mercoledì 27 novembre 2013

Michele Prisco - UNA SPIRALE DI NEBBIA - Rizzoli 1966 - Prezzo cancellato


Quando nel lontano 1966 lessi - faticosamente - Una spirale di nebbia, devo confessare di non averlo apprezzato molto, condizionato com'ero da letture diverse che all'epoca mi appassionavano: i narratori americani della lost generation da una parte, e i neorealisti italiani dall'altra. Entrambi i generi erano molto distanti dalla prosa densa di Michele Prisco (1920-2003), la cui scrittura  è prevalentemente formata da lunghissimi periodi, con subordinate, che richiedono per essere compresi  grande concentrazione.  

Ne è prova l'incipit:

Il fatto era questo : che gli uomini riuniti per quel sopralluogo, poco meno d'una decina, avevano tutti le facce giallastre, lui compreso magari. Non pallide, propriamente, piuttosto soffuse da un cereo madore che forse derivava solo da un giuoco di luce : come se la loro pelle, si trovò più tardi a pensare nel tentativo di spiegarsi questa curiosa impressione, si stesse a poco a poco impregnando di tutto il livido scolorito chiarore di quella mattinata sospeso per aria come una specie di fosforescenza. Dovev'essere un fenomeno d'irradiazione, o d'assorbimento, lo capì dopo rimuginandoci sopra, benché ci fosse da considerare anche che lì nel folto del bosco, in quella corta radura ovattata di nebbie seppellite in un silenzio assoluto totale appena incrinato, o ingrandito, dal rumore leggero come un gemito dei loro passi soffocati sul terriccio molle (sulle foglie marcite) e dal fruscio di qualche animale nel sottobosco o dal torbido tonfo d'un frutto che si staccava dai rami gonfi di pioggia, la luce non riusciva in alcun modo a penetrare : e poi si trattava d'una giornata grigia cenciosa gremita  di nubi e probabilmente proprio per mancanza di sole i loro volti erano diventati la sola macchia chiara di colore in quel breve spazio dove si supponeva che Fabrizio Sangermano avesse sparato (ma il bossolo non era stato ancora trovato e l'acqua lenta e continua degli ultimi giorni aveva ormai cancellato le tracce di sangue).
Così, come nei giochi di abilità, l'uso e la dimestichezza consente di superare livelli di difficoltà sempre crescenti, anche l'abitudine alla lettura spinge a letture sempre più impegnative, con la conseguenza di riuscire a valutare positivamente  ciò che un tempo  veniva rifiutato. 

E' ciò che accade con questo libro. Ripreso dopo tanti anni, ne centellino ogni pagina, godendo delle difficoltà sintattiche e narrative che Prisco ha disseminato in tutta l'opera, costringendomi a rallentare la lettura, e prolungando il piacere che la complessità mi procura.

 Un altro saggio della prosa di Prisco, per stuzzicare la curiosità di quei lettori che vorranno avvicinarsi a questo romanziere:


Sua madre aveva rabbrividito per le parole di zia Cecilia? O forse c'è corrente, entra umido, non sarebbe il caso di chiudere quella finestra? Così s'era  voltato e aveva visto la tendina: il vento la gonfiava e l'attorcigliava, la sbatteva contro lo stipite e ce la lasciava un istante afflosciata prima di risospingerla verso la stanza, o forse non era il vento ad agitarla, era proprio la tendina che si moveva per suo conto bianca aerea leggera palpitando sino ad assumere, così gonfia d'aria, quasi una vaga forma corporea, le sembianze d'un fantasma se è vero che i fantasmi di solito si rappresentano come fluttuanti lenzuoli bianchi atteggiati a modellare l'ombra d'un corpo: in tal caso impossibile sbagliare, quello non poteva essere altro che lo spettro di Valeria e l'aveva richiamata qui in mezzo a loro zia Cecilia con una domanda a dir poco incauta ma che pure andava posta e precisata una buona volta, se si voleva concludere finalmente qualcosa.

Impressionante, eh ?

Giovanni Arpino, scrisse:

Una spirale di nebbia è un romanzo che non si può riassumere: si finirebbe per definirlo come un "giallo". Non lo si può piegare secondo i propri schemi interpretativi: scivola di mano come l'acqua. Non gli si può dare una base e lì rimirarlo immobile. E' l'uovo di Colombo, ma perché comportarci come Colombo e tentare abusivamente di metterlo in piedi?

Nel 1966, tra i diciassette concorrenti al Premio Strega, c'erano, tra gli altri, Calvino, Fausta Cialente, Leonardo Sciascia, Luigi Malerba, Gianni Clerici e appunto Michele Prisco.  Scrive a proposito Maria Bellonci :

(http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2011/06/maria-bellonci-come-un-racconto-gli.html)

Vinse Michele Prisco con Una spirale di nebbia, libro nel quale i critici ravvisarono l'impegno di una contestazione dell'istituto familiare; racconto fittamente rameggiato nel quale molti e diversi fallimenti coniugali confluivano in una specie di nodo poliziesco a significare il fallimento del matrimonio stesso.



sabato 23 novembre 2013

Giovanni Nuvoletti - ELOGIO DELLA CRAVATTA - Idea Libri 1982 - Edizione fuori commercio per Honda






Vero gentiluomo d'altri tempi, Giovanni Nuvoletti (1912-2008), scrittore, attore, uomo di vasta cultura, dotato di un raro sense of humour, presidente dell'Accademia Italiana della Cucina, ma sopratutto arbiter elegantiarum, non poteva sottrarsi al piacere di presentare un volume che esaltasse l'accessorio dell'eleganza maschile per eccellenza: la cravatta. 

Con la leggerezza che gli era propria, il conte Nuvoletti scrisse, farcendola di gustosi aneddoti, questo Elogio della cravatta nel 1982 quando già alcuni ne presagivano l'imminente scomparsa. 

Parlo oggi di questo delizioso volumetto perché colpito dall'annuncio della prossima fine della cravatta, i cui prodromi sarebbero rappresentati dalla chiusura della catena Tie Rack, presente oggi in Inghilterra con 44 punti vendita, quando nel 1998 ne erano presenti ben 480! Un declino inesorabile, dunque, destinato a cambiare per sempre l'eleganza maschile. Ma sarà veramente così ? Il conte Nuvoletti ne dubitava se concludeva il suo elogio con queste parole:


Infatti la cravatta sarà morta, sepolta nella polvere dell'inutile e del ricordo, ma non conosco nessuno che al momento di presentarsi in pubblico, o al capufficio, o alla temuta televisione, o alla sua bella, se ce l'ha ancora, non si preoccupi sopra ogni altra cosa, magari d'essere spiritoso, di dare invece un colpetto affettuoso e preoccupato al suo nodo. Dirò di più, nella mia generazione di sopravvissuti alla Belle Epoque, era di rito, all'atto di telefonare a una donna, di dare una ravviata al capello e una strizzatina alla cravatta.
Per ritornare al nostro evanescente scampolo di un passato irrevocabile, la cravatta, dobbiamo riconoscergli una vitalità insospettata nella sua fragilità. Sarà forse il riflusso, ma anche fra la gioventù efferrata saettano di nuovo le strips di qualche regimental, sullo sterno di ostinati play-boys scintillano le stars di certe oneste cravatte a pallini degne dei gentiluomini cari a Marcel Proust. E allora, ancora evviva a questo cappio ribelle, effimero nodo, velleitario capestro, nappa vanagloriosa, giulebbosa fibula, femmineo lezio, albagioso arcifànfano, reliqua aristocratica, relitto borghese, rottame ottocentesco, muliebre residuato di un maschio vestire. La cravatta è morta, viva la cravatta!
Così, incapace di redarre la mia storia della cravatta, rifiutando di confessare le storie delle mie cravatte, ho condotto a termine il mio tentativo di introdurre il più intelligente, elegante, onesto libro sulle medesime.











Grande Giovanni Nuvoletti !

http://www.lastampa.it/2013/11/21/societa/lera-della-cravatta-finisce-dopo-anni-FPT3YfoOKDyszb13VYUGrN/pagina.html

martedì 19 novembre 2013

Camilla Salvago Raggi - LA NOTTE DEI "MASCHERI" - Feltrinelli 1960 - £ 300


Di Camilla Salvago Raggi (Genova,1924) scrittrice, poetessa, traduttrice, che esordì nel lontano 1960 con questa raccolta di racconti, si dice autrice molto  apprezzata all'estero, che è un modo elegante per dire quasi sconosciuta in Italia, se si escludono gli ambienti letterari ed editoriali di Liguria e Piemonte, dove la famiglia paterna di antica aristocrazia  è presente sul territorio dal 1300.

Autrice prolifica con dodici romanzi al suo attivo, quattro raccolte di racconti, vari saggi e libri di poesie, biografie tra cui quella del marito Marcello Venturi, altro grande scrittore semi-sconosciuto, traduttrice di Conrad, Lawrence, Wilde. 

In occasione della presentazione del suo ultimo romanzo Memorie improprie, ha dichiarato:  “Cos’è per me scrivere? Per me è la vita. Ho sempre voluto scrivere. Sono volubile, dubbiosa, insicura …ma la fedeltà alla scrittura, oggi come ieri, è totale. Non riuscirei a stare un giorno senza scrivere".

Gli otto racconti di questo volume di esordio hanno la caratteristica di essere declinati al femminile: otto donne protagoniste,  in un ambiente rurale senza tempo, spesso contadine, a volte proprietarie di masserie, donne che anche nella loro fragilità esprimono sempre una forte personalità e senso di indipendenza.

Questo l'incipit dell'ultimo racconto, La signorina Betta :


Da noi, per dire che una ragazza è zitella si dice "l'è andà zerba", che è andata in gerbido (1), cioè; e siccome la signorina Betta aveva trantacinque anni e il viso fresco e appena un po' flaccido di donna che la vita ha rasentato senza toccare, il termine le calzava a pennello. Non che fosse brutta - tutt'altro; ma i suoi lineamenti erano così comuni che dopo averla guardata una volta ci si dimenticava subito di lei, e chi avesse voluto descriverla avrebbe potuto dirne soltanto che era bruna e molto alta, le due sole caratteristiche che si ricordavano di lei. Ci sono delle ragazze così, né brutte né belle, anzi abbastanza carine a volte, ma i cui tratti sfuggono non appena si cerchi di ricomporne la fisionomia.

(1) Gerbido è un terreno incolto, non lavorato, non arato.


In questi due link si trovano le altre opere di questa grande scrittrice che la cecità culturale contemporanea ha relagato in un angolo.

http://www.inmondadori.it/libri/Camilla-Salvago-Raggi/aut00012695/



La fretta non è mai una buona consigliera. Per condividere subito la bellezza di questo libro, ho pigiato il tasto "pubblica" troppo presto rispetto alle tante sensazioni che il libro mi stava ancora trasmettendo. Non mi accadeva da moltissimo tempo di dover interrompere la lettura per la troppa emozione, provocata dalla semplicità sublime del racconto.

C'è un racconto, Annetta e le stagioni, che ha la chiarezza, la simmetria, ma anche la semplicità della forma-sonata, divisa in quattro tempi,  le stagioni, dove il variare della natura è colto con un senso poetico incantevole, questo il perfetto incipit del racconto:

E' lungo, lunghissimo l'inverno per Annetta - la più lunga di tutte le stagioni.  Va bene finché non nevica: allora si può ancora andare fuori, quando è bello, e correre per il prato e nei campi dove l'erba è corta e giallina e dove c'è ancora, sotto gli alberi, qualche riccio di castagna o qualche minuscola mela avvizzita da prendere a calci facendola ruzzolare giù per il pendio: oppure la mamma la manda a prendere il latte alla Moietta, e per andarci c'è un buon quarto d'ora di strada giù per il sentiero tutto pietre dove le ruote dei carri han lasciato dei solchi così profondi e lisci da sembrare scavati col coltello; Annetta lo fa di corsa, e il pentolino vuoto le sballonzola al braccio, pan - patapàn, a ogni passo che fa.

La perfezione sintattica di questo periodo, e anche la sua musicalità, ci immette nel racconto, nella fabula, e stabilisce da subito quella complicità necessaria tra chi narra e chi legge. 

Non sorprende che questi racconti piacquero a Vittorini e la incoraggiasse ad inviarli a Sciascia e Anna Banti perché li pubblicassero sulle loro riviste; poi incontrò Marcello Venturi che dirigeva per Feltrinelli l'Universale Economica che fu entusiasta di pubblicarli in volume, e subito dopo si sposarono.

sabato 16 novembre 2013

Italo Svevo - IL BUON VECCHIO E LA BELLA FANCIULLA - Italiana - Collana della serie I Libri de L'Unità - 1993


Questo libro fa parte di una collana di quattordici titoli che il quotidiano l'Unità regalava nel 1993 ai suoi lettori. Una delle tante iniziative vincenti volute da Walter Veltroni quand'era direttore di quel giornale, che, secondo me, visti i disastri provocati in politica, non avrebbe mai dovuto lasciare, essendo stato di sicuro il miglior direttore che l'Unità abbia mai avuto e il peggiore segretario di partito.

La collana denominata Italiana offriva testi tra la fine del Settecento e l'inizio del Novecento, lì dove nasce la cultura e si forma l'identità del nostro paese, come recita il colophon degli snelli volumetti: racconti, romanzi brevi, testimonianze, memorie, invettive, per ritrovare le origini di passioni e guai che sono nostri e tutti ancora vivi.

Come è noto Italo Svevo (1861-1928), triestino, è lo pseudonimo di Aron Hector Schmitz, italianizzato in Ettore Samigli (altro suo pseudonimo) con l'annessione del Fiùli all'Italia, alla fine della Prima Guerra Mondiale.

La prima edizione di La novella del buon vecchio e la bella fanciulla, inedito alla morte dell'autore, fu pubblicato per la prima volta nel 1929 da Eugenio Montale (Morreale Milano 1929). Lo stesso Montale fu il primo in Italia a intuire il valore di Italo Svevo, e già nel 1925 lo definiva il maggior romanziere che l'Italia abbia dato dopo Verga sino ad oggi.

La novella, come  la definisce  correttamente l'autore - che non identifica mai i personaggi con il loro nome proprio, ma li menziona solo in forma fiabesca come il vecchio, la fanciulla, il medico, la donna di casa - è la storia di un amore senile che si conclude tragicamente, ma è anche un'iniziazione tardiva alla scrittura.

La storia più antica del mondo: un vecchio e facoltoso signore, nella Trieste della Grande Guerra, grazie ai suoi mezzi finanziari, corrompe una giovane ragazza del popolo e ne ottiene i favori. Dopo un attacco di cuore a seguito di una serata di eccessi, il buon vecchio si scopre moralista e inizia a scrivere un trattato dal titolo Dei rapporti tra vecchiaia e gioventù.

Questo l'incipit:


Ci fu un preludio all'avventura del buon vecchio, ma si svolse senza ch'egli quasi l'avvertisse. In un breve istante di riposo dovette ricevere nel suo ufficio una vecchia donna che gli presentava e raccomandava una fanciulla, la propria figlia. Erano state ammesse alla sua presenza in forza di un biglietto di presentazione di un suo amico. Il vecchio strappato ai suoi affari non arrivava a levarseli del tutto dalla mente e guardava intontito il biglietto sforzandosi d'intenderlo presto e presto liberarsi della seccatura.


Attualmente il racconto è disponibile nel sito IBS, edizione Morganti a € 9,50 e Perrone a € 4,90, mentre nel sito qui sotto linkato si può avere gratuitamente un'edizione e-book:

 http://www.bachecaebookgratis.com/2010/08/italo-svevo-la-novella-del-buon-vecchio.html#axzz2koNK3y25

lunedì 11 novembre 2013

Anna Maria Ortese - POVERI E SEMPLICI - I Premi Strega - Club degli Editori 1970


Anna Maria Ortese (1914-1998) è considerata, insieme ad Elsa Morante, la maggiore narratrice   che il nostro Novecento abbia prodotto.  

Poveri e semplici (1967) è il suo secondo romanzo, il primo era stato L'Iguana (1965), seguirono: Il porto di Toledo (1975), Il cappello piumato (1979), Il cardillo innamorato (1993), Alonso e i visionari (1996). 

Ma l'attività della Ortese ha spaziato in tutti i territori della narrativa: racconti, novelle, cronache, poesia. Ed è proprio con una raccolta di racconti,  Angelici dolori, che esordisce nel 1937, ma sarà nel 1953 con il dirompente  Il mare non bagna Napoli, che all'epoca fece, per ragioni diverse, scalpore quanto il recente Gomorra di Saviano, ad imporla prepotentemente all'attenzione del paese. Il libro ottenne un  premio speciale a Viareggio, che non la compensò delle infinite  polemiche  con gli intellettuali di Napoli, criticati - forse ingiustamente - in modo spietato.

Maria Bellonci, parlando del Premio Strega 1967 alla Ortese, ricorda che in quegli anni la pornografia si affacciava prepotente al cinema e pareva condizione addirittura necessaria per chi si mettesse a scrivere. E qualcuno ha visto  nella scelta del libro della Ortese una forma di tacita ribellione dei votanti contro la moda dell'imperante oscenità. 

 Prosegue Maria Bellonci:

Poveri e semplici è un libro esile, forse semplice ma non povero; è un piccolo poema di una purezza inquetante e come sul punto di frantumarsi, una memoria del tempo perduto e ritrovato nelle sillabe sguarnite.

Scrive nella prefazione il poeta Alfonso Gatto:

Poveri e semplici è la poesia degli esseri e dei sentimenti che mandano avanti il mondo. E' un racconto inaspettato, di illuminata felicità, di vivente trepidazione. Una scrittrice chiama l'amore, e con parole che torneranno dal silenzio e dal cuore degli uomini. «Io lo sentivo, sentivo ch'era dappertutto: in quest'acqua, nei monti, negli occhi degli uomini,nella miseria come nella gioia, dove si resisteva, dove si apettava.» E non so se sia il gesto della parola - una parola energica, risoluta, più che espansa - a dare il piglio di questa lontana vista, là dove la Ortese è col suo «primo sole», nel dirci: «... a volte, solo a pensarlo, mi veniva di portarmi una mano, ridendo, sugli occhi».


I poveri e semplici del romanzo sono giovani appena usciti dalla guerra e dalla lotta di liberazione, per loro i valori della resistenza sono ancora valori assoluti, e  comunismo non è un'astrazione ideologica, ma pratica quotidiana, più simile al socialismo utopico ottocentesco che a un regime autoritario e centralista. Ingenui e generosi, estranei alle rigide contrapposizioni partitiche, sembrano essersi imbevuti piuttosto che di testi rivoluzionari di Leaves of Grass di Whitman o Canto general di Neruda.

Roy era con noi quella sera, e ora guardava il giornalista, ora Andrea, ora me, con un sentimento che mi stupiva: di simpatia e  amicizia, che finora, così apertamente, non aveva mostrato mai.
 «Ho saputo, Gill, che tu canti, qualche volta... hai una bella voce», disse rivolto al nostro nuovo amico.
Questi si schernì, proprio perché era vero, e anzi, per una canzone partigiana, che cantava meravigliosamente (e partigiano lo era stato davvero, sebbene per poche settimane, e anche, credo, ferito), intitolata Quinto Reggimento, lo chiamavano scherzosamente «El Quinto». Ma poi come ripensandoci, si accostò a Roy, e sfiorando con un dito la chitarra che il ragazzo reggeva sulle ginocchia:
«Carmela: conosci Carmela?», domandò. Era un'altra bellissima canzone di guerra, ed egli ne accennò qualche nota, con una voce che non mi parve niente di eccezionale, bassa e roca.
(...........)

Io provavo una serenità, un bene, come una resurrezione, dentro di me, che senza eccitarmi molto, causa la mia fredda natura, però mi esaltava, e vedevo ogni cosa tanto perfetta, la bella sera verde, quei giovani, la mia Soniuccia, la buffa e cara figura del Barone, quasi tutto ciò io lo avessi sempre aspettato, e fosse perfetto, e non trascolerebbe più. E abbassai il viso, per la piena di questi sentimenti, come  a prolungarli o intenderli meglio.

Questo volume del Club degli Editori, collana I Premi Strega, contiene anche il romanzo L'Iguana, che quando uscì nel '65 incontrò un solido muro di incomprensione. Ma trattandosi di un romanzo assai diverso di Poveri e Semplici, per la sfrenata fantasia che lo sostiene, facendone uno dei pochi casi di realismo magico della letteratura italiana, credo per questo opportuno parlarne prossimamente, e in modo circostanziato.

 http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2014/05/anna-maria-ortese-il-porto-di-toledo.html#comments

 

mercoledì 6 novembre 2013

Gaio Valerio Catullo - LE POESIE - La Stampa Torino 2003 - € 4,90 + prezzo quotidiano



Delle 116 poesie di Gaio Valerio Catullo (87 a.C.- 54 a.C.) presenti in questo volume,  voglio evidenziare, trascrivendole, solo quelle che si riferiscono a quel misterioso amore che il poeta di Verona ha reso immortare con il nome fittizio di Lesbia, in onore della poetessa Saffo.

Che Lesbia sia probabilmente da identificarsi con Clodia, sorella di quel Publio Clodio che fece esiliare Cicerone, verosimilmente per vendetta personale, non è rilevante nella poesia di Catullo, almeno per come possiamo leggerla oggi, quando troppi riferimenti con la realtà del suo tempo si sono persi, bensì per comprendere la società in cui operava il poeta. 

Clodia, colta e bellissima, fu moglie di Quinto Metello Celere e della sua sfrenatezza parla Cicerone nel suo discorso Pro Caelio, accusandola di incesto col fratello e di aver avvelenato il marito.

Ma, come è stato scritto, "se Lesbia-Clodia non fosse esistita, Catullo l'avrebbe inventata".

                                     5
Godiamo la vita, mia Lesbia, l'amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un'unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessumo possa stringere in malie
un numero di baci così grande.

                                                           V
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa facerimus,
conturbabimus illa, ne siamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cun tantum sciat esse basiorum.

                                      7
Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,
tu possa giungere a saziarmi:
quanti sono i granelli si sabbia
che a Cirene assediano i filari di silfio
tra l'oracolo arroventato di Giove
e l'urna dell'antico batto,
o quante, nel silenzio della notte, le stelle
che vegliano i nostri amori furtivi.
Se tu mi baci con così tanti baci
che i curiosi non possano contarli
o le malelingue gettarvi una malia,
allora si placherà il delirio di Catullo.

                                                    VII
Quaeris quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus sumerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis,
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum,
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores,
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.

                                          8
Povero Catullo, basta con le illusioni:
se muore, credimi, ogni cosa è perduta.
Una fiammata di gioia i tuoi giorni
quando correvi dove lei, l'anima tua voleva,
amata come amata non sarà nessuna:
nascevano allora tutti i giochi d'amore
che tu volevi e lei non si negava.
Una fiammata di gioia quei giorni.
Ora non vuole più: e tu, coraggio, non volere,
non inseguirla, come un miserabile, se fugge,
ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio anima mia. Catullo non cede più, 
non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:
ma tu soffrirai di non essere desiderata.
Guardati, dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?
 chi amerai? da chi sarai amata?
E chi bacerai?, a chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.
                     

                     VIII

Miser Catulle, desinas ineptite, 
et quod vides perisse perditum ducas
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo quella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa tum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nobelat.
Fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult: tu quoque, impotens, (noli), 
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale, puella. Iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam:
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te: quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura.

Che dire di questa traduzione-omaggio alla poesia di Saffo ?                       
                          51

Simile a un dio mi sembra che sia
e forse più di un dio, vorrei dire,
chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi
ti ascolta ridere
dolcemente; ed io mi sento morire
d'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,
a me non rimane in cuore nemmeno
un po' di voce,
la lingua si secca e un fuoco sottile
mi scorre nelle ossa, le orecchie
mi ronzano dentro e su questi chi
scende la notte.                               

                                                     LI
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(tum quoque vocis,)
lingua sed torpet, tenui sub artus
fiamma demanat, sonito suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte. 

                       58

Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,
quella sola Lesbia che amavo
più di ogni cosa e di me stesso,
ora all'angolo dei vicoli spreme
questa gioventù dorata di Remo. 

                        LVIII

Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimos Remi nepotes. 


                                72

Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,
e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.
E io ti ho amato non come tutti un'amante,
ma come un padre ama ognuno dei suoi figli.
Ora so chi sei: e anche se più intenso è il desiderio
ti sei ridotta per me sempre più insignificante e vile.
Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,
vedi ad amare di più, ma con minore amore.


                                LXXII
Dicebas quondam solum te nosse, Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tanem es vilior et levior.
Qui potis est? inquis. Quos amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.  
                   

                     75

Così per colpa tua, mia Lesbia,
mi è caduto il cuore
e così si è logorato nella sua fedeltà,
che ormai più non potrebbe volerti bene
anche se fossi migliore
o cessare d'amarti
per quanto tu faccia.  



                         LXXV

Huc est mens deducta tua, mea Lesbia, culpa,
atque ita se officio perditit ipsa suo,
ut iam nec bene velle queat tibi, si optuma fias,
nec desistere amare, omnia si facias.  

                    79

Lesbio deve essere proprio bello.
Certo: Lesbia lo preferisce
a Catullo e a tutti i suoi amici.
Ma questo bello
venda schiavo Catullo e i suoi amici,
se rimadia anche solo un bacio
fra tre che lo conoscono.  

                          LXXIX
Lesbius est pulcer: quid ni? quem Lesbia malit 
quam te cum tota gente, Catulle, tua.
Sed tamen hic pulcer vendat cum gente Catullum,
si tria notorium savia reppererit.


                           83

Col marito Lesbia mi travolge d'ingiurie
e quello sciocco ne trae una gioia profonda.
Stronzo, non capisci? tacesse, m'avrebbe dimenticato,
sarebbe guarita, invece sbraita e m'insulta:
non solo ricorda, ma cosa ben più grave
è furente. Brucia d'amore, per questo parla.  


                             LXXXIII

Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:
haec illi fatuo maxima laetitia est.
Mule, nihil sentis. Si nostri oblita taceret,
sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
non solo meminit, sed quae multo acrior est res,
irata est. Hoc est, uritur et loquitur.  


                             86

Per molti Quinzia è bella, per me bianca, dritta,
slanciata. Questi pregi li riconosco,
ma non dirò certo che è bella: non ha grazia,
né un pizzico di sale in quel corpo superbo.
Bella è Lesbia, bellissima tutta fra tutte
a ognuna ha rapito ogni possibile grazia.  


                       LXXXVI

Quintia formosa est multis, mihi candida, longa,
resta est. Haec ego sic singula confiteor,
totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,
tum omnibus una omnis subripuit veneres.  


                             87

Nessuna donna potrà dire "sono stata amata"
più di quanto io ti ho amato, Lesbia mia.
Nessun legame avrà mai quella fedeltà
che nel mio amore ti ho portato.  


                           LXXXVII

Nulla potest mulier tantumse dicere amatam
vere, quantuma me Lesbia amata mea es.
Nulla fides ullo fuit omquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est.  


                         92

Lesbia sparla sempre di me, senza respiro
di me: morissi se Lesbia non mi ama.
Lo so, son come lei: la copro ogni giorno
d'insulti, ma morissi se io non l'amo.  


                             XCII

Lesbia mi dicit semper male nec tacet imquam
da me: Lesbia me dispeream nisi amat.
Quo signo? quia totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.  


                    107

Se contro ogni speranza ottieni
ciò che desideravi in cuore,
una gioia insolita ti prende.
E questa è la mia gioia,
più preziosa dell'oro:
a me tu ritorni, a me, Lesbia,
a un desiderio ormai senza speranza, 
al mio desiderio ritorni, 
a me, a me tu ti ridarai.
O giorno luminoso!
Chi vivrà più felice?
chi potrà mai pensare vita
più, più desiderabile di questa?
  

                           CVII

Si qui quid cupido optantique  obtigit umquam
insperanti, hoc est gratum animo proprie.
Quare hoc est gratum, nobisque est carius auro,
quos te restituis, Lesbia, mi cupido,
restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
nobis. O lucem candidiora nota!
Quis me uno vivit felicior, aut magis hac rem
optandam vita dicere quis poterit?


                       109

Eterno, anima mia, senza ombre
mi prometti questo nostro amore.
Mio dio, fa' che prometta il vero
e lo dica sinceramente, col cuore.
Potesse durare tutta la vita
questo eterno giuramento d'amore.  


                       CIX

Iocondum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos poerpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis totta perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae. 


Adesso che rileggo tutte assieme queste poesie ad unico tema, mi rendo conto di quanto questa scelta sia arbitraria e inutile per la comprensione dell'opera di Catullo e, in un certo senso, ne snaturi la sua caratteristica più peculiare di caleidoscopio narrativo e stilistico

Infatti, anche se non marginali, le poesie dedicate a Lesbia, rappresentano solo il dodici per cento del Catulli carmina, tutto il resto è dedicato ad occasionali amori, polemiche letterarie e politiche, invettive contro rivali in amore, stroncature, ricordi di viaggio, elegie, epigrammi - di grande intensità il n.101 dedicato alla morte del fratello - dove la combinazione fra linguaggio letterario e lingua parlata, popolare - spesso scurrile nelle invettive - rappresentano il fascino di questo poeta ancora  moderno dopo 21 secoli.