Come desumo dalla dedica sul frontespizio, questo volume è presente nella biblioteca di famiglia dal 1957, ma da qualche tempo era finito in uno scatolone dove vengono conservati i libri che devono far posto nei ripiani della libreria ai nuovi arrivati. Al suo interno scopro una poesia inedita di Antioco Casula detto Montanaru, ritagliata da un giornale isolano e delle cartoline di Nuoro: la prima è la tomba di Grazia Deledda, la seconda un particolare del Portale della Chiesa della Solitudine e l'ultima il Monumento al poeta Sebastiano Satta sul Colle di S.Onofrio, sempre a Nuoro.
Cosima è l'ultimo romanzo di Grazia Deledda
(1871-1936), uscito postumo nel 1937 per Treves di Milano, dieci anni più tardi da Mondadori nella collana Il Ponte, è la più
autobiografica delle sue opere, d'altronde il nome completo della
Deledda è Maria Grazia Cosima.
Nel romanzo Deledda narra la propria fanciullezza e adolescenza, non certo ricche di vicende esteriori ma animate di fermenti psicologici, combinazione di sogni, speranze e inevitabili delusioni; il suo formarsi di donna e scrittrice in una provincia sospettosa e ostile, quella nuorese, ancora percorsa dai banditi.
Bella, nell'incipit, la minuziosa descrizione della casa dell'infanzia, che racconta un mondo solido, essenziale e immutabile, oltre che nelle cose nei rapporti tra le persone.
La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po' basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l'ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell'ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino con pavimento battuto. Null'altro. Un uscio solito pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case patriarcali, l'ambiente più abitato più tiepido di vita e d'intimità. C'era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d'uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di anne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l'odore si spandeva tutto intorno.
La descrizione prosegue con la precisione e il ritmo di un lungo piano-sequenza, dove la parola sostituisce la cinepresa: prima la vista d'insieme e poi i particolari che ci raccontano, come negli indimenticabili sceneggiati televisivi di Sandro Bolchi, la vita semplice, reale dei suoi protagonisti, ma come lievitata in un clima di lirica fantasia.
E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull'orto e da uno sportello mobile dell'uscio sul cortile. Nell'angolo vicino la finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull'orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po' di brace, e sotto l'acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po' di carbone; ma per lo più le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, sui grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d'orzo e il companatico per i servi.
Scrittrice feconda, con trenta romanzi e altrettante raccolte di novelle al suo attivo, tradotta in tutto il mondo, la Deledda è anche autrice di un interessante saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna del 1895. A fronte di un così cospicuo corpus narrativo, il cui apprezzamento internazionale doveva condurla a Stoccolma nel 1927 a ritirare - dopo quello di Carducci - il secondo Premio Nobel per la Letteratura - prima e unica donna italiana, stupisce la tiepida, quasi imbarazzata nota del 1934 che Croce scrisse, vivente ancora la Deledda, imputandole la grave colpa di aver raggiunto il successo fin dalle prime prove letterarie:
Ancora più sorprendente, a mio parere, l'atteggiamento di Gramsci che semplicemente ignora la sua conterranea: neanche un accenno nei Quaderni del carcere, dove peraltro si occupa ampiamente degli intellettuali italiani, di narrativa e di folklore.
Senza contare il saggio di Giuseppe Dessì del 1938 Grazia Deledda cent'anni dopo, un saggio molto impegnativo, che è, come scrive C. A. Madrignani nella prefazione del romanzo di Dessì Michele Boschino (Ilisso), accesamente ostile, sorretto dalla volontà di smitizzare la più famosa scrittrice sarda diventata gloria nazionale. La faziosità del giudizio va intesa come premessa passionale ad un manifesto di poetica nel quale lo scrittore ancora inedito esprime i suoi principi stilistici e linguistici e vede in Deledda il suo alter ego negativo, con la sottintesa ambizione di rappresentare un’alternativa in fieri. La Deledda è descritta come esponente di un verismo «allo stato di natura del tutto rozzo, elementare ed incerto» e come tale inidonea a creare il corrispettivo estetico della “vera” Sardegna.
Finalmente leggo, nel volume 7 - Il Novecento - di La Letteratura Italiana (1986) diretta da Enzo Siciliano, la monografia su Grazia Deledda di Antonella Anedda, che esordisce così:
La semplice verità è che la Deledda, con tutte le virtù che è giusto riconoscerle, non ha mai sofferto quello che può chiamarsi il dramma del poeta e dell'artista, che consiste in un certo modo energico e originale di sentire il mondo (per questo di parla del "loro mondo"), e nel travagliarsi a dargli forma di bellezza, nella qual cosa di solito non riescono se non dopo alcune prove fallite o approssimazioni insufficienti, e, quando alfine vi riescono e hanno detto bene quel che volevano dire, si arrestano, o talora continuano bensì a muoversi ma dando segno di ripetizione e di esaurimento.
(La letteratura della Nuova Italia, vol.6, LXI, pag.297)
Ancora più sorprendente, a mio parere, l'atteggiamento di Gramsci che semplicemente ignora la sua conterranea: neanche un accenno nei Quaderni del carcere, dove peraltro si occupa ampiamente degli intellettuali italiani, di narrativa e di folklore.
Senza contare il saggio di Giuseppe Dessì del 1938 Grazia Deledda cent'anni dopo, un saggio molto impegnativo, che è, come scrive C. A. Madrignani nella prefazione del romanzo di Dessì Michele Boschino (Ilisso), accesamente ostile, sorretto dalla volontà di smitizzare la più famosa scrittrice sarda diventata gloria nazionale. La faziosità del giudizio va intesa come premessa passionale ad un manifesto di poetica nel quale lo scrittore ancora inedito esprime i suoi principi stilistici e linguistici e vede in Deledda il suo alter ego negativo, con la sottintesa ambizione di rappresentare un’alternativa in fieri. La Deledda è descritta come esponente di un verismo «allo stato di natura del tutto rozzo, elementare ed incerto» e come tale inidonea a creare il corrispettivo estetico della “vera” Sardegna.
Finalmente leggo, nel volume 7 - Il Novecento - di La Letteratura Italiana (1986) diretta da Enzo Siciliano, la monografia su Grazia Deledda di Antonella Anedda, che esordisce così:
Un silenzio misto a imbarazzo, giudizi critici a metà tra il rispetto e il fastidio, disprezzo per la sua cultura da autodidattae per l'ingenuità dello stile: a dispetto del Nobel vinto nel 1926, Grazia Deledda è una scrittrice dimenticata, citata per dovere nelle antologie, e ormai relegata, come è accaduto in occasione del cinquantesimo della morte nell'86, tra le pieghe delle manifestazioni ufficili e dei convegni regionali. Diciamo subito che ha scritto molto, probabilmente troppo e qualche volta "male", che le sue improprietà stilistiche esistono e sono dovute alle irregolarità e al disordine dei suoi studi.
Eppure, chi si avventurasse a leggere anche poche pagine dei suoi libri, resterebbe colpito dalla forza che persino i romanzi meno riusciti sembrano possedere.Finalmente un giudizio che condivido: questo romanzo che è una una discreta autobiografia (ma anche un testamento spirituale della scrittrice) colpisce per la sua forza e intensità.
Nessun commento:
Posta un commento