martedì 27 dicembre 2011

Bertolt Brecht - GLI AFFARI DEL SIGNOR GIULIO CESARE - Einaudi 1975 - £ 2.000


In questo romanzo storico, purtroppo incompleto e pubblicato postumo nel 1956, per la traduzione di Roberto Bazien, Brecht dimostra come affari e politica siano attività affini e concordanti, intrinsecamente legate e coincidenti. Da sempre.

Solo in un'altra occasione Brecht si era cimentato nella narrativa, Romanzo da tre soldi, una trasposizione dalla più nota opera teatrale. Questo romanzo, invece, tratta un personaggio ed un periodo mai affrontati da Brecht sulla scena: Giulio Cesare.

Certo, non l'apologia del geniale condottiero, l'eroico conquistatore delle Gallie, il legislatore, l'amante di Cleopatra, nè il grande oratore o il brillante storico e narratore, che si guadagnò l'ammirazione di Cicerone e Svetonio, ma l'uomo che per raggiungere i suoi scopi non si faceva scrupolo di ricorrere a intrighi e corruzione, come d'altronde accadeva normalmente nel senato e in tutto il mondo politico-affaristico romano.

Il libro è bene articolato. Uno storico di età imperiale, intenzionato a scrivere una biografia di Giulio Cesare, acquista da Mumlio Spicro, ex ufficiale giudiziario e banchiere, che era stato amico di Cesare, i diari di Raro che al servizio di Cesare, si occupava delle sue questioni finanziarie, (sopratutto tenere a bada i numerosi creditori!).

Il ritratto che ne esce è quello di una Roma più complensibile di quella che si studia sui banchi di scuola, più vicina al mondo reale, dove i rapporti di forza esprimono le autentiche differenze sociali che la determinano. Ad esempio, la nostra conoscenza di Catilina attraverso le orazioni di Cicerone, non ci fanno chiarezza sulla situazione economica del periodo, sulle istanze populiste che Catilina esprimeva, sulla presa che queste avevano sul popolo, sulle difficoltà economiche che il popolo romano incontrava a causa della massiccia presenza di schiavi, mano d'opera a costo zero in mano a latifondisti che strangolavano i piccoli produttori. In questo contesto, C. (come viene sempre definito Cesare nei diari di Raro) può scegliere la sua politica più comveniente.

19.8
Per evitare di dare inutilmente nell'occhio, gli schiavi che Pompeo manda dall'Asia, vengono condotti di solito in città nelle prime ore del mattino per la vendita all'asta. Oggi ho visto una processione di questa gente. Circa 2000 scendevano zoccolando dalla Suburra, in uno stato pietoso, con calzature troppo leggere per il nostro pessimo selciato. Malgrado l'ora mattutina mi trovai circondato da piccoli bottegai e da disoccupati (i primi si mettono al lavoro molto presto per risprmiare la luce, i secondi vanno al mercato molto prsto in cerca di rifiuti a buon prezzo). Tutti guardavano cupi la lunga processione: Sapevano che ognuno di questi schiavi significava un posto di meno o un cliente di meno.

2.9
Gia da due settimane avevo inteso parlare qua e là di Catilina, ma ora improvvisamente non si parla d'altro. Vengo a sapere che ha tenuto un comizio nel terzo distretto, dove pare abbia parlato tra applausi entusiastici, contro i profittatori e gli speculatori. Egli esige che non soltanto il Senato e la city, ma anche il più infimo cittadino romano abbia la sua parte del bottino fatto in Asia. (.....)

10.9
La fuga di capitali assume proporzioni sempre maggiori. Il tasso d'interesse è salito dal 6 per cento al 10 per cento. Dunque nella city hanno già paura di Catilina! Pomponio Celere "pellami e cuoi", disse però qualcosa di molto notevole: "Forse la city fa sparire i capitali perché si abbia paura di Catilina".
Abbiamo discusso un'ora intera su questa frase.


Una lettura istruttiva e divertente. Peccato che Brecht non sia vissuto abbastanza per completare l'opera.


venerdì 23 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - IL DIAVOLO AL PONTELUNGO -Mondadori 1957 - £ 1.600


Questo squinternato volume della collana mondadoriana dei Narratori Italiani n.42 uscì nel 1957, per dare un'idea della lontananza di quella data, basti pensare che in quell'anno iniziarono le trasmissioni di Carosello, sei paesi firmarono il Trattato di Roma per far nascere l'Unione Europea, uscì la prima Fiat 500, Jack Kerouac pubblicò On the road e in Italia Feltrinelli diede alle stampe Il dottor Zivago.

Il diavolo al Pontelungo, naturalmente, non era una novità editoriale, era già stato pubblicato nel 1927, anno particolarmente ricco per la letteratura: nello stesso anno uscirono infatti America di Kafka, Gita al faro della Woolf e il Tempo ritrovato con cui Proust chiudeva la sua recerche.

Il romanzo uscì dunque nel '27 per i tipi dell'editore Ceschina di Milano, ma Bacchelli continuò a metterci le mani, sicché la versione definitiva la si può considerare questa del 1957 a cui seguirà, nel 1965, una edizione economica negli Oscar.


Questo romanzo storico di Bacchelli, definito da molti critici una delle opere più felici e più fortunate del romanziere, tratta dell'amicizia prima e della rottura poi tra l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin (1814-1876) e l'anarchico Carlo Cafiero (1846-1892), nonché del primo tentativo di far scoccare la scintilla della rivoluzione a Bologna per poi estenderla in tutta Italia.

Bakunin è una figura affascinante nel panorama ottocentesco, partecipa nel 1949 all'insurrezione di Dresda - gli fu compagno tra gli altri Wagner - arrestato e condannato a morte, pena commutata in carcere a vita, dopo il trasferimento in Russia la sua pena fu ancora commutata in esilio in Siberia, da dove fuggì nel 1861.

Ecco come magistralmente ce lo descrive Bacchelli:

Michele Alessandrovic Bakùnin sfiorava due metri di statura, e la sagoma dell'uomo era ampia e possente in pari proporzioni. La barba gli scorreva sul petto larga e appuntita, morbida, ondulata e brizzolata come i capelli che gli facevano una raggiera folta dietro la nuca. La fronte era larga e un po' sfuggente, fronte di fantastico e di sensuale; il naso era vivo e la bocca carnale. Lo sguardo era azzurro come l'illusione e trasparente come la logica assurda; le palpebre gravavano un poco, come quelle dei pigri e degli assonnati, sull'occhio. Questo era acuto, interrogativo, pronto sugli oggetti e sull'interlocutore, oppure vago e perso in un lieve sorriso estatico, indirizzato a tutto o a niente. Queste due espressioni di estrema petulanza e di estrema indolenza si inseguivano sul viso di Bakùnin a distanza di momenti, a volte accompagnando e a volte contraddicendo le parole e le azioni di quel che stava facendo e dicendo.
Carlo Cafiero, l'anarchico pugliese, ecco come ce lo presenta Bacchelli:

Carlo Cafiero, di fronte allo slavo rumoroso e massiccio, era tutt'altra figura fisica e morale. Egi era spinto ad agire dalla testa, e la testa esaltata non lascia requie, nè svago, nè sanità. Era di media statura, abbottonato e scialbo nel modo di vestire quanto Bakunin era libero, sciolto e colorito nel suo. Capelli e barba aveva lisci, uniti e ravviati; era un uomo gracile e composto, un'astratta e nervosa figura d'italiano e di meridionale. L'inquietudine che suscitava lo scioperato Bakunin era un elemento di simpatia umana, la stima che destava Cafiero era causa di freddezza. Asciutto, taciturno, severo, aveva nelle dita qualcosa che non voleva mai star fermo. E fregava spesso i gomiti sul fianco, stropicciando fra le dita, come per strapparli, maniche e bavero della giacca. Questi gesti divenivano nella contrarietà veri accessi nervosi, e allora lo sguardo, miope dietro gli spessi occhiali a stanghetta da studioso, cresceva una sua fissità assente e penosa. Il naso era bonario, la bocca arida, la fronte appuntita di testardo e di mistico. Al solo vederlo si scorgeva l'uomo scrupoloso e sottile, e su tutta la persona un segno, un'ombra di destino funesto e smarrito.
L'insurrezione di Bologna, che avrebbe dovuto essere la scintilla capace di scatenare la rivoluzione in Italia, fallì miseramente perché all'appuntamento con la storia si presentarono solo duecento rivoluzionari anziché i mille previsti, male organizzati, peggio armati, senza nessun coordinamento tra i vari gruppi, regolarmente ostili tra loro: caratteristiche queste peculiari sia della sinistra di tutti i tempi, che degli italiani in genere.

Le ali ardenti e temerarie dell'utopia erano cadute come ali da teatro, e Bakùnin si destò sereno e curioso del mondo. Era una curiosità pacifica, di ogni e qualsiasi oggetto. Per quanto gli paresse di aver da apprendere tutto, cioè quel che in sessant'anni aveva ignorato o visto di straforo coll'occhio dell'arbitrio e dell'idea fissa; tutto il vasto mondo, le tantissime cose, ora che di vita gli restavano mesi più che anni, non gli facevan fretta, non erano una ricchezza da dilapidare per timor d'essere tardi a godere. Il mondo era una ricchezza sua e senza fondo, tranquilla, inconsumabile.
A distanza di tempo dalla sua apparizione, il romanzo non ha perso nulla della sua attrattiva e del suo fascino, e si legge con piacere, pervaso com'è da bonaria saggezza e garbata ironia.

venerdì 16 dicembre 2011

COLAZIONE DA TIFFANY di Truman Capote








Devo alla lodevole iniziativa del giornale “La Repubblica”, che nella collana La Biblioteca del Novecento ha edito alcuni romanzi che altrimenti, forse, non avrei mai letto, l’incontro con Colazione da Tiffany di Truman Capote. Certo, la lettura è in parte disturbata dalla continua comparazione che, anche involontariamente, viene da fare con quel vero cult-movie che è il film con Audrey Hepburn, ma il romanzo funziona benissimo da solo, senza l’ingombrante riferimento Avevo conosciuto Truman Capote per un romanzo sconvolgente degli anni ‘60, A sangue freddo, la ricostruzione, niente affatto romanzata, di un fatto di sangue accaduto qualche anno prima, in una provincia americana del middle west.

In Colazione da Tiffany(1959) Capote, come gli altri scrittori della beat-generation, coglie lo spirito del tempo e sembra proporre una filosofia di vita capace di convertire i modelli severi della morale puritana in pura pratica della gioia, della leggerezza, della vitalità.

Il cinema americano, le grandi case di produzione, le major, sembrano non possedere la forza per
presentare una realtà che non sia banalmente consolatoria e ottimistica, e così condanna Colazione da Tiffany ad essere solo una deliziosa commedia brillante dell'american life, cioè il trionfo del conformismo contro lo spirito del romanzo.

domenica 11 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - UNA PASSIONE CONIUGALE - BMM n.483 - 1963- £ 350




Fate una prova: chiedete a un giovane se conosce Bacchelli. Nella migliore delle ipotesi vi dirà che è l'estensore di una legge che porta il suo nome, finalizzata ad aiutare artisti indigenti.

I più informati ricorderanno il suo monumentale Mulino del Po, romanzo scritto alla fine degli anni 30 del secolo scorso e grandioso sceneggiato televisivo del 1963 del maestro del genere Sandro Bolchi.

Ho sempre considerato Bacchelli alla stessa stregua di Manzoni, cioé un grande romanziere, come notoriamente non ne abbiamo in Italia, e ho trovato lo stesso giudizio espresso da Montanelli, nella prefazione a una vecchia edizione del Mulino del Po.

In questo intenso romanzo, Una passione coniugale, che ho riletto dopo tanti anni, ho ritrovato tutti gli elementi che me lo fecero amare nel lontano 1963, quando lo lessi in questa terza edizione: l'elegante scrittura, la complessa analisi psicologica dei personaggi, la modernità con la quale l'autore tratta un tema caro alla grande letteratura romantica, il rapporto tra l'amore e la morte.

Per dare un'idea di questo denso romanzo, ecco un brano che, per chi ha qualche dimestichezza con Proust, non faticherà a trovare alcune affinità:


Giulia era arrivata a Olmèdolo assai stanca, e aveva fatto una sana e bella dormita. Più lunga quella di Giorgio, che dormiva ancora quando Giulia appoggiata la testa sul palmo della mano destra, si mise sul fianco a guardarlo, pensando pigramente e contenta alla dolcezza del letto ritrovato dopo quei parecchi giorni di letti d'albergo. Non basta, rifletteva, che un letto sia buono, nè troppo cedevole nè troppo duro, e uguale e di giusta ampiezza. Bisogna, come la camera, che sia diventato nostro e cògnito, foggiato e penetrato di quelle innumerevoli impronte personali, che si fanno percepire dai sensi quando mancano e che lo spirito non degna di riconoscere se non quando, dopo che uno sia partito o sia morto, all'entrare nelle sue stanze intime ci s'accorge con dolore com'erano sue e come restano animate da lui.
L'amore che lega i due sposi si colora, fin dalle prime pagine, di una vena drammatica quando viene diagnosticato a Giulia una leucemia che non lascia alcuna speranza. L'amore, già intenso che li lega, privato della prospettiva del futuro, diviene assoluto, disperato, morboso: gli sposi si isolano completamente per dedicarsi solo al loro rapporto, destinato a interrompersi con la morte.

Giulia controlla le modificazioni che la malattia compie sul suo corpo:

Dimenticando nel timore l'oggetto del suo timore, si buttò com'era fuori del letto, e andò a scostare la tenda davanti a uno di quegli specchi che dal tempo della sua malattia teneva sempre coperti. Lo specchio le rifletteva addosso la luce, approfondendogliela attorno, e facendo splendere i margini e le linee esterne del suo corpo. Com'era bella! Sorta in piedi aveva ritrovato lo splendore fermo della sua gioventù, che il sonno aveva ammollito. Nello specchio molato, dalla luce chiara e profonda, apparivano, quasi in una limpida acqua di gemma, le parti più donnesche del corpo di lei, che gli volgeva le spalle, dalle ombrose ascelle e dal collo, che proteso verso lo specchio spiccava agile e fresco, fino alla dolcezza arrendevole e vigorosa delle ginocchia lucide e rotonde. Lo specchio incastonava il viso come una gemma: Lei non guardava Giorgio nello specchio, nè la propria bellezza, ma levando le braccia graziose, fatte esili dalla malattia tanto da dare una stretta al cuore indicibile, non meno belle, allontanava con una mano i capelli scomposti, ala nera sulla sua fronte ben fatta e nobilmente, e con l'altra scostava fra due dita le labbra e le palpebre in quel gesto di paura puerile che le era diventato abituale da quando spesso s'era data a spiare sulle gengive e dentro le palpebre i progressi del suo funebre pallore.

I personaggi di questo indimenticabile romanzo, sono resi con una vividezza esemplare, il loro travaglio psicologico di fronte all'incombente tragedia è raccontato con la semplicità che è solo dei grandi classici.