio gli era rimasta, quel dondolare da una parte all'altra come camminasse sulla coperta di una nave. Soprattutto gli era rimasta la passione del mare, perché, come diceva lui, il mare è peggio di una donna, non si dimentica: di mare ce n'è uno solo.Così diceva. E se ne stava a ore là fermo, nelle giornate d'inverno, in piedi davanti all'orizzonte; come se dal mare si aspettasse, da un momento all'altro, qualcosa.
In
questo link c'è la testimonianza di Andrea Camilleri su Marcello
Venturi. Mi hanno colpito la esattezza dei termini che Camilleri usa per parlare di L'ultimo veliero - che ha proposto per la ristampa a Sellerio - fatato, favola e realtà, leggerezza, felicità della scrittura, che descrivono magistralmente l'atmosfera che avvolge il romanzo.
http://www.youtube.com/watch?v=nf6X717A7zk
La malinconia indefinita che mi coglie concludendo la lettura, è forse causata dal pensiero che, pur essendo coetaneo del Capitano Maestrelli Bernardo, non mi aspetto dal mare nessun salvifico veliero.
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