venerdì 27 dicembre 2013

Erich Segal - LOVE STORY - Garzanti 1971 - £ 1.600



Erich Segal (1937 - 2010) è stato professore di letteratura greca e latina a Yale, Princeton e al Wilfson College di Oxford, ma sarà ricordato non per le sue acclarate virtù accademiche, ma per il film strappalacrime da cui è tratto questo romanzo,  e non viceversa come di solito accade.

A dimostrazione di quanto fiuto per gli affari siano dotati  gli americani, film e romanzo rimasero  in vetta a tutte le classifiche, il film in testa al box office nel 1971 e il romanzo più letto nello stesso periodo, con oltre trenta traduzioni in tutto il mondo. Un successo planetario.

Segal aveva esordito nel cinema sceneggiando nel 1968 Yellow Submarine con i Beatles, proseguirà a occuparsi di cinema rimanendo prigioniero del genere, così ci sarà un sequel di Love Story: Oliver's Story (1978) dal nome del protagonista, e ancora In amore si cambia (1980), Only love (1998) e Love (2008). Quasi un'ossessione.

Di questo romanzo non sono riuscito ad andare oltre pagina 11, cioé tutto il primo capitolo. Non è snobbismo, ma ho trovato fastidiosi e un po' falsi quei dialoghi volutamente brillanti,  alla Neil Simon ma senza averne la spontaneità.

A pagina 8: (Oliver è andato a cercare un libro alla biblioteca di Radcliffe, dove lavora Jennifer)

« Senti, ho bisogno di quel libro fottuto. »
« Sei pregato di non essere volgare qui dentro, Preppie. »
« Che cosa ti fa credere che io sia andato a una prep school? »

« Perché hai l'aria stupida e ricca. » mi rispose togliendosi gli occhiali.
« Ti sbagli, » protestai. «In realtà sono intelligente e povero. »
« Oh no, Preppie. Io sono intelligente e povera. »
Ora mi guardava in faccia. Aveva gli occhi marroni. E va bene, forse ho l'aria ricca, ma non avrei mai permesso a una del Radcliffe - sia pure con due begli occhi - di darmi dello stupido.
« E perché cavolo saresti tanto intelligente? » domandai.
« Non verrei mai a prendere un caffè con te. » rispose.
« Ma guarda che io non mi sono mai sognato di chiedertelo. »
« Lo vedi che sei stupido? » 
Quello che funziona su un palcoscenico di Broadway, o al cinema con l'aiuto di un'accorta fotografia, più la simpatia degli attori e la complicità di una colonna sonora  ruffiana, non è detto funzioni sulla carta stampata, nonostante i milioni di volumi venduti.

domenica 22 dicembre 2013

Arthur de Gobineau - LA GUERRA DEI TURCOMANNI - La Biblioteca Blu di Franco Maria Ricci 1972 - £ 6.000


Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), letterato, orientalista e politico francese, di orientamento legittimista e reazionario, deve la sua discutibile fama ad un libello del 1854 dall'eloquente titolo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, testo fondamentale del pensiero razzista moderno: una illogica accozzaglia di eccentriche opinioni, spesso in contraddizione le une con le altre,  volte a dimostrare la superiorità della razza bianca (ariana), rispetto alla nera e alla gialla! In una parola cazzate in libertà - per usare un eufemismo - che hanno però rappresentato  la base culturale per  quel criminale malato di mente  che ha imperversato in Europa dal 1934 al 1945.

 Ma Arthur de Gobineau è stato anche altro, ad esempio amico e capo di gabinetto di Alexis de Tocqueville (quello dello studio sulla democrazia americana) - interessante sarebbe leggere il carteggio tra i due personaggi, apparentemente così lontani - ma anche autore di opere storiche sulla Persia, romanzi, poemi e questo arguto, insolito racconto dal sapore picaresco.

Due parole sull'edizione. Si tratta della prestigiosa collana La Bibliotreca Blu di Franco Maria Ricci, un gioiello editoriale che è un piacere sfogliare: pesante carta Fabriano 120 grammi, eleganti caratteri Bodoni corpo 12, leggibile anche senza occhiali, due sguardie colorate come la copertina e una bianca precedono il frontespizio e chiudono il libro: per dire una stampa opulenta, senza le meschine economie che accompagnano le edizioni economiche.

Il racconto è vissuto dal punto di vista dell'astuto Aga, giovane e fatalista iraniano, impegnato nella difficile arte di sopravvivere alla vita, con le astuzie e la filosofia del povero che, sotto ogni latitudine, vuole che chi è stato ingannato o derubato si rivarrà su altri, allargando così all'infinito  quella vasta e truffaldina fraternità.

Aga, dunque, dopo un breve matrimonio con la bella Leila da cui è costretto a separarsi, si trova, dopo varie peripezie, a combattere una balorda guerra contro i  Turcomanni, razziatori di schiavi, che scorazzano ai confini del paese. Fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, si adatterà alla nuova realtà ritagliandosi, con un disinvolto uso della menzogna, dello spergiuro e del ladrocinio spicciolo, uno suo spazio di vivibile felicità. Ma tornato in libertà, le sorprese non sono finite e l'avventura continua.

 Questo l'incipit nel quale il protagonista spiega il complesso problema del nome:
Mi chiamo Gholam-Hosein: come mio nonno. Parlando di lui i miei genitori aggiungevano sempre Aga, com'è naturale: monsignore, cioè. Ma il nome del capofamiglia non si deve ripetere futilmente: per questo io ero chiamato Aga e basta. E così mi chiamo. Così si chiamano anche innumerevoli miei compatrioti sparsi nel mondo; per la stessa ragione che portano il nome dei loro nonni: Alì, Hassan, Mohammed o un altro qualsivoglia. Tutti Aga!
E dunque io Aga sono. Ma con gli anni e quando la sorte mi è stata benigna, cioè qiando ho avuto un vestito decente e un po' di sciachì in saccoccia, mi è sembrato non disdicevole il titolo di Beg. Aga-Beg suona niente male. Spesso però il titolo è svanito a causa della grama fortuna e del vestiario meschino. Son diventato allora Babà-Aga; zio Aga, cioè. Me ne son fatto una ragione. Più tardi, circostanze nelle quali la mia volontà non entrava, mi hanno concesso di visitare nella città santa di Mescied la tomba degli Imam, e di mangiare tutte le volte che ho potuto la zuppa della moschea. Mi è quindi sembrato naturale fregiarmi del titolo di Mesciedì, o pellegrino di Mescied. Dà l'aria di uomo pio, grave e posato. Ho dunque il bene di vedermi conosciuto ora con il nome di Aga-Babà-Mesciedì, ora con quello che prediligo, di Mesciedì-Aga-Beg. Ma Dio dispone tutto come meglio crede!
La guerra dei turcomanni appartiene alle Nouvelle asiatiques che De Gobineau scrisse negli ultimi anni della sua vita, e dimostra una tale conoscenza della materia che tratta (usi, costumi, mentalità, linguaggio) da far sembrare il suo scritto tratto dalle Mille e una notte. 

lunedì 16 dicembre 2013

Marcello Venturi - BANDIERA BIANCA A CEFALONIA - Garzanti 1967 - £ 350



Mi piace parlare di questo libro di Marcello Venturi (1925-2008), perché mi sembra rappresenti il caso abbastanza unico dove invenzione letteraria e rievocazione di un preciso, orrendo fatto storico, si fondono armoniosamente e senza forzature. 

Prima di tutto, chi è Marcello Venturi?  Diciamo subito che è stato un esponente della Resistenza e che i temi della Resistenza sono presenti nelle sue opere fin dal suo primo racconto, Cinque minuti di tempo, che vinse nel 1946, ex-aequo con Italo Calvino (che presentava il racconto Un campo di mine), il premio di £ 50.000 indetto dal quotidiano  l'Unità di Genova. Formatosi al Politecnico di Vittorini, una delle riviste di politica e cultura più importanti del dopoguerra,  lavorò  come giornalista presso l'Unità e, in seguito divenne direttore editoriale, carica che ricoprì per molti anni, della storica collana Universale Economica Feltrinelli, dove svolse meritoria opera di scoperta di nuovi scrittori, tra i quali Camilla Salvago Raggi, di cui pubblicò la prima raccolta di racconti e che in seguito sposò.

 (http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/11/camilla-salvago-raggi-la-notte-dei.html)


Nel 1960 Marcello Venturi, dopo aver letto sulla rivista  Il Ponte di Piero Calamandrei, l'articolo di un reduce della divisione Aqui, dove si raccontava per la prima volta dell'eccidio a Cefalonia di 9.ooo tra soldati e ufficiali, trucidati non dalle solite SS ma dalla wehrmacht, dopo essere stati fatti prigionieri, stimolato anche da Feltrinelli, e dopo un viaggio sull'isola greca, decise di scrivere questo libro. 



Marcello Venturi, scrittore neorealista abituato a parlare della realtà, imposta il romanzo immaginando che il figlio di un ufficiale morto nell'eccidio visiti, vent'anni dopo, l'isola non tanto alla ricerca di testimonianze, ma di sensazioni visive ed emotive, per cercare di capire cosa avesse provato suo padre nei luoghi dove visse,  combatté e morì. 

Il racconto è diviso in sequenze che si alternano:  il tempo della strage e quello, vent'anni dopo, della visita del figlio del capitano Aldo Puglisi. La costruzione è un meccanismo perfetto, la tensione emotiva che la lettura produce, nonostante se ne conosca il doloroso epilogo, è altissima, anche se la scrittura è asciutta e non indulge a pietismi di maniera.

Questo l'incipit:


Avevo scelto il mese d'ottobre, perché in ottobre la stagione balneare, anche in un'isola dello Ionio, è chiusae presumibilmente i villeggianti hanno ripreso i traghetti. Non me la sentivo d'incontrar gente forestiera, gente che non avesse a che fare con l'isola; a me interessava conoscere gente locale, e più precisamente un certo Pasquale Lacerba, oriundo italiano, di professione fotografo; e certa Caterina Pariotis. Mi interessava conoscere l'isola allo stato naturale; come doveva essere stata, speravo , ai tempi del capitano Aldo Puglisi.
Il capitano Aldo Puglisi era mio padre, peer questro mi ero messo in viaggio, volevo vedere i posti dove lui aveva combattuto, dove era morto.

Il libro ricostruisce il criminale atteggiamento delle alte autorità militari che non seppero prevedere le reazioni tedesche alla notizia della firma dell'armistizio, ma anzi, con ordini contraddittori, lasciarono la Divisione Aqui abbandonata a se stessa.



Nel link qui sotto un'interessante  intervista rilasciata da Marcello Venturi a Roberto Botta, dell'Istituto per la Storia della Resistenza di Alessandria (ISRAL), su l'eccidio di Cefalonia:

 
In questo sito testimonianze di ufficiali e soldati italiani  della Divisione Aqui scampati all'eccidio:
 http://www.ossimoro.it/cefalonia.htm


 Nel 1993 poi è uscito un romanzo, Il mandolino del Capitano Corelli, di tale Luis de Bernières che giura di non aver copiato dal romanzo di Marcello Venturi, né essersi ispirato alla testimonianza di Amos Pampaloni, capitano d'artiglieria della Divisione Aqui sopravvissuto all'eccidio. Come se non bastasse, nel 2001, basandosi su questo romanzo, esce il film di John Madden con Nicolas Cage e Pénelope Cruz, la classica americanata, come si può facilmente desumere anche dal titolo, il mandolino fa pensare subito agli stereotipi sull'italianità!





giovedì 12 dicembre 2013

Federico Fellini - FARE UN FILM - Einaudi 1993 - £ 14.000



Ecco un libro che si può leggere e rileggere più volte, senza stancarsi mai, e ogni pagina apre ad una visione del mondo affatto nuova. Merito dell'estro, della genialità, dell'umanità, della semplicità del grande affabulatore Federico Fellini (1920-1993), maestro di ogni mezzo espressivo, dal disegno alla caricatura, dalla narrazione verbale al cinema.

Fare un film - un titolo  riduttivo che lo assimila ingiustamente ad un manuale per cineamatori - è un collage di molti scritti di Fellini (primo fra tutti La mia Rimini del '67), e da interviste rilasciate in periodi diversi, che tuttavia svela i legami misteriosi, talvolta inquietanti, che lo avvincono al suo lavoro, ma è anche una profonda riflessione sul cinema di un professionista che il cinema lo ha percorso in lungo e in largo, ricoprendone tutti i ruoli: attore, regista, soggettista-sceneggiatore, scenografo, costumista e produttore.

Il libro è anche  una carellata, a volte esilarante, di personaggi che lo animano, produttori, distributori, i colleghi registi, gli attori, gli amici di sempre: tra tutti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. Alcuni ritratti sono di una vividezza abbagliante, come questo di Anna Magnani:


Mi era simpatica la Magnani, l'ammiravo, ma mi dava un po' di soggezione con quell'aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera. E invece era una ragazzetta timida dietro quel cipiglio minaccioso, aggressivo nascondeva un'ingenuità, un pudore selvatico, un entusiasmo da monella, e il sentimento caldo, pieno, di una vera donna, come vorresti incontrare più spesso.


Fellini giornalista aveva una rubrica sulla rivista Cinemagazzino un giorno fece un'intervista a Totò:

Era al Giulio Cesare, un localone immenso che faceva film e grandi avanspettacoli. Era domenica pomeriggio, c'era quella gran folla degli spettacoli domenicali, doveva essere l'intervallo, o forse no, non era ancora cominciato lo spettacolo, perché Totò stava vicino alla cassa, protetto da transenne per tenere lontana la gente che aspettava di entrare. Era appoggiato al marmo, la testa un po' reclinata come un mobile o un amorino, come se facesse parte dell'arredamento, il colletto alto, i capelli impomatati, tutto tirato a lustro fumava con un'aria da gran signore, assorto e distaccato. Andarono a dirgli che ero un giornalista. Totò mi guardò e mi fece segno con la mano di raggiungerlo. Gli dissi che volevo fargli un'intervista. Con un lieve abbassar delle ciglie mi fece capire che acconsentiva, e poi disse subito con tono calmo e definitivo: "Allora scrivete questo, che a me piace la donna e il denaro. Avete capito?" Non disse proprio donna, ma pronunciò un vocabolo napoletano che non avevo mai sentito, tenero e osceno, infantile e cabalistico, un suono di sillabe che dava benissimo l'idea di una cosa dolce, molle, umida. Mi vide perplesso:  "Perché, a voi non piace?"
............................
Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici: la giraffa, il pellicano, il bradipo; e c'era anche la gioia e la gratitudine di vedere l'incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi davanti a te. Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un'altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito.

La grande capacità espressiva di Fellini trasforma ogni frase in una sequenza filmica, cosi che sembra di averla già vista sullo schermo:


Arrivato a Roma cominciai a frequentare di più il cinematografo, una volta alla settimana, una volta ogni quindici giorni. Quando non sapevo dove andare o quando c'erano film abbinati al varietà. I miei locali erano il Volturno, il Fenice, l'Alcione, il Brancaccio. L'avanspettacolo mi ha sempre emozionato, come il circo. Per me il cinema è una sala ribollente di voci e di sudori, le mascherine, le caldarroste, la pipì dei bambini: quell'aria da fine del mondo, da disastro, da retata. Il tramestio che precede il varietà, i professori che arrivano in orchestra, gli accordi, la voce del comico, e i passi delle ragazze dietro il velario. Oppure la gente che esce d'inverno dalle porte di sicurezza, in un vicolo, un po' rimbambiti dal freddo, qualcuno che canticchia il motivo del film, delle risatacce, qualcuno che piscia.

Mi ha colpito la lucida capacità di analisi quando parla di Roma e dei romani, senza ipocrite finzioni diplomatiche ma anche senza astio, con quella sua tenerezza innata:

(Roma) Col suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. E' una città di bambini svogliati, scettici e maleducati: anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale.
Anche per questo a Roma c'è un tale attacamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. "Te presento mi' cognato. Ecco Lallo, er fjo de mi' cugino". E' una catena: si vive fra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate.....
E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune: "Ma chi sei? Nun sei nessuno!" è confortante. Perché non c'è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno, quindi puoi anche essere tutto. Tutto può ancora essere fatto. Si può partire da zero.
Insultata come nessun'altra citta, Roma non reagisce. Il romano dice: "Mica è mia, Roma". Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice "ma che te ne frega!", nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egi si rinchiude in cerchio gastrosessuale.

Ci sarebbero tantissimi altri aspetti del libro che varrebbe la pena sottolineare, per esempio l'identificazione delle personalità con le due figure dei clown: il Bianco (il culto superbo della ragione) e l'Augusto (la libertà dell'istinto); il suo rapporto con la psicanalisi junghiana... 

Precede il testo, l' Autobiografia di uno spettatore  di Italo Calvino, uno scritto del 1974 che racconta il suo speciale rapporto con il cinema, che vede come funzione primaria dell'inserimento nel mondo.


lunedì 9 dicembre 2013

Giuliano Malizia - PROVERBI, MODI DI DIRE E DIZIONARIO ROMANESCO - Newton & Compton 1994



"Un prezioso vademecum per conoscere ed apprezzare il linguaggio della città eterna", recita il sottotitolo, perché di apprezzamenti, storicamente, il "romanesco"  ne ha ricevuti pochissimi, a cominciare da Dante che nel suo De Vulgari Eloquentia afferma che quello dei romani non è un volgare ma un turpiloquio, certo la lingua più brutta fra tutte quelle d'Italia.

Nato come linguaggio popolare, fondato sulla tradizione orale, il romanesco si consolidò nel tempo assumendo una sua specifica fisionomia. Il dialetto romano, da sempre amato e odiato, si caratterizza per le sue espressioni colorite e schiette, allegre e divertentissime. E' un vernacolo soprattutto parlato, ma anche sancito per iscritto da alcuni grandi della letteratura italiana, si pensi a Gioacchino Belli, a Cesare Pascarella o a Trilussa.

Il volume è diviso in proverbi e modi di dire, raggruppati per argomento: l'amore, le donne, la gioventù, l'ozio e il lavoro, mestieri e professioni, la chiesa e i peccati, i soldi e la fortuna, in chiusura  un accurato, prezioso e, a questo punto, indispensabile dizionario.

Sembra persino superfluo precisare che proverbi e modi di dire, nella stragrande maggioranza rispecchiano il carattere peculiare del romano, un po' saccente, arrogante, astuto, spaccone, spavaldo, ma anche generoso, smaliziato al limite del cinismo, un po' fatalista e  politicamente scorretto, perché fondamentalmente maschilista:  

Donna che smena er cul come 'na quaja, si puttana nun è, poco se sbaja;
La donna senza marito è come la scopa senza er manico;
Chi cià er matito vecchio, e lo spasseggio der paino, de certo attacca er voto a San Martino;
 La donna è come la castagna: bella de fora e dentro la magagna......

Nei confronti del papato e la religione il romano è decisamente iconoclasta:

Piove o nun piove, er papa magna;
Er papa quanno cià bisogno de quatrini, popola er celo (cioè crea nuovi santi);
Beata quela casa che cià la chirica rasa (ossia che ha un prete);
La corte romana nun vò pecore senza lana;
Quanno a Roma ce s'è posto er piede, resta la rabbia e se ne va la fede.

Il volume, che si legge o si consulta con vero divertimento, è arricchito da moltissime illustrazioni di B. Pinelli (1781-1835), da alcune xilografie tratte da Iconologia di Cesare Ripa (1555-1645), e altre incisioni ottocentesche.

domenica 1 dicembre 2013

LE RAGIONI DI QUESTO BLOG





Qualche giorno fa un amico mi ha chiesto con quale criterio scegliessi i libri da inserire nel blog, perché, nonostante lui fosse un assiduo lettore, lamentava di non aver mai trovato niente - ma proprio niente - dei libri da lui  letti su questo blog.

Per aiutarmi a rendere più fruibille il blog, mi indica allora vari autori, e me ne fa un elenco: La cattedrale del mare e La Mano di Fatima di Falcones, che mi assicura belli e avvincenti, e ancora tutta l'opera di Ken Follett; Arthur Hailey con Medicina violenta, ma anche Robin Cook con i suoi sconvolgenti thriller medici..... Cos'hanno in comune questi libri? Sono tutti dei clamorosi successi editoriali: milioni di copie vendute in tutto il mondo!

Ho detto: No grazie. Non ho niente contro i best seller, a parte la diffidenza nei confronti delle cifre spacciate come garanzia di qualità, che è come decidere di vedere un film  semplicemente affidandosi al box-office.

Pazientemente ho spiegato al mio amico che il senso di questo blog - per me che l'ho così ideato, e anche per distinguerlo dai tanti blog che si occupano di libri - è non correre dietro le novità e i best seller, ma più semplicemente leggere, e più spesso rileggere, i vecchi libri che possiedo, accumulati in cinquant'anni, con l'impegno, preso con me stesso, di scriverne sul blog per comprenderli meglio, più compiutamente. Se poi le cose scritte invoglieranno altri alla lettura di questi libri riemersi dall'oblio, non potrò che gioirne.

Per tutti questi motivi continuerò  a rovistare ovunque alla ricerca di vecchi libri che mi hanno emozionato, e continuerò a rifiutare di occuparmi di tutte quelle operazioni editoriali ordite al solo fine di produrre best seller.


Ancora tanti scatoloni da rovistare!













mercoledì 27 novembre 2013

Michele Prisco - UNA SPIRALE DI NEBBIA - Rizzoli 1966 - Prezzo cancellato


Quando nel lontano 1966 lessi - faticosamente - Una spirale di nebbia, devo confessare di non averlo apprezzato molto, condizionato com'ero da letture diverse che all'epoca mi appassionavano: i narratori americani della lost generation da una parte, e i neorealisti italiani dall'altra. Entrambi i generi erano molto distanti dalla prosa densa di Michele Prisco (1920-2003), la cui scrittura  è prevalentemente formata da lunghissimi periodi, con subordinate, che richiedono per essere compresi  grande concentrazione.  

Ne è prova l'incipit:

Il fatto era questo : che gli uomini riuniti per quel sopralluogo, poco meno d'una decina, avevano tutti le facce giallastre, lui compreso magari. Non pallide, propriamente, piuttosto soffuse da un cereo madore che forse derivava solo da un giuoco di luce : come se la loro pelle, si trovò più tardi a pensare nel tentativo di spiegarsi questa curiosa impressione, si stesse a poco a poco impregnando di tutto il livido scolorito chiarore di quella mattinata sospeso per aria come una specie di fosforescenza. Dovev'essere un fenomeno d'irradiazione, o d'assorbimento, lo capì dopo rimuginandoci sopra, benché ci fosse da considerare anche che lì nel folto del bosco, in quella corta radura ovattata di nebbie seppellite in un silenzio assoluto totale appena incrinato, o ingrandito, dal rumore leggero come un gemito dei loro passi soffocati sul terriccio molle (sulle foglie marcite) e dal fruscio di qualche animale nel sottobosco o dal torbido tonfo d'un frutto che si staccava dai rami gonfi di pioggia, la luce non riusciva in alcun modo a penetrare : e poi si trattava d'una giornata grigia cenciosa gremita  di nubi e probabilmente proprio per mancanza di sole i loro volti erano diventati la sola macchia chiara di colore in quel breve spazio dove si supponeva che Fabrizio Sangermano avesse sparato (ma il bossolo non era stato ancora trovato e l'acqua lenta e continua degli ultimi giorni aveva ormai cancellato le tracce di sangue).
Così, come nei giochi di abilità, l'uso e la dimestichezza consente di superare livelli di difficoltà sempre crescenti, anche l'abitudine alla lettura spinge a letture sempre più impegnative, con la conseguenza di riuscire a valutare positivamente  ciò che un tempo  veniva rifiutato. 

E' ciò che accade con questo libro. Ripreso dopo tanti anni, ne centellino ogni pagina, godendo delle difficoltà sintattiche e narrative che Prisco ha disseminato in tutta l'opera, costringendomi a rallentare la lettura, e prolungando il piacere che la complessità mi procura.

 Un altro saggio della prosa di Prisco, per stuzzicare la curiosità di quei lettori che vorranno avvicinarsi a questo romanziere:


Sua madre aveva rabbrividito per le parole di zia Cecilia? O forse c'è corrente, entra umido, non sarebbe il caso di chiudere quella finestra? Così s'era  voltato e aveva visto la tendina: il vento la gonfiava e l'attorcigliava, la sbatteva contro lo stipite e ce la lasciava un istante afflosciata prima di risospingerla verso la stanza, o forse non era il vento ad agitarla, era proprio la tendina che si moveva per suo conto bianca aerea leggera palpitando sino ad assumere, così gonfia d'aria, quasi una vaga forma corporea, le sembianze d'un fantasma se è vero che i fantasmi di solito si rappresentano come fluttuanti lenzuoli bianchi atteggiati a modellare l'ombra d'un corpo: in tal caso impossibile sbagliare, quello non poteva essere altro che lo spettro di Valeria e l'aveva richiamata qui in mezzo a loro zia Cecilia con una domanda a dir poco incauta ma che pure andava posta e precisata una buona volta, se si voleva concludere finalmente qualcosa.

Impressionante, eh ?

Giovanni Arpino, scrisse:

Una spirale di nebbia è un romanzo che non si può riassumere: si finirebbe per definirlo come un "giallo". Non lo si può piegare secondo i propri schemi interpretativi: scivola di mano come l'acqua. Non gli si può dare una base e lì rimirarlo immobile. E' l'uovo di Colombo, ma perché comportarci come Colombo e tentare abusivamente di metterlo in piedi?

Nel 1966, tra i diciassette concorrenti al Premio Strega, c'erano, tra gli altri, Calvino, Fausta Cialente, Leonardo Sciascia, Luigi Malerba, Gianni Clerici e appunto Michele Prisco.  Scrive a proposito Maria Bellonci :

(http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2011/06/maria-bellonci-come-un-racconto-gli.html)

Vinse Michele Prisco con Una spirale di nebbia, libro nel quale i critici ravvisarono l'impegno di una contestazione dell'istituto familiare; racconto fittamente rameggiato nel quale molti e diversi fallimenti coniugali confluivano in una specie di nodo poliziesco a significare il fallimento del matrimonio stesso.



sabato 23 novembre 2013

Giovanni Nuvoletti - ELOGIO DELLA CRAVATTA - Idea Libri 1982 - Edizione fuori commercio per Honda






Vero gentiluomo d'altri tempi, Giovanni Nuvoletti (1912-2008), scrittore, attore, uomo di vasta cultura, dotato di un raro sense of humour, presidente dell'Accademia Italiana della Cucina, ma sopratutto arbiter elegantiarum, non poteva sottrarsi al piacere di presentare un volume che esaltasse l'accessorio dell'eleganza maschile per eccellenza: la cravatta. 

Con la leggerezza che gli era propria, il conte Nuvoletti scrisse, farcendola di gustosi aneddoti, questo Elogio della cravatta nel 1982 quando già alcuni ne presagivano l'imminente scomparsa. 

Parlo oggi di questo delizioso volumetto perché colpito dall'annuncio della prossima fine della cravatta, i cui prodromi sarebbero rappresentati dalla chiusura della catena Tie Rack, presente oggi in Inghilterra con 44 punti vendita, quando nel 1998 ne erano presenti ben 480! Un declino inesorabile, dunque, destinato a cambiare per sempre l'eleganza maschile. Ma sarà veramente così ? Il conte Nuvoletti ne dubitava se concludeva il suo elogio con queste parole:


Infatti la cravatta sarà morta, sepolta nella polvere dell'inutile e del ricordo, ma non conosco nessuno che al momento di presentarsi in pubblico, o al capufficio, o alla temuta televisione, o alla sua bella, se ce l'ha ancora, non si preoccupi sopra ogni altra cosa, magari d'essere spiritoso, di dare invece un colpetto affettuoso e preoccupato al suo nodo. Dirò di più, nella mia generazione di sopravvissuti alla Belle Epoque, era di rito, all'atto di telefonare a una donna, di dare una ravviata al capello e una strizzatina alla cravatta.
Per ritornare al nostro evanescente scampolo di un passato irrevocabile, la cravatta, dobbiamo riconoscergli una vitalità insospettata nella sua fragilità. Sarà forse il riflusso, ma anche fra la gioventù efferrata saettano di nuovo le strips di qualche regimental, sullo sterno di ostinati play-boys scintillano le stars di certe oneste cravatte a pallini degne dei gentiluomini cari a Marcel Proust. E allora, ancora evviva a questo cappio ribelle, effimero nodo, velleitario capestro, nappa vanagloriosa, giulebbosa fibula, femmineo lezio, albagioso arcifànfano, reliqua aristocratica, relitto borghese, rottame ottocentesco, muliebre residuato di un maschio vestire. La cravatta è morta, viva la cravatta!
Così, incapace di redarre la mia storia della cravatta, rifiutando di confessare le storie delle mie cravatte, ho condotto a termine il mio tentativo di introdurre il più intelligente, elegante, onesto libro sulle medesime.











Grande Giovanni Nuvoletti !

http://www.lastampa.it/2013/11/21/societa/lera-della-cravatta-finisce-dopo-anni-FPT3YfoOKDyszb13VYUGrN/pagina.html

martedì 19 novembre 2013

Camilla Salvago Raggi - LA NOTTE DEI "MASCHERI" - Feltrinelli 1960 - £ 300


Di Camilla Salvago Raggi (Genova,1924) scrittrice, poetessa, traduttrice, che esordì nel lontano 1960 con questa raccolta di racconti, si dice autrice molto  apprezzata all'estero, che è un modo elegante per dire quasi sconosciuta in Italia, se si escludono gli ambienti letterari ed editoriali di Liguria e Piemonte, dove la famiglia paterna di antica aristocrazia  è presente sul territorio dal 1300.

Autrice prolifica con dodici romanzi al suo attivo, quattro raccolte di racconti, vari saggi e libri di poesie, biografie tra cui quella del marito Marcello Venturi, altro grande scrittore semi-sconosciuto, traduttrice di Conrad, Lawrence, Wilde. 

In occasione della presentazione del suo ultimo romanzo Memorie improprie, ha dichiarato:  “Cos’è per me scrivere? Per me è la vita. Ho sempre voluto scrivere. Sono volubile, dubbiosa, insicura …ma la fedeltà alla scrittura, oggi come ieri, è totale. Non riuscirei a stare un giorno senza scrivere".

Gli otto racconti di questo volume di esordio hanno la caratteristica di essere declinati al femminile: otto donne protagoniste,  in un ambiente rurale senza tempo, spesso contadine, a volte proprietarie di masserie, donne che anche nella loro fragilità esprimono sempre una forte personalità e senso di indipendenza.

Questo l'incipit dell'ultimo racconto, La signorina Betta :


Da noi, per dire che una ragazza è zitella si dice "l'è andà zerba", che è andata in gerbido (1), cioè; e siccome la signorina Betta aveva trantacinque anni e il viso fresco e appena un po' flaccido di donna che la vita ha rasentato senza toccare, il termine le calzava a pennello. Non che fosse brutta - tutt'altro; ma i suoi lineamenti erano così comuni che dopo averla guardata una volta ci si dimenticava subito di lei, e chi avesse voluto descriverla avrebbe potuto dirne soltanto che era bruna e molto alta, le due sole caratteristiche che si ricordavano di lei. Ci sono delle ragazze così, né brutte né belle, anzi abbastanza carine a volte, ma i cui tratti sfuggono non appena si cerchi di ricomporne la fisionomia.

(1) Gerbido è un terreno incolto, non lavorato, non arato.


In questi due link si trovano le altre opere di questa grande scrittrice che la cecità culturale contemporanea ha relagato in un angolo.

http://www.inmondadori.it/libri/Camilla-Salvago-Raggi/aut00012695/



La fretta non è mai una buona consigliera. Per condividere subito la bellezza di questo libro, ho pigiato il tasto "pubblica" troppo presto rispetto alle tante sensazioni che il libro mi stava ancora trasmettendo. Non mi accadeva da moltissimo tempo di dover interrompere la lettura per la troppa emozione, provocata dalla semplicità sublime del racconto.

C'è un racconto, Annetta e le stagioni, che ha la chiarezza, la simmetria, ma anche la semplicità della forma-sonata, divisa in quattro tempi,  le stagioni, dove il variare della natura è colto con un senso poetico incantevole, questo il perfetto incipit del racconto:

E' lungo, lunghissimo l'inverno per Annetta - la più lunga di tutte le stagioni.  Va bene finché non nevica: allora si può ancora andare fuori, quando è bello, e correre per il prato e nei campi dove l'erba è corta e giallina e dove c'è ancora, sotto gli alberi, qualche riccio di castagna o qualche minuscola mela avvizzita da prendere a calci facendola ruzzolare giù per il pendio: oppure la mamma la manda a prendere il latte alla Moietta, e per andarci c'è un buon quarto d'ora di strada giù per il sentiero tutto pietre dove le ruote dei carri han lasciato dei solchi così profondi e lisci da sembrare scavati col coltello; Annetta lo fa di corsa, e il pentolino vuoto le sballonzola al braccio, pan - patapàn, a ogni passo che fa.

La perfezione sintattica di questo periodo, e anche la sua musicalità, ci immette nel racconto, nella fabula, e stabilisce da subito quella complicità necessaria tra chi narra e chi legge. 

Non sorprende che questi racconti piacquero a Vittorini e la incoraggiasse ad inviarli a Sciascia e Anna Banti perché li pubblicassero sulle loro riviste; poi incontrò Marcello Venturi che dirigeva per Feltrinelli l'Universale Economica che fu entusiasta di pubblicarli in volume, e subito dopo si sposarono.

sabato 16 novembre 2013

Italo Svevo - IL BUON VECCHIO E LA BELLA FANCIULLA - Italiana - Collana della serie I Libri de L'Unità - 1993


Questo libro fa parte di una collana di quattordici titoli che il quotidiano l'Unità regalava nel 1993 ai suoi lettori. Una delle tante iniziative vincenti volute da Walter Veltroni quand'era direttore di quel giornale, che, secondo me, visti i disastri provocati in politica, non avrebbe mai dovuto lasciare, essendo stato di sicuro il miglior direttore che l'Unità abbia mai avuto e il peggiore segretario di partito.

La collana denominata Italiana offriva testi tra la fine del Settecento e l'inizio del Novecento, lì dove nasce la cultura e si forma l'identità del nostro paese, come recita il colophon degli snelli volumetti: racconti, romanzi brevi, testimonianze, memorie, invettive, per ritrovare le origini di passioni e guai che sono nostri e tutti ancora vivi.

Come è noto Italo Svevo (1861-1928), triestino, è lo pseudonimo di Aron Hector Schmitz, italianizzato in Ettore Samigli (altro suo pseudonimo) con l'annessione del Fiùli all'Italia, alla fine della Prima Guerra Mondiale.

La prima edizione di La novella del buon vecchio e la bella fanciulla, inedito alla morte dell'autore, fu pubblicato per la prima volta nel 1929 da Eugenio Montale (Morreale Milano 1929). Lo stesso Montale fu il primo in Italia a intuire il valore di Italo Svevo, e già nel 1925 lo definiva il maggior romanziere che l'Italia abbia dato dopo Verga sino ad oggi.

La novella, come  la definisce  correttamente l'autore - che non identifica mai i personaggi con il loro nome proprio, ma li menziona solo in forma fiabesca come il vecchio, la fanciulla, il medico, la donna di casa - è la storia di un amore senile che si conclude tragicamente, ma è anche un'iniziazione tardiva alla scrittura.

La storia più antica del mondo: un vecchio e facoltoso signore, nella Trieste della Grande Guerra, grazie ai suoi mezzi finanziari, corrompe una giovane ragazza del popolo e ne ottiene i favori. Dopo un attacco di cuore a seguito di una serata di eccessi, il buon vecchio si scopre moralista e inizia a scrivere un trattato dal titolo Dei rapporti tra vecchiaia e gioventù.

Questo l'incipit:


Ci fu un preludio all'avventura del buon vecchio, ma si svolse senza ch'egli quasi l'avvertisse. In un breve istante di riposo dovette ricevere nel suo ufficio una vecchia donna che gli presentava e raccomandava una fanciulla, la propria figlia. Erano state ammesse alla sua presenza in forza di un biglietto di presentazione di un suo amico. Il vecchio strappato ai suoi affari non arrivava a levarseli del tutto dalla mente e guardava intontito il biglietto sforzandosi d'intenderlo presto e presto liberarsi della seccatura.


Attualmente il racconto è disponibile nel sito IBS, edizione Morganti a € 9,50 e Perrone a € 4,90, mentre nel sito qui sotto linkato si può avere gratuitamente un'edizione e-book:

 http://www.bachecaebookgratis.com/2010/08/italo-svevo-la-novella-del-buon-vecchio.html#axzz2koNK3y25

lunedì 11 novembre 2013

Anna Maria Ortese - POVERI E SEMPLICI - I Premi Strega - Club degli Editori 1970


Anna Maria Ortese (1914-1998) è considerata, insieme ad Elsa Morante, la maggiore narratrice   che il nostro Novecento abbia prodotto.  

Poveri e semplici (1967) è il suo secondo romanzo, il primo era stato L'Iguana (1965), seguirono: Il porto di Toledo (1975), Il cappello piumato (1979), Il cardillo innamorato (1993), Alonso e i visionari (1996). 

Ma l'attività della Ortese ha spaziato in tutti i territori della narrativa: racconti, novelle, cronache, poesia. Ed è proprio con una raccolta di racconti,  Angelici dolori, che esordisce nel 1937, ma sarà nel 1953 con il dirompente  Il mare non bagna Napoli, che all'epoca fece, per ragioni diverse, scalpore quanto il recente Gomorra di Saviano, ad imporla prepotentemente all'attenzione del paese. Il libro ottenne un  premio speciale a Viareggio, che non la compensò delle infinite  polemiche  con gli intellettuali di Napoli, criticati - forse ingiustamente - in modo spietato.

Maria Bellonci, parlando del Premio Strega 1967 alla Ortese, ricorda che in quegli anni la pornografia si affacciava prepotente al cinema e pareva condizione addirittura necessaria per chi si mettesse a scrivere. E qualcuno ha visto  nella scelta del libro della Ortese una forma di tacita ribellione dei votanti contro la moda dell'imperante oscenità. 

 Prosegue Maria Bellonci:

Poveri e semplici è un libro esile, forse semplice ma non povero; è un piccolo poema di una purezza inquetante e come sul punto di frantumarsi, una memoria del tempo perduto e ritrovato nelle sillabe sguarnite.

Scrive nella prefazione il poeta Alfonso Gatto:

Poveri e semplici è la poesia degli esseri e dei sentimenti che mandano avanti il mondo. E' un racconto inaspettato, di illuminata felicità, di vivente trepidazione. Una scrittrice chiama l'amore, e con parole che torneranno dal silenzio e dal cuore degli uomini. «Io lo sentivo, sentivo ch'era dappertutto: in quest'acqua, nei monti, negli occhi degli uomini,nella miseria come nella gioia, dove si resisteva, dove si apettava.» E non so se sia il gesto della parola - una parola energica, risoluta, più che espansa - a dare il piglio di questa lontana vista, là dove la Ortese è col suo «primo sole», nel dirci: «... a volte, solo a pensarlo, mi veniva di portarmi una mano, ridendo, sugli occhi».


I poveri e semplici del romanzo sono giovani appena usciti dalla guerra e dalla lotta di liberazione, per loro i valori della resistenza sono ancora valori assoluti, e  comunismo non è un'astrazione ideologica, ma pratica quotidiana, più simile al socialismo utopico ottocentesco che a un regime autoritario e centralista. Ingenui e generosi, estranei alle rigide contrapposizioni partitiche, sembrano essersi imbevuti piuttosto che di testi rivoluzionari di Leaves of Grass di Whitman o Canto general di Neruda.

Roy era con noi quella sera, e ora guardava il giornalista, ora Andrea, ora me, con un sentimento che mi stupiva: di simpatia e  amicizia, che finora, così apertamente, non aveva mostrato mai.
 «Ho saputo, Gill, che tu canti, qualche volta... hai una bella voce», disse rivolto al nostro nuovo amico.
Questi si schernì, proprio perché era vero, e anzi, per una canzone partigiana, che cantava meravigliosamente (e partigiano lo era stato davvero, sebbene per poche settimane, e anche, credo, ferito), intitolata Quinto Reggimento, lo chiamavano scherzosamente «El Quinto». Ma poi come ripensandoci, si accostò a Roy, e sfiorando con un dito la chitarra che il ragazzo reggeva sulle ginocchia:
«Carmela: conosci Carmela?», domandò. Era un'altra bellissima canzone di guerra, ed egli ne accennò qualche nota, con una voce che non mi parve niente di eccezionale, bassa e roca.
(...........)

Io provavo una serenità, un bene, come una resurrezione, dentro di me, che senza eccitarmi molto, causa la mia fredda natura, però mi esaltava, e vedevo ogni cosa tanto perfetta, la bella sera verde, quei giovani, la mia Soniuccia, la buffa e cara figura del Barone, quasi tutto ciò io lo avessi sempre aspettato, e fosse perfetto, e non trascolerebbe più. E abbassai il viso, per la piena di questi sentimenti, come  a prolungarli o intenderli meglio.

Questo volume del Club degli Editori, collana I Premi Strega, contiene anche il romanzo L'Iguana, che quando uscì nel '65 incontrò un solido muro di incomprensione. Ma trattandosi di un romanzo assai diverso di Poveri e Semplici, per la sfrenata fantasia che lo sostiene, facendone uno dei pochi casi di realismo magico della letteratura italiana, credo per questo opportuno parlarne prossimamente, e in modo circostanziato.

 http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2014/05/anna-maria-ortese-il-porto-di-toledo.html#comments

 

mercoledì 6 novembre 2013

Gaio Valerio Catullo - LE POESIE - La Stampa Torino 2003 - € 4,90 + prezzo quotidiano



Delle 116 poesie di Gaio Valerio Catullo (87 a.C.- 54 a.C.) presenti in questo volume,  voglio evidenziare, trascrivendole, solo quelle che si riferiscono a quel misterioso amore che il poeta di Verona ha reso immortare con il nome fittizio di Lesbia, in onore della poetessa Saffo.

Che Lesbia sia probabilmente da identificarsi con Clodia, sorella di quel Publio Clodio che fece esiliare Cicerone, verosimilmente per vendetta personale, non è rilevante nella poesia di Catullo, almeno per come possiamo leggerla oggi, quando troppi riferimenti con la realtà del suo tempo si sono persi, bensì per comprendere la società in cui operava il poeta. 

Clodia, colta e bellissima, fu moglie di Quinto Metello Celere e della sua sfrenatezza parla Cicerone nel suo discorso Pro Caelio, accusandola di incesto col fratello e di aver avvelenato il marito.

Ma, come è stato scritto, "se Lesbia-Clodia non fosse esistita, Catullo l'avrebbe inventata".

                                     5
Godiamo la vita, mia Lesbia, l'amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un'unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessumo possa stringere in malie
un numero di baci così grande.

                                                           V
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa facerimus,
conturbabimus illa, ne siamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cun tantum sciat esse basiorum.

                                      7
Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,
tu possa giungere a saziarmi:
quanti sono i granelli si sabbia
che a Cirene assediano i filari di silfio
tra l'oracolo arroventato di Giove
e l'urna dell'antico batto,
o quante, nel silenzio della notte, le stelle
che vegliano i nostri amori furtivi.
Se tu mi baci con così tanti baci
che i curiosi non possano contarli
o le malelingue gettarvi una malia,
allora si placherà il delirio di Catullo.

                                                    VII
Quaeris quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus sumerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis,
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum,
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores,
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.

                                          8
Povero Catullo, basta con le illusioni:
se muore, credimi, ogni cosa è perduta.
Una fiammata di gioia i tuoi giorni
quando correvi dove lei, l'anima tua voleva,
amata come amata non sarà nessuna:
nascevano allora tutti i giochi d'amore
che tu volevi e lei non si negava.
Una fiammata di gioia quei giorni.
Ora non vuole più: e tu, coraggio, non volere,
non inseguirla, come un miserabile, se fugge,
ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio anima mia. Catullo non cede più, 
non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:
ma tu soffrirai di non essere desiderata.
Guardati, dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?
 chi amerai? da chi sarai amata?
E chi bacerai?, a chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.
                     

                     VIII

Miser Catulle, desinas ineptite, 
et quod vides perisse perditum ducas
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo quella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa tum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nobelat.
Fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult: tu quoque, impotens, (noli), 
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale, puella. Iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam:
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te: quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura.

Che dire di questa traduzione-omaggio alla poesia di Saffo ?                       
                          51

Simile a un dio mi sembra che sia
e forse più di un dio, vorrei dire,
chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi
ti ascolta ridere
dolcemente; ed io mi sento morire
d'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,
a me non rimane in cuore nemmeno
un po' di voce,
la lingua si secca e un fuoco sottile
mi scorre nelle ossa, le orecchie
mi ronzano dentro e su questi chi
scende la notte.                               

                                                     LI
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(tum quoque vocis,)
lingua sed torpet, tenui sub artus
fiamma demanat, sonito suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte. 

                       58

Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,
quella sola Lesbia che amavo
più di ogni cosa e di me stesso,
ora all'angolo dei vicoli spreme
questa gioventù dorata di Remo. 

                        LVIII

Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimos Remi nepotes. 


                                72

Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,
e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.
E io ti ho amato non come tutti un'amante,
ma come un padre ama ognuno dei suoi figli.
Ora so chi sei: e anche se più intenso è il desiderio
ti sei ridotta per me sempre più insignificante e vile.
Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,
vedi ad amare di più, ma con minore amore.


                                LXXII
Dicebas quondam solum te nosse, Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tanem es vilior et levior.
Qui potis est? inquis. Quos amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.  
                   

                     75

Così per colpa tua, mia Lesbia,
mi è caduto il cuore
e così si è logorato nella sua fedeltà,
che ormai più non potrebbe volerti bene
anche se fossi migliore
o cessare d'amarti
per quanto tu faccia.  



                         LXXV

Huc est mens deducta tua, mea Lesbia, culpa,
atque ita se officio perditit ipsa suo,
ut iam nec bene velle queat tibi, si optuma fias,
nec desistere amare, omnia si facias.  

                    79

Lesbio deve essere proprio bello.
Certo: Lesbia lo preferisce
a Catullo e a tutti i suoi amici.
Ma questo bello
venda schiavo Catullo e i suoi amici,
se rimadia anche solo un bacio
fra tre che lo conoscono.  

                          LXXIX
Lesbius est pulcer: quid ni? quem Lesbia malit 
quam te cum tota gente, Catulle, tua.
Sed tamen hic pulcer vendat cum gente Catullum,
si tria notorium savia reppererit.


                           83

Col marito Lesbia mi travolge d'ingiurie
e quello sciocco ne trae una gioia profonda.
Stronzo, non capisci? tacesse, m'avrebbe dimenticato,
sarebbe guarita, invece sbraita e m'insulta:
non solo ricorda, ma cosa ben più grave
è furente. Brucia d'amore, per questo parla.  


                             LXXXIII

Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:
haec illi fatuo maxima laetitia est.
Mule, nihil sentis. Si nostri oblita taceret,
sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
non solo meminit, sed quae multo acrior est res,
irata est. Hoc est, uritur et loquitur.  


                             86

Per molti Quinzia è bella, per me bianca, dritta,
slanciata. Questi pregi li riconosco,
ma non dirò certo che è bella: non ha grazia,
né un pizzico di sale in quel corpo superbo.
Bella è Lesbia, bellissima tutta fra tutte
a ognuna ha rapito ogni possibile grazia.  


                       LXXXVI

Quintia formosa est multis, mihi candida, longa,
resta est. Haec ego sic singula confiteor,
totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,
tum omnibus una omnis subripuit veneres.  


                             87

Nessuna donna potrà dire "sono stata amata"
più di quanto io ti ho amato, Lesbia mia.
Nessun legame avrà mai quella fedeltà
che nel mio amore ti ho portato.  


                           LXXXVII

Nulla potest mulier tantumse dicere amatam
vere, quantuma me Lesbia amata mea es.
Nulla fides ullo fuit omquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est.  


                         92

Lesbia sparla sempre di me, senza respiro
di me: morissi se Lesbia non mi ama.
Lo so, son come lei: la copro ogni giorno
d'insulti, ma morissi se io non l'amo.  


                             XCII

Lesbia mi dicit semper male nec tacet imquam
da me: Lesbia me dispeream nisi amat.
Quo signo? quia totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.  


                    107

Se contro ogni speranza ottieni
ciò che desideravi in cuore,
una gioia insolita ti prende.
E questa è la mia gioia,
più preziosa dell'oro:
a me tu ritorni, a me, Lesbia,
a un desiderio ormai senza speranza, 
al mio desiderio ritorni, 
a me, a me tu ti ridarai.
O giorno luminoso!
Chi vivrà più felice?
chi potrà mai pensare vita
più, più desiderabile di questa?
  

                           CVII

Si qui quid cupido optantique  obtigit umquam
insperanti, hoc est gratum animo proprie.
Quare hoc est gratum, nobisque est carius auro,
quos te restituis, Lesbia, mi cupido,
restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
nobis. O lucem candidiora nota!
Quis me uno vivit felicior, aut magis hac rem
optandam vita dicere quis poterit?


                       109

Eterno, anima mia, senza ombre
mi prometti questo nostro amore.
Mio dio, fa' che prometta il vero
e lo dica sinceramente, col cuore.
Potesse durare tutta la vita
questo eterno giuramento d'amore.  


                       CIX

Iocondum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos poerpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis totta perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae. 


Adesso che rileggo tutte assieme queste poesie ad unico tema, mi rendo conto di quanto questa scelta sia arbitraria e inutile per la comprensione dell'opera di Catullo e, in un certo senso, ne snaturi la sua caratteristica più peculiare di caleidoscopio narrativo e stilistico

Infatti, anche se non marginali, le poesie dedicate a Lesbia, rappresentano solo il dodici per cento del Catulli carmina, tutto il resto è dedicato ad occasionali amori, polemiche letterarie e politiche, invettive contro rivali in amore, stroncature, ricordi di viaggio, elegie, epigrammi - di grande intensità il n.101 dedicato alla morte del fratello - dove la combinazione fra linguaggio letterario e lingua parlata, popolare - spesso scurrile nelle invettive - rappresentano il fascino di questo poeta ancora  moderno dopo 21 secoli.