venerdì 27 dicembre 2013

Erich Segal - LOVE STORY - Garzanti 1971 - £ 1.600



Erich Segal (1937 - 2010) è stato professore di letteratura greca e latina a Yale, Princeton e al Wilfson College di Oxford, ma sarà ricordato non per le sue acclarate virtù accademiche, ma per il film strappalacrime da cui è tratto questo romanzo,  e non viceversa come di solito accade.

A dimostrazione di quanto fiuto per gli affari siano dotati  gli americani, film e romanzo rimasero  in vetta a tutte le classifiche, il film in testa al box office nel 1971 e il romanzo più letto nello stesso periodo, con oltre trenta traduzioni in tutto il mondo. Un successo planetario.

Segal aveva esordito nel cinema sceneggiando nel 1968 Yellow Submarine con i Beatles, proseguirà a occuparsi di cinema rimanendo prigioniero del genere, così ci sarà un sequel di Love Story: Oliver's Story (1978) dal nome del protagonista, e ancora In amore si cambia (1980), Only love (1998) e Love (2008). Quasi un'ossessione.

Di questo romanzo non sono riuscito ad andare oltre pagina 11, cioé tutto il primo capitolo. Non è snobbismo, ma ho trovato fastidiosi e un po' falsi quei dialoghi volutamente brillanti,  alla Neil Simon ma senza averne la spontaneità.

A pagina 8: (Oliver è andato a cercare un libro alla biblioteca di Radcliffe, dove lavora Jennifer)

« Senti, ho bisogno di quel libro fottuto. »
« Sei pregato di non essere volgare qui dentro, Preppie. »
« Che cosa ti fa credere che io sia andato a una prep school? »

« Perché hai l'aria stupida e ricca. » mi rispose togliendosi gli occhiali.
« Ti sbagli, » protestai. «In realtà sono intelligente e povero. »
« Oh no, Preppie. Io sono intelligente e povera. »
Ora mi guardava in faccia. Aveva gli occhi marroni. E va bene, forse ho l'aria ricca, ma non avrei mai permesso a una del Radcliffe - sia pure con due begli occhi - di darmi dello stupido.
« E perché cavolo saresti tanto intelligente? » domandai.
« Non verrei mai a prendere un caffè con te. » rispose.
« Ma guarda che io non mi sono mai sognato di chiedertelo. »
« Lo vedi che sei stupido? » 
Quello che funziona su un palcoscenico di Broadway, o al cinema con l'aiuto di un'accorta fotografia, più la simpatia degli attori e la complicità di una colonna sonora  ruffiana, non è detto funzioni sulla carta stampata, nonostante i milioni di volumi venduti.

domenica 22 dicembre 2013

Arthur de Gobineau - LA GUERRA DEI TURCOMANNI - La Biblioteca Blu di Franco Maria Ricci 1972 - £ 6.000


Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), letterato, orientalista e politico francese, di orientamento legittimista e reazionario, deve la sua discutibile fama ad un libello del 1854 dall'eloquente titolo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, testo fondamentale del pensiero razzista moderno: una illogica accozzaglia di eccentriche opinioni, spesso in contraddizione le une con le altre,  volte a dimostrare la superiorità della razza bianca (ariana), rispetto alla nera e alla gialla! In una parola cazzate in libertà - per usare un eufemismo - che hanno però rappresentato  la base culturale per  quel criminale malato di mente  che ha imperversato in Europa dal 1934 al 1945.

 Ma Arthur de Gobineau è stato anche altro, ad esempio amico e capo di gabinetto di Alexis de Tocqueville (quello dello studio sulla democrazia americana) - interessante sarebbe leggere il carteggio tra i due personaggi, apparentemente così lontani - ma anche autore di opere storiche sulla Persia, romanzi, poemi e questo arguto, insolito racconto dal sapore picaresco.

Due parole sull'edizione. Si tratta della prestigiosa collana La Bibliotreca Blu di Franco Maria Ricci, un gioiello editoriale che è un piacere sfogliare: pesante carta Fabriano 120 grammi, eleganti caratteri Bodoni corpo 12, leggibile anche senza occhiali, due sguardie colorate come la copertina e una bianca precedono il frontespizio e chiudono il libro: per dire una stampa opulenta, senza le meschine economie che accompagnano le edizioni economiche.

Il racconto è vissuto dal punto di vista dell'astuto Aga, giovane e fatalista iraniano, impegnato nella difficile arte di sopravvivere alla vita, con le astuzie e la filosofia del povero che, sotto ogni latitudine, vuole che chi è stato ingannato o derubato si rivarrà su altri, allargando così all'infinito  quella vasta e truffaldina fraternità.

Aga, dunque, dopo un breve matrimonio con la bella Leila da cui è costretto a separarsi, si trova, dopo varie peripezie, a combattere una balorda guerra contro i  Turcomanni, razziatori di schiavi, che scorazzano ai confini del paese. Fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, si adatterà alla nuova realtà ritagliandosi, con un disinvolto uso della menzogna, dello spergiuro e del ladrocinio spicciolo, uno suo spazio di vivibile felicità. Ma tornato in libertà, le sorprese non sono finite e l'avventura continua.

 Questo l'incipit nel quale il protagonista spiega il complesso problema del nome:
Mi chiamo Gholam-Hosein: come mio nonno. Parlando di lui i miei genitori aggiungevano sempre Aga, com'è naturale: monsignore, cioè. Ma il nome del capofamiglia non si deve ripetere futilmente: per questo io ero chiamato Aga e basta. E così mi chiamo. Così si chiamano anche innumerevoli miei compatrioti sparsi nel mondo; per la stessa ragione che portano il nome dei loro nonni: Alì, Hassan, Mohammed o un altro qualsivoglia. Tutti Aga!
E dunque io Aga sono. Ma con gli anni e quando la sorte mi è stata benigna, cioè qiando ho avuto un vestito decente e un po' di sciachì in saccoccia, mi è sembrato non disdicevole il titolo di Beg. Aga-Beg suona niente male. Spesso però il titolo è svanito a causa della grama fortuna e del vestiario meschino. Son diventato allora Babà-Aga; zio Aga, cioè. Me ne son fatto una ragione. Più tardi, circostanze nelle quali la mia volontà non entrava, mi hanno concesso di visitare nella città santa di Mescied la tomba degli Imam, e di mangiare tutte le volte che ho potuto la zuppa della moschea. Mi è quindi sembrato naturale fregiarmi del titolo di Mesciedì, o pellegrino di Mescied. Dà l'aria di uomo pio, grave e posato. Ho dunque il bene di vedermi conosciuto ora con il nome di Aga-Babà-Mesciedì, ora con quello che prediligo, di Mesciedì-Aga-Beg. Ma Dio dispone tutto come meglio crede!
La guerra dei turcomanni appartiene alle Nouvelle asiatiques che De Gobineau scrisse negli ultimi anni della sua vita, e dimostra una tale conoscenza della materia che tratta (usi, costumi, mentalità, linguaggio) da far sembrare il suo scritto tratto dalle Mille e una notte. 

lunedì 16 dicembre 2013

Marcello Venturi - BANDIERA BIANCA A CEFALONIA - Garzanti 1967 - £ 350



Mi piace parlare di questo libro di Marcello Venturi (1925-2008), perché mi sembra rappresenti il caso abbastanza unico dove invenzione letteraria e rievocazione di un preciso, orrendo fatto storico, si fondono armoniosamente e senza forzature. 

Prima di tutto, chi è Marcello Venturi?  Diciamo subito che è stato un esponente della Resistenza e che i temi della Resistenza sono presenti nelle sue opere fin dal suo primo racconto, Cinque minuti di tempo, che vinse nel 1946, ex-aequo con Italo Calvino (che presentava il racconto Un campo di mine), il premio di £ 50.000 indetto dal quotidiano  l'Unità di Genova. Formatosi al Politecnico di Vittorini, una delle riviste di politica e cultura più importanti del dopoguerra,  lavorò  come giornalista presso l'Unità e, in seguito divenne direttore editoriale, carica che ricoprì per molti anni, della storica collana Universale Economica Feltrinelli, dove svolse meritoria opera di scoperta di nuovi scrittori, tra i quali Camilla Salvago Raggi, di cui pubblicò la prima raccolta di racconti e che in seguito sposò.

 (http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/11/camilla-salvago-raggi-la-notte-dei.html)


Nel 1960 Marcello Venturi, dopo aver letto sulla rivista  Il Ponte di Piero Calamandrei, l'articolo di un reduce della divisione Aqui, dove si raccontava per la prima volta dell'eccidio a Cefalonia di 9.ooo tra soldati e ufficiali, trucidati non dalle solite SS ma dalla wehrmacht, dopo essere stati fatti prigionieri, stimolato anche da Feltrinelli, e dopo un viaggio sull'isola greca, decise di scrivere questo libro. 



Marcello Venturi, scrittore neorealista abituato a parlare della realtà, imposta il romanzo immaginando che il figlio di un ufficiale morto nell'eccidio visiti, vent'anni dopo, l'isola non tanto alla ricerca di testimonianze, ma di sensazioni visive ed emotive, per cercare di capire cosa avesse provato suo padre nei luoghi dove visse,  combatté e morì. 

Il racconto è diviso in sequenze che si alternano:  il tempo della strage e quello, vent'anni dopo, della visita del figlio del capitano Aldo Puglisi. La costruzione è un meccanismo perfetto, la tensione emotiva che la lettura produce, nonostante se ne conosca il doloroso epilogo, è altissima, anche se la scrittura è asciutta e non indulge a pietismi di maniera.

Questo l'incipit:


Avevo scelto il mese d'ottobre, perché in ottobre la stagione balneare, anche in un'isola dello Ionio, è chiusae presumibilmente i villeggianti hanno ripreso i traghetti. Non me la sentivo d'incontrar gente forestiera, gente che non avesse a che fare con l'isola; a me interessava conoscere gente locale, e più precisamente un certo Pasquale Lacerba, oriundo italiano, di professione fotografo; e certa Caterina Pariotis. Mi interessava conoscere l'isola allo stato naturale; come doveva essere stata, speravo , ai tempi del capitano Aldo Puglisi.
Il capitano Aldo Puglisi era mio padre, peer questro mi ero messo in viaggio, volevo vedere i posti dove lui aveva combattuto, dove era morto.

Il libro ricostruisce il criminale atteggiamento delle alte autorità militari che non seppero prevedere le reazioni tedesche alla notizia della firma dell'armistizio, ma anzi, con ordini contraddittori, lasciarono la Divisione Aqui abbandonata a se stessa.



Nel link qui sotto un'interessante  intervista rilasciata da Marcello Venturi a Roberto Botta, dell'Istituto per la Storia della Resistenza di Alessandria (ISRAL), su l'eccidio di Cefalonia:

 
In questo sito testimonianze di ufficiali e soldati italiani  della Divisione Aqui scampati all'eccidio:
 http://www.ossimoro.it/cefalonia.htm


 Nel 1993 poi è uscito un romanzo, Il mandolino del Capitano Corelli, di tale Luis de Bernières che giura di non aver copiato dal romanzo di Marcello Venturi, né essersi ispirato alla testimonianza di Amos Pampaloni, capitano d'artiglieria della Divisione Aqui sopravvissuto all'eccidio. Come se non bastasse, nel 2001, basandosi su questo romanzo, esce il film di John Madden con Nicolas Cage e Pénelope Cruz, la classica americanata, come si può facilmente desumere anche dal titolo, il mandolino fa pensare subito agli stereotipi sull'italianità!





giovedì 12 dicembre 2013

Federico Fellini - FARE UN FILM - Einaudi 1993 - £ 14.000



Ecco un libro che si può leggere e rileggere più volte, senza stancarsi mai, e ogni pagina apre ad una visione del mondo affatto nuova. Merito dell'estro, della genialità, dell'umanità, della semplicità del grande affabulatore Federico Fellini (1920-1993), maestro di ogni mezzo espressivo, dal disegno alla caricatura, dalla narrazione verbale al cinema.

Fare un film - un titolo  riduttivo che lo assimila ingiustamente ad un manuale per cineamatori - è un collage di molti scritti di Fellini (primo fra tutti La mia Rimini del '67), e da interviste rilasciate in periodi diversi, che tuttavia svela i legami misteriosi, talvolta inquietanti, che lo avvincono al suo lavoro, ma è anche una profonda riflessione sul cinema di un professionista che il cinema lo ha percorso in lungo e in largo, ricoprendone tutti i ruoli: attore, regista, soggettista-sceneggiatore, scenografo, costumista e produttore.

Il libro è anche  una carellata, a volte esilarante, di personaggi che lo animano, produttori, distributori, i colleghi registi, gli attori, gli amici di sempre: tra tutti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. Alcuni ritratti sono di una vividezza abbagliante, come questo di Anna Magnani:


Mi era simpatica la Magnani, l'ammiravo, ma mi dava un po' di soggezione con quell'aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera. E invece era una ragazzetta timida dietro quel cipiglio minaccioso, aggressivo nascondeva un'ingenuità, un pudore selvatico, un entusiasmo da monella, e il sentimento caldo, pieno, di una vera donna, come vorresti incontrare più spesso.


Fellini giornalista aveva una rubrica sulla rivista Cinemagazzino un giorno fece un'intervista a Totò:

Era al Giulio Cesare, un localone immenso che faceva film e grandi avanspettacoli. Era domenica pomeriggio, c'era quella gran folla degli spettacoli domenicali, doveva essere l'intervallo, o forse no, non era ancora cominciato lo spettacolo, perché Totò stava vicino alla cassa, protetto da transenne per tenere lontana la gente che aspettava di entrare. Era appoggiato al marmo, la testa un po' reclinata come un mobile o un amorino, come se facesse parte dell'arredamento, il colletto alto, i capelli impomatati, tutto tirato a lustro fumava con un'aria da gran signore, assorto e distaccato. Andarono a dirgli che ero un giornalista. Totò mi guardò e mi fece segno con la mano di raggiungerlo. Gli dissi che volevo fargli un'intervista. Con un lieve abbassar delle ciglie mi fece capire che acconsentiva, e poi disse subito con tono calmo e definitivo: "Allora scrivete questo, che a me piace la donna e il denaro. Avete capito?" Non disse proprio donna, ma pronunciò un vocabolo napoletano che non avevo mai sentito, tenero e osceno, infantile e cabalistico, un suono di sillabe che dava benissimo l'idea di una cosa dolce, molle, umida. Mi vide perplesso:  "Perché, a voi non piace?"
............................
Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici: la giraffa, il pellicano, il bradipo; e c'era anche la gioia e la gratitudine di vedere l'incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi davanti a te. Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un'altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito.

La grande capacità espressiva di Fellini trasforma ogni frase in una sequenza filmica, cosi che sembra di averla già vista sullo schermo:


Arrivato a Roma cominciai a frequentare di più il cinematografo, una volta alla settimana, una volta ogni quindici giorni. Quando non sapevo dove andare o quando c'erano film abbinati al varietà. I miei locali erano il Volturno, il Fenice, l'Alcione, il Brancaccio. L'avanspettacolo mi ha sempre emozionato, come il circo. Per me il cinema è una sala ribollente di voci e di sudori, le mascherine, le caldarroste, la pipì dei bambini: quell'aria da fine del mondo, da disastro, da retata. Il tramestio che precede il varietà, i professori che arrivano in orchestra, gli accordi, la voce del comico, e i passi delle ragazze dietro il velario. Oppure la gente che esce d'inverno dalle porte di sicurezza, in un vicolo, un po' rimbambiti dal freddo, qualcuno che canticchia il motivo del film, delle risatacce, qualcuno che piscia.

Mi ha colpito la lucida capacità di analisi quando parla di Roma e dei romani, senza ipocrite finzioni diplomatiche ma anche senza astio, con quella sua tenerezza innata:

(Roma) Col suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. E' una città di bambini svogliati, scettici e maleducati: anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale.
Anche per questo a Roma c'è un tale attacamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. "Te presento mi' cognato. Ecco Lallo, er fjo de mi' cugino". E' una catena: si vive fra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate.....
E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune: "Ma chi sei? Nun sei nessuno!" è confortante. Perché non c'è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno, quindi puoi anche essere tutto. Tutto può ancora essere fatto. Si può partire da zero.
Insultata come nessun'altra citta, Roma non reagisce. Il romano dice: "Mica è mia, Roma". Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice "ma che te ne frega!", nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egi si rinchiude in cerchio gastrosessuale.

Ci sarebbero tantissimi altri aspetti del libro che varrebbe la pena sottolineare, per esempio l'identificazione delle personalità con le due figure dei clown: il Bianco (il culto superbo della ragione) e l'Augusto (la libertà dell'istinto); il suo rapporto con la psicanalisi junghiana... 

Precede il testo, l' Autobiografia di uno spettatore  di Italo Calvino, uno scritto del 1974 che racconta il suo speciale rapporto con il cinema, che vede come funzione primaria dell'inserimento nel mondo.


lunedì 9 dicembre 2013

Giuliano Malizia - PROVERBI, MODI DI DIRE E DIZIONARIO ROMANESCO - Newton & Compton 1994



"Un prezioso vademecum per conoscere ed apprezzare il linguaggio della città eterna", recita il sottotitolo, perché di apprezzamenti, storicamente, il "romanesco"  ne ha ricevuti pochissimi, a cominciare da Dante che nel suo De Vulgari Eloquentia afferma che quello dei romani non è un volgare ma un turpiloquio, certo la lingua più brutta fra tutte quelle d'Italia.

Nato come linguaggio popolare, fondato sulla tradizione orale, il romanesco si consolidò nel tempo assumendo una sua specifica fisionomia. Il dialetto romano, da sempre amato e odiato, si caratterizza per le sue espressioni colorite e schiette, allegre e divertentissime. E' un vernacolo soprattutto parlato, ma anche sancito per iscritto da alcuni grandi della letteratura italiana, si pensi a Gioacchino Belli, a Cesare Pascarella o a Trilussa.

Il volume è diviso in proverbi e modi di dire, raggruppati per argomento: l'amore, le donne, la gioventù, l'ozio e il lavoro, mestieri e professioni, la chiesa e i peccati, i soldi e la fortuna, in chiusura  un accurato, prezioso e, a questo punto, indispensabile dizionario.

Sembra persino superfluo precisare che proverbi e modi di dire, nella stragrande maggioranza rispecchiano il carattere peculiare del romano, un po' saccente, arrogante, astuto, spaccone, spavaldo, ma anche generoso, smaliziato al limite del cinismo, un po' fatalista e  politicamente scorretto, perché fondamentalmente maschilista:  

Donna che smena er cul come 'na quaja, si puttana nun è, poco se sbaja;
La donna senza marito è come la scopa senza er manico;
Chi cià er matito vecchio, e lo spasseggio der paino, de certo attacca er voto a San Martino;
 La donna è come la castagna: bella de fora e dentro la magagna......

Nei confronti del papato e la religione il romano è decisamente iconoclasta:

Piove o nun piove, er papa magna;
Er papa quanno cià bisogno de quatrini, popola er celo (cioè crea nuovi santi);
Beata quela casa che cià la chirica rasa (ossia che ha un prete);
La corte romana nun vò pecore senza lana;
Quanno a Roma ce s'è posto er piede, resta la rabbia e se ne va la fede.

Il volume, che si legge o si consulta con vero divertimento, è arricchito da moltissime illustrazioni di B. Pinelli (1781-1835), da alcune xilografie tratte da Iconologia di Cesare Ripa (1555-1645), e altre incisioni ottocentesche.

domenica 1 dicembre 2013

LE RAGIONI DI QUESTO BLOG





Qualche giorno fa un amico mi ha chiesto con quale criterio scegliessi i libri da inserire nel blog, perché, nonostante lui fosse un assiduo lettore, lamentava di non aver mai trovato niente - ma proprio niente - dei libri da lui  letti su questo blog.

Per aiutarmi a rendere più fruibille il blog, mi indica allora vari autori, e me ne fa un elenco: La cattedrale del mare e La Mano di Fatima di Falcones, che mi assicura belli e avvincenti, e ancora tutta l'opera di Ken Follett; Arthur Hailey con Medicina violenta, ma anche Robin Cook con i suoi sconvolgenti thriller medici..... Cos'hanno in comune questi libri? Sono tutti dei clamorosi successi editoriali: milioni di copie vendute in tutto il mondo!

Ho detto: No grazie. Non ho niente contro i best seller, a parte la diffidenza nei confronti delle cifre spacciate come garanzia di qualità, che è come decidere di vedere un film  semplicemente affidandosi al box-office.

Pazientemente ho spiegato al mio amico che il senso di questo blog - per me che l'ho così ideato, e anche per distinguerlo dai tanti blog che si occupano di libri - è non correre dietro le novità e i best seller, ma più semplicemente leggere, e più spesso rileggere, i vecchi libri che possiedo, accumulati in cinquant'anni, con l'impegno, preso con me stesso, di scriverne sul blog per comprenderli meglio, più compiutamente. Se poi le cose scritte invoglieranno altri alla lettura di questi libri riemersi dall'oblio, non potrò che gioirne.

Per tutti questi motivi continuerò  a rovistare ovunque alla ricerca di vecchi libri che mi hanno emozionato, e continuerò a rifiutare di occuparmi di tutte quelle operazioni editoriali ordite al solo fine di produrre best seller.


Ancora tanti scatoloni da rovistare!