giovedì 30 dicembre 2010

NORMALMENTE, CHE SEGNALIBRI USATE?

Spesso iniziando a leggere un libro nuovo, mi trovo nella necessità di dotarmi di un segnalibro, il più delle volte improvvisato, pur di evitare le odiose "orecchie" all'angolo della pagina, ed utilizzo così la prima cosa a portata di mano. Questi sono quelli lasciati all'interno di alcuni libri e ritrovati casualmente, sfogliandoli. Nel caso delle banconote italiane, sono state riposte tra le pagine per preservarne l'assoluta freschezza di stampa, e nel frattempo sono uscite di corso legale. La banconota americana è stata utilizzata come insolito segnalibro per la stranezza del suo valore nominale.














Naturalmente tra le cose insolite, ho trovato anche tanti veri segnalibri, quello classico in pelle, in tessuto, quelli pubblicitari che gli editori inseriscono nei libri in vendita, quello di un famoso ristorante a Frascati, ma poi anche uno storico invito della Federazione Romana del PCI per un recital di Evtushenko (è segnalato il giorno e l'ora, ma non l'anno che dovrebbe essere il 1964!), un adesivo politico per una campagna elettorale (forse le politiche del '68?), uno assolutamente innovativo di Piktoland; e poi cartoline postali da località insolite, fotografie, semplici depliand.

lunedì 27 dicembre 2010

LA SCOMPARSA DI PATO' di Andrea Camilleri - Oscar Mondadori - 2010



Questo di Andrea Camilleri è forse il più "stranu" dei racconti, leggendolo ci si sente "strammati": il racconto avviene attraverso articoli di giornale, relazioni di pubblica sicurezza, rapporti dei Carabinieri, lettere e anche scritte sui muri della cittadina di Vigàta, anno 1890.

Cosa è accaduto? Durante la sacra rappresentazione del Venerdì Santo il ragioniere Antonio Patò, direttore della locale sede della Banca di Trinacria, funzionario irreprensibile, marito integgerimo e padre amoroso, oltre che apprezzato "Giuda" nella predetta rappresentazione, scompare nel nulla. Dove è andato? E' morto o si è nascosto? Pubblica Sicurezza e Carabinieri sono allertati, i giornali sono in fermento: bisogna far luce sul mistero prima che lo scandalo si estenda dall'isola a tutto il Regno.
Può essere successo di tutto: forse un pazzo omicida ossessionato da smanie religiose? Qualche pasticcio della Banca di Trinacria? Una perdita di memoria? Una fuga? L'ombra della mafia? O, come qualcuno suggerisce, il ragioniere è stato inghiottito da una frattura nel continuum spazio-temporale?


Scritto in forma di esilarante dossier, prodigioso repertorio di costumi e malcostumi ottocenteschi e contemporanei, La scomparsa di Patò è un raffinato racconto che scava nel profondo del nostro passato e del nostro presente.
(dalla 4 di copertina)

C'è da chiedersi a quale lettore Camilleri pensasse, se al lettore empirico o al lettore modello, secondo le definizioni che ne da Eco in
Lector in fabula,(Bompiani, 1979).

Sicuramente si tratta di una lettura più adatta al lettore modello, quello meno pigro, dotato di curiosità e anche disposto a ricostruire mentalmente la vicenda che i documenti fanno intravedere.

Una lettura sfiziosa, intelligente, divertente e divertita, anche per il linguaggio che cangia a seconda del medium: curia, carabinieri, questura o giornale locale e con un finale a sorpresa, degno di un grande giallista e di uno smaliziato osservatore della realtà italiana.

venerdì 24 dicembre 2010

FUGA DAL NATALE di John Grisham -Mondadori - 2002






Questo divertente libricino, che un amico mi ha regalato qualche anno fa, mi sembra adatto da leggere in questi giorni ossessionati dalle tematiche natalizie.

Una matura coppia di sposi americani, accompagnando la figlia in partenza per una missione umanitaria in Perù, decide di trascorrere un Natale diverso, concedendosi una Crociera nei Caraibi.

Niente di più semplice da realizzare, "ma il Natale, con la sua straordinaria potenza consumistica, con la sua ingombrante presenza moralistica, sta per prendersi la più esilarante e sferzante rivincita sui poveri coniugi Krank.

Una favola classica dei tempi moderni, un'ironica provocazione che regala momenti di puro divertimento e che ci fa scoprire John Grisham geniale scrittore della commedia umoristica e disincantato osservatore di una tradizione di cui non possiamo fare a meno." (dalla 2^ di copertina)


giovedì 16 dicembre 2010

POTEVA ANDARE PEGGIO di Mario Pirani - Mondadori - 2010

Ci sono momenti in cui non amo la narrativa e mi piace rifuggiarmi in opere di saggistica o biografiche. Questa di Mario Pirani, noto gornalista del gruppo Espresso, è una corposa autobiografia con un sottotitolo allusivo, Mezzo secolo di ragionevoli illusioni.


Ai tempi della mia infanzia i taxi a Roma erano verde ramarro. Spaziosi come salottini, avevano anche due sgabelli pieghevoli dirimpetto ai posti normali. Il tassametro, agganciato fuori del finestrino dell'autista, che allora veniva chiamato chauffeur e portava un lungo grembiule beige, si trovava in una scatola nera, con una bandierina metallica rossa che veniva abbassata a inizio corsa.
Questo l'incipit dell'autobiografia, che si sviluppa dal 1930, quando l'autore aveva cinque anni, al 1986, attraversando la seconda guerra mondiale, la resistenza, la ricostruzione, l'impegno politico nel P.C.I., la sua fuoriuscita nel 1961, il lavoro con Mattei all'Eni (al tempo della guerra d'Algeria), e poi il successivo l'ambiguo periodo di Cefis alla testa dell'Eni, l'impegno come corrispondente del "Giorno" al Mec (Mercato Comune Europeo), l'avventura della direzione al giornale il "Globo", il ritorno alla redazione del il "Giorno", quindi la chiamata di Scalfari per la nascente "Repubblica", ancora un'avventura editoriale come direttore di il nuovo "Europeo" di Rizzoli e Tassan Din, invischiati nella trama eversiva della P2 e il ritorno definitivo "a casa"cioè alla redazione di Repubblica, dove ancora oggi, a 85 anni, forte di un'esperienza non comune, scrive interessanti analisi politiche ed economiche.

Del corposo volume, 420 pagine fitte di personaggi e fatti della storia d'Italia e europea, ho trovato senz'altro più interessante il periodo della sua militanza comunista.

Nel settembre del 1945 viene inviato presso la Federazione del PCI a Napoli, questa la cronaca:


Mi presentai al segretario provinciale, Salvatore Cacciapuoti, un ruvido personaggio dalla carnagione olivastra e lo sguardo cattivo, ma che godeva di un supplemento di autorità derivatogli non solo dagli anni di galera scontati per la sua militanza, ma dall'essere un ex operaio e di appartenere, quindi, davvero alla classe di cui ci proclamavamo autentici rappresentanti, malgrado le origini della maggioranza dei quadri dirigenti fossero di ben altra estrazione.... Cacciapuoti pensò bene di allocarmi (allora si cercava di risparmiare l'albergo) presso un compagno che avesse un'abitazione abbastanza ampia per offrire ospitalità. Fece una telefonata e poi mi consegnò un biglietto con un indirizzo: Giorgio Napolitano, via Monte di Dio, proprio di fronte al Palazzo Serra di Cassano. "Vai subito, ti aspettano" aggiunse. Presi al volo una camionetta che mi portò a piazza dei Martiri, a due passi da via Monte di Dio. Suonai al campanello del secondo piano e mi aprì un giovane che doveva avere all'incirca la mia età (scoprimmo subito che eravamo nati ambedue del 1925, vent'anni prima), di media statura, uno sguardo intelligente e accogliente, una gentilezza innata e non affettata, facilitata da una parlata lenta e calorosa, tipica dei napoletani di buona razza.


Impressionante la quantità di grandi personaggi della politica, della cultura, delle arti che Pirani ha incontrato, che nel corso della sua lunga e attivissima militanza comunista e, in seguito, di "ambasciatore" dell'ENI, e infine di giornalista affermato.

Un altro brano del periodo "napoletano":


Ma a Napoli feci anche altre conoscenze (....) primo fra tutti Giorgio Amendola che sovraintendeva alle sorti del partito nel Mezzogiorno. Godeva di grande prestigio e autorevolezza, che apparivano rafforzati dalla considerevole stazza, dall'espressione che illuminava il suo largo viso, dove si succedevano, con pari credibilità, una severità non settaria e una bonarietà sincera ma non compiacente, dal suo vocione potente, orchestrato su tonalità basse, da ottone suonato con espressività sapiente. L'unica cosa che un po' stonava era la pettinatura con la scriminatura laterale e i capelli lucidi e tirati da una parte e dall'altra, non so se con l'acqua o la brillantina. Una caratteristica destinata a scomparire di lì a qualche anno quando Giorgione si taglio i capelli a spazzola e il suo testone apparve in tutta la sua maestà scultorea di imperatore romano.
Con Giorgio Amendola sarà ricevuto da Benedetto Croce, cui sottoporrà un appello di intellettuali per la salvezza di antifranchisti condannati a morte, ricevendone un gentile rifiuto.

In seguito Pirani si dedicherà all'organizzazione dei Festival della Gioventù e dei Partigiani della Pace, partecipando con centinaia di intellettuali, artisti, musicisti, attori italiani, le manifestazioni di Praga, Parigi, Vienna, Leningrado. Il resoconto di questi viaggi è appassionato e divertente.

Nel 1961, dopo aver messo in discussione la linea del partito, Pirani abbandona il Pci e accetta una offerta fatta a suo tempo da Mattei.

I capitoli che seguono ricostruiscono la politica petrolifera dell'Eni in Algeria, durante la guerra di liberazione, dove Pirani era una sorta di plenipotenziario di Mattei, ma anche cronaca mondana della variopinta comunità europea stanziale di Algeri.

Nel complesso una lettura assolutamente interessante, piacevole e istruttiva, sopratutto per la parte che riguarda la politica italiana del tempo e quindi di sempre.

mercoledì 3 novembre 2010

ALLENDE di Pablo Neruda - 13 settembre 1973






L'ultimo capitolo del libro di memorie di Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, è dedicato a Salvador Allende ed è stato scritto tre giorni dopo l'uccisione del presidente da parte dei militari colpisti di Pinochet.

Il mio popolo è stato il più tradito di quest'epoca. Dai deserti del salnitro, dalle miniere sotomarine di carbone, dalle alture terribili dove sta il rame estratto con lavoro inumano dalle mani del mio popolo, sorse un movimento liberatore di grandiosa ampiezza. Quel movimento portò alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende affinché realizzasse riforme e misure di giustizia non più rinviabili, affinché riscattasse le nostre ricchezze nazionali dalle ginfie straniere.
Dovunque è stato, nei paesi più lontani, i popoli hanno ammirato il presidente Allende e hanno elogiato lo straordinario pluralismo del nostro governo. Mai nella storia della sede delle Nazioni Unite a Nerw York si è udita un'ovazione come quella tributata al presidente del Cile dai delegati di tutto il mondo. Qui in Cile si stava costruendo, fra immense difficoltà, una società veramente giusta, elevata sulla base della nostra sovranità, del nostro orgoglio nazionale, dell'eroismo dei migliori abitanti del Cile. Dal nostro lato, dal lato della rivoluzione cilena, stavano la costituzione e la legge, la democrazia e la speranza.
Dall'altro lato non mancava nulla. C'erano arlecchini e pulcinella, pagliacci a mucchi, terroristi con pistola e con catene, frati falsi e militari degradati. Gli uni e gli altri giravano nel carosello della disperazione. Andavano tenendosi per mano il fascista Jarpa e i suoi cugini di "Patria e Libertà", disposti a rompere la testa e l'anima a quanto esiste, allo scopo di recuperare la grande azienda che per loro era il Cile. Insieme a loro per rendere più amena la farandola, danzava un grande banchiere e ballerino, un po' macchiato di sangue; era il campio di rumba Gonzales Videla, che ballando la rumba consegnò tempo fa il suo partito ai nemici del popolo. Adesso era Frei che offriva il suo partito democristiano agli stessi nemici del popolo, e ballava alla musica che questi gli suonavano, e con lui ballava l'ex colonnello Viaux, delle cui malefatte fu complice. Questi erano i principali artisti della commedia. Avevano preparato i viveri dell'accaparramento , i "miguelitos"(chiodi a quattro punte utilizzati nel corso della serrata dei trasportatori privati), le garrote e gli stessi proiettili che ieri ferirono a morte il nostro popolo a Iquique, a Ranquin, a Salvador, a Puerto Montt, a Josè Maria Caro, a Frutillar, a Puente Alto e in tanti altri posti. Gli assassini di Hernan Mery ballavano con chi avrebbe dovuto difenderne la memoria. Ballavano con naturalezza, da bacchettoni. Si sentivano offesi se gli venivano rimproverati questi "piccoli particolari".

Il Cile ha una lunga storia civile con poche rivoluzioni e molti governi stabili, conservatori e mediocri. Molti presidenti piccoli e solo due presidenti grandi: Balmaceda e Allende. E' curioso che entrambi venissero dallo stesso ceto, dalla borghesia ricca, che qui si fa chiamare aristocrazia. Come uomini di principi, impegnati ad ingrandire un paese rimpicciolito dalla mediocre oligarchia, i due furono portati a morte allo stesso modo. Balmaceda fu costretto al suicidio per essersi opposto alla svendita della ricchezza del salnitro alle compagnie straniere.
Allende fu assassinato per aver nazionalizzato l'altra ricchezza del sottosuolo cileno, il rame. In entrambi i casi l'oligarchia cilena ha organizzato delle rivoluzioni sanguinose. In entrambi i casi i militari hanno svolto la funzione della muta dei cani. Le compagnie inglesi nel caso di Balmaceda, quelle nordamericane nel caso di Allende, fomentarono e finanziarono questi movimenti militari.
In entrambi i casi le case dei presidenti furono svaligiate per ordine dei nostri distinti "aristocratici". I saloni di Balmaceda furono distrutti a colpi d'ascia. La casa di Allende, grazie al progresso del mondo, è stata bombardata dall'aria dai nostri eroici aviatori.
Eppure, questi due uomini sono stati molto diversi. Balmaceda fu un'oratore seducente. Aveva un aspetto imperioso che lo avvicinava sempre di più al comando unipersonale. Era sicuro dell'elevatezza dei suoi propositi. In ogni momento si vide circondato da nemici. La sua superiorità sull'ambiente in cui viveva era così grande, e così grande la sua solitudine, che finì per chiudersi in se stesso. Il popolo che doveva aiutarlo non esisteva come forza, vale a dire, non era organizzato. Quel presidente era condannato a comportarsi come un illuminato, come un sognatore: il suo sogno di grandezza rimase un sogno. Dopo il suo assassinio, i rapaci mercanti stranieri e i parlamentari creoli entrarono in possesso del salnitro: per gli stranieri la proprietà e le concessioni; per i creoli le percentuali. Avuti i tenta denari tutto tornò alla normalità. Il sangue di alcune migliaia di uomini del popolo si asciugò subito sui campi di battaglia. Gli operai più sfruttati del mondo, quelli delle regioni settentrionali del Cile, continuarono a produrre immense quantità di sterline per la City di Londra.
Allende non è mai stato un grande oratore. E come statista era un governante che chiedeva consiglio per tutte le misure che prendeva. Fu un antidittatore, il democratico per principio fin nei minimi particolari. Gli toccò un paese che non era più il popolo principiante di Balmaceda; trovò una classe operaia potente, che sapeva di cosa si trattava. Allende era un dirigente collettivo, un uomo che, senza provenire dalle classi popolari, era un prodotto della lotta di quelle classi contro la stagnazione e la corruzione dei loro sfruttatori. Per queste cause e ragioni, l'opera realizzata da Allende in così breve tempo è superiore a quella di Balmaceda; non solo, è la più importante nella storia del Cile. Solo la nazionalizzazione del rame è stata un'impresa titanica. E la distruzione dei monopoli, e la profonda riforma agraria, e molti altri obiettivi che vennero realizzati sotto il suo governo essenzialmente collettivo.
Le opere e i fatti di Allende, di incancellabile valore nazionale, resero furiosi i nemici della nostra liberazione. Il simbolismo tragico di questa crisi si rivela nel bombardamento del palazzo del governo, uno evoca la guerra lampo dell'aviazione nazista contro indifese città straniere, spagnole, inglesi, russe; adesso succedeva lo stesso crimine in Cile; piloti cileni attaccavano in picchiata il palazzo che per due secoli è stato il centro della vita civile del paese.
Scrivo queste rapide righe a soli tre giorni dai fatti inqualificabili che hanno portato alla morte il mio grande compagno, il presidente Allende. Sul suo assassinio si è voluto fare silenzio; è stato sepolto segretamente; soltanto alla sua vedova fu concesso di accompagnare quell'immortale cadavere. La versione degli aggressori è che trovarono il suo corpo inerte, con visibili segni di suicidio. La versione che è stata resa pubblica all'estero è diversa. Immediatamente dopo il bombardamento aereo entrarono in azione i carri armati, molti carri armati, a lottare intrepidamente contro un sol uomo: il presidente della repubblica del Cile, Salvator Allende, che li aspettava nel suo ufficio, senz'altra compagnie che il suo grande cuore, avvolto dal fumo e dalle fiamme.
Dovevano approfittare di un'occasione così bella. Bisognava mitragliarlo perché non si sarebbe mai dimesso dalla sua carica. Quel corpo è stato sepolto segretamente in un posto qualsiasi. Quel cadavere che andò alla sepoltura accompagnato da una sola donna che portava in sé tutto il dolore del mondo, quella gloriosa figura morta era crivellata e frantumata dai colpi delle mitragliatrici dei soldati del Cile, che ancora una volta avevano tradito il Cile.

Dieci giorni dopo aver scritto queste righe, il 23 settembre 1973, Neruda moriva. Stroncato dalla malattia di cui soffriva fin dal 1971. Ma, in realtà, il colpo di Stato, la violenza e la bestialità in cui vedeva piombare il suo paese, avevano reciso le sue radici di pianta vigorosa, di uomo intero, di poeta combattente. E la violenza non lo avrebbe risparmiato neppure dopo la morte: la sua bara giacque fra i vetri rotti, le pagine stracciate dei suoi libri, i tronconi delle sue polene, in terra, nella casa di Santiago devastata dalla soldataglia. Ma il canto che sbocciò dalle labbra dei tremila che l'accompagnarono nel suo ultimo viaggio, quell'Internazionale cantata a mezza bocca, sfidando soldati e polizia, è l'ultima promessa che il popolo ha fatto al suo poeta, la promessa di un riscatto certo, la risposta a questa esortazione, che Neruda scrisse in altri tempi bui, ma che è divenutta tragicamente attuale, e che si avvererà con tutta la sua luce:
Mio popolo, popolo mio, solleva il tuo destino!
Distruggi la prigione, apri i muri che ti rinchiudono!
Schiaccia il passo torvo del topo che comanda
dalla sua reggia: alza le tue lance all'aurora,
e lascia che nel più alto la tua stella irata
baleni e illumini le strade d'America
(Dal Canto Generale)

domenica 24 ottobre 2010

NOI VIVI di Ayn Rand - Baldini & Castoldi - Milano - 1942 XX



Questo libro mi è caro perché era di mia madre: nella seconda di copertina c'è la sua firma. Ricordo che ne parlava come di un romanzo avvincente. Il fatto che parlando di Noi vivi, aggiungesse anche Addio Kira, mi fa pensare che coinvolgesse nel giudizio anche i due film tratti dal libro, che uscirono con questi titoli nel 1942, con Alida Valli, Rossano Brazzi e Fosco Giachetti.

L'autrice AYN RAND, pseudionimo di Alisa Zinov'evna Rozenbaum, scrittrice e filosofa americana di origine russa (S.Pietroburgo 1905-New York 1982) nel 1925, durante un viaggio negli USA, decise di non rientrare in URSS e si stabilì a Los Angeles, dove iniziò la sua attività di sceneggiatrice a Hollywood, lavorando tra l'altro con Cecil B.De Mille.

Il romanzo racconta la storia di Kira, un'eroina estremamente moderna per l'epoca nel racconto (1920) che per difendere e proteggere l'uomo di cui è innamorata, un nemico del bolscevismo figlio di un ammiraglio fucilato perché controrivoluzionario, non esita a diventare l'amante di un funzionario della GPU, la polizia segreta sovietica.

I personaggi descritti, spesso, risentono di uno schematismo, funzionale all'idea di fondo che pervade l'intero romanzo, che è una condanna definitiva dello stato totalitario, illiberale e fondamentalmente corrotto dagli stessi funzionari di partito.

Il fascismo italiano, interessato a pubblicare un'opera antibolscevica, ne fece fare una traduzione nel 1937 da Giuseppina Ripamonti Perego, che ne scrive anche un'interessante prefazione, che così conclude:


Libro dunque che non è solamente piacevole e interessante per il suo intreccio e i suoi caratteri, ma anche per questa sua energica e veridica descrizione delle spaventose condizioni portate ad un popolo infelice da un regime distruttore di quanto vi è di più bello e di elevato nella vita umana: la Religione, la Patria, la Famiglia."


Nel 1942, senza chiedere alcuna autorizzazione all'autrice, il regista Goffredo Alessandrini ne fece due film, appunto Noi vivi e Addio Kira, che ebbero un enorme successo di pubblico , anche perché la gente capiva che il tema del film non era solo contro il comunismo, ma contro ogni forma di totalitarismo, incluso il fascismo. Qualche mese dopo la distribuzione il regime li censurò entrambi.

Per tornare al romanzo, ci sono due parti che emergono dalla complessiva descrizione delle vicissitudini dei protagonisti, e sono: una lunga e lucidissima descrizione di San Pietroburgo, nel Primo Capitolo della Parte Seconda:

.
....Pietrogrado non era nata, era stata creata. La volontà di un uomo l'aveva fatta sorgere dove gli uomini non avrebbero scelto di vivere. Un imperatore inesorabile impose la creazione della città e il luogo dove essa doveva sorgere. Gli uomini portarono la terra per riempire un pantano ove non si muovevano che le zanzare. E come le zanzare gli uomini morivano e caddero nella mota brulicante. Nessuna mano volenterosa concorse a costruire la nuova capitale: essa sorse dal lavoro dei soldati, di migliaia di soldati, di reggimenti che ricevevano ordini e non potevano rifiutarsi di affrontare un nemico mortale: fucile o palude. Essi caddero e la terra che avevano portato formò con le loro stesse ossa il suolo della città. Pietrogrado, dicono i suoi abitanti, poggia sugli scheletri.


In quattro meravigliose pagine la Rand descrive San Pietroburgo, e il sottile rapporto che lega i la città ai suoi abitanti, e poi l'importanza della Nevsky, la sua principale via, le Neva il fiume che l'attraversa, con l'elegante porto, i suoi palazzi, con le statue, i ponti, il Palazzo d'Inverno, la fortezza dei SS.Pietro e Paolo, quattro pagine indimenticabili, che svelano l'amore dell'autrice per la sua città natale.

L'altra descrizione, che emerge con forza dal romanzo, e l'interno di un bar alla moda, lussuosissimo, frequentato da equivoci funzionari di partito, nuovi arricchiti con la borsa nera e squallide figure femminili, escort d'epoca. I ritratti di queste tragiche e oscene figure, sembrano tratte dalle tavole espressioniste di Georges Grosz:

.
.. Degli uomini erano seduti attorno alle tavole. Lampi gialli sprizzavano dai loro bottoni di brillanti e nelle gocce di sudore sulle loro facce rosse e accaldate....... In un angolo una testa calva e giallognola era china su una rossa bistecca su un piatto bianco. L'uomo tagliò la bistessa grattando la porcellana col coltello e quando un boccone spariva nella sua bocca le carnose labbra rosse sembravano un pezzo di carne penzolante. Dall'altro lato della tavola una fanciulla di quindici anni dai capelli rossi mangiava in fretta col capo incassato tra le spalle; quando rialzava la testa arrossiva dalla punta del corto naso lentigginoso fino al lentigginoso e bianco collo e contraeva la bocca come se stesse per piangere.

Il complesso rapporto che lega Kira ai due uomini della sua vita, può riassumersi nei versi della canzone di Marco Ferradini Teorema, che ipotizza come, più si tratti male una donna innamorata, più se ne conservano i favori e viceversa, naturalmente, come accerterà il buon Andrei Taganov, onesto funzionario del GPU, suicida per amore e per delusione da rivoluzione tradita, come Majakovsky.

Struggente la lunga marcia di Kira nella neve infinita, incurante della fatica disumana, verso il confine Lituano, in cerca della libertà, che arriverà inesorabile, sotto forma di una pallottola che la lascerà esamine sulla neve.


Un albero solitario si innalzava lontano nella pianura. Non aveva foglie. I suo rami sottili e radi non avevan raccolto la neve. Si stendeva pieno della vita di una futura primavera, con sottili rami come braccia nell'aurora che si alzava su una terra sterminata dove tante cose erano state possibili.

Ella giaceva sulla cima di una collina e guardava il cielo. Una mano bianca e immobile penzolava al di sopra del pensio e piccole gocce rosse cadevano lentamente, giù nella neve, al di sotto.

Ella sorrise. Sapeva di morire. Ma ora non importava. Aveva conosciuto qualcosa che nessuna parola umana poteva esprimere. Ed ora sapeva. Aveva atteso questa cosa e la sentiva come se fosse avvenuta, come se ella l'avesse vissuta. La vita era esistita anche solo perchè essa aveva saputo quale avrebbe dovuto essere, ed ella la sentiva ora come un inno senza suono, profonda sotto la piccola ferita che gettava gocce rosse sulla neve, pronda di là donde iscivan le gocce rosse. Un momento o l'eternità?... Importava forse? La vita, non vinta, esisteva e doveva esistere.

Ella sorrise, l'ultimo sorriso a tutto quello che sarebbe stato possibile.

F I N E



domenica 26 settembre 2010

LA REGINA MARGOT di A.Dumas - Editoriale Lucchi - Milano - 1968

Pesca grossa l'altro giorno al reparto Libri Abbandonati della COOP di Genzano: ben cinque volumi della collana I Grande Romanzi Storici di Alessandro Dumas, di cui alcuni ancora con i quinterni da tagliare. Tra questi l'intrigante primo volume del "Ciclo degli ultimi Valois": La Regina Margot.

Margherita di Valois, figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de' Medici, detta Margot dal fratello (Re Carlo IX) e sposa di Enrico di Navarra, poi Re di Francia come Enrico IV, le bon Roi Henris, come veniva chiamato dal suo popolo.

Romanzo storico nel quale, l'avversione di Dumas nei confronti della fiorentina Regina Madre, Caterina de' Medici, emerge fortemente, dando così vita ad un personaggio totalmente negativo, le cui nefandezze, intrighi e cospirazioni pone al centro della storia, che parte dalla Notte di S.Bartolomeo e finisce con l'avvelenamento (per errore) di suo figlio Carlo IX.

Al contrario, Caterina de' Medici, fu sostenitrice della tolleranza civile, tentò numerose volte di seguire una politica di conciliazione tra le fazione avverse, ma si guadagnò il poco amabile appellativo di Reine Noire e Dumas, che non è storico ma romanziere, capisce che tali caratteristiche negative sono funzionali al feuilleton, così come lo sono quelle della cattivissima Sally Spectra in Beautiful.

Daltronde in Dumas non cerchiamo la verità storica, ma l'ambientazione precisa, l'avventura, l'intreccio, la suspence che è alla base del romanzo d'appendice, e questi elementi funzionano perfettamente.

A margine va ricordato che Caterina, portando a Parigi i suoi cuochi toscani, fondò la famosa cucina francese, divise nella cucina i cibi salati da quelli dolci, introdusse a corte l'uso della forchetta e fu lei a diffondere tra le dame di corte... l'uso delle mutande.

domenica 5 settembre 2010

F M R ovvero il capolavoro di FRANCO MARIA RICCI

Sono qui riprodotte le copertine della rivista Di Franco Maria Ricci FMR, il cui primo numero vide la luce nel marzo del 1982 e che all'epoca,venduta per abbonamento, costava l'equivalente di € 15,50.




Era una rivista che riusciva a coniugare all'eleganza estrema della forma, un contenuto rigoroso frutto di collaborazioni prestigiose.
Il primo numero contiene un servizio su Gli Astucci Sacri, reliquiari antropomorfi medievali e un esauriente servizio su l'opera di Luigi Serafini Codex Seraphinianus, con una godibilissima presentazione di Italo Calvino che tenta di decifrare il codice.

Nell'universo che Luigi Serafini abita e descrive, io credo che la parola scritta abbia preceduto le immagini: questa grafia corsiva minuziosa e agile e (dobbiamo ammetterlo) chiarissima, che sempre ci sentiamo a un pelo dal poter leggere e che pure ci sfugge in ogni sua parola e ogni sua lettera.
L'angoscia che quest'Altro Universo ci trasmette non viene tanto dalla sua diversità dal nostro, quanto dalla sua somiglianza: così la scrittura, che potrebbe essersi verosimilmente elaborata in un'area linguistica a noi straniera ma non impraticabile. Riflettendo, ci viene da pensare che la peculiarità della lingua di Serafini non dev'essere soltanto alfabetica ma sintattica: le cose dell'universo che questo linguaggio evoca, quali le vediamo illustrate nelle tavole della sua enciclopedia, sono quasi riconoscibili, ma è la connessione tra loro ad apparirci sconvolta, con accostamenti e relazioni inaspettati. Il punto decisivo è questo: la scrittura serafiniana, se ha il potere di evocare un mondo in cui la sintassi delle cose è stravolta, deve contenere, nascosto sotto il mistero della sua superficie indecifrabile, un mistero più profondo che riguarda la logica interna del linguaggio e del pensiero. Le immagini dell'esistente contorcono e accavallano i loro nessi, lo scompiglio degli attributi visuali genera mostri, luniverso di Serafini è teratologico. Ma anche nella teratologia c'è una logica, i cui lineamenti di momento in momento ci sembra di veder affiorare e svanire, come i significati di queste parole diligentemente vergate in punta di penna. Come l'Ovidio delle Metamorfosi, Serafini crede nella contiguità e permeabilità d'ogni territorio dell'esistere.




Il trapasso da una forma all'altra è seguito fase per fase nella coppia umana in amplesso che gradualmente si trasforma in caimano. E' questa una delle più felici invenzioni visuali di Serafini.

Una rivista davvero insolita, preziosamente intelligente, arguta e un po' esclusiva: roba d'altri tempi!


domenica 29 agosto 2010

PERCHE' NON POSSIAMO ESSERE CRISTIANI (e meno che mai cattolici) di Piergiorgio Odifreddi


"Se la Bibbia fosse un'opera ispirata da un Dio,
non dovrebbe essere corretta, coerente veritiera,
intelligente giusta e bella?
E come mai trabocca invece di assurdità scientifiche,
contraddizioni logiche,
falsità storiche, sciocchezze umane,
perversioni etiche e bruttezze letterarie?"



E' questo il quesito che il matematico Odifreddi pone a base del suo ultimo lavoro, per Longanesi nella collana Le spade (2007).

Il saggio fa riferimento sin dal titolo ad uno scritto di Benedetto Croce del 1942, più citato che letto, ma sopratutto frainteso: interessante un dibattito che si è sviluppato di recente e che si puo seguire in questo link:
http://salon-voltaire.blogspot.com/2006/01/croce-cristiano-la-balla-filosofica.html



Ma torniamo a Odifreddi.
Il tono del libro è leggero e ironico, contesta assurdità, illogicità, contraddizioni e falsità storiche della Bibbia, come daltronde fanno da anni studiosi come Mario Liverati docente di Storia del Vicino Oriente Antico alla Sapienza di Roma, autore di Oltre la Bibbia. Storia Antica di Israele (Laterza).
Interessante l'analisi che il ricco blog di Mattia Fabbri dedica a Le Bugie della Bibbia, questo il link:
http://laveritasullareligionecristiana.blogspot.com/2009/10/le-bugie-della-bibbia.html

Di grande interesse ho trovato un e-book Gesò Cristo non è mai esistito di Emilio Bossi, introvabile in Italia, ma scaricabile al sito:

http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bossi/gesu_cristo_non_e_mai_esistito/pdf/gesu_c_p.pdf





Così Odifreddi giustifica nella prefazione la necessità dei cittadini di doversi far carico della difesa del laicismo, per ovviare alle deficienze dei loro rappresentanti:
In fondo, è proprio perché il Cristianesimo in genere, e il cattolicesimo in particolare, non sono (soltanto) fenomeni spirituali, e interferiscono pesantemente nello svolgimento della vita civile di intere nazioni, che i non credenti possono sempre rivendicare il diritto, e devono a volte accollarsi il dovere, di arginare le loro influenze: sopratutto quando, come oggi, l'anticlericalismo costituisce più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione della Chiesa.
In condizioni normali, una tale difesa sarebbe naturalmente compito delle istituzioni e dei rappresentanti del popolo. Purtroppo, però, questi sono invece tempi anormali e anomali, in cui presidenti, ministri, parlamentari fanno a gara per genuflettersi di fronte a papi, cardinali e vescovi e ricevono man forte dagli apostati non solo del Comunismo e del Socialismo, ma addirittura del Risorgimento, i cui padri avevano doverosamente separato le faccende dello Stato da quelle della Chiesa.
A testimonianza basterà ricordare, a parte i reciproci salamelecchi tra presidenti e papi, da un lato le invocazioni alla Madonna nei discorsi di insediamento di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale il 28 maggio 1992 e di Pier Ferdinando Casini a Montecitorio il 31 maggio 2001, dall'altro la presenza di Massimo D'Alema e Walter Veltroni in piazza S.Pietro il 6 ottobre 2002, alla cerimonia di beatificazione di Josemarìa Escrivà de Balaguer, fondatore della famigerata Opus Dei.
Il libro, naturalmente, suscita cririche e stroncature a non finire da parte di organizzazioni clericali e storici cattolici. Le accuse sono di superficialità, incompetenza filologica ed esegetica nella materia, scritto in soli quattro mesi, ma sopratutto quello che non perdonano a Odifreddi è di non essere arrivato alla laurea passando per il liceo! Si è laureato in matematica venendo da un Istituto Tecnico e come si permette a parlare di Bibbia? L'organo ufficiale della Milizia di S.Michele Arcangelo(MSMA), controllare qui:           http://www.miliziadisanmichelearcangelo.org/
lo prende proprio male questo libro e consiglia l'autore di dedicarsi allo studio della teologia e delle sacre scritture, dopo, naturalmente essersi iscritto al liceo classico.

Delle tante stroncature del libro, nessuna entra nel merito delle cose dette dal matematico impertinente, dei fatti raccontati dalla Bibbia, ma solo contestazioni filologiche, etimologiche, interpretative. Le bacchettate che Odifreddi si prende sulle mani per aver osato sconfinare in un campo proibito (la mancanza del liceo) non impedisce al libro di essere arrivato alla quinta edizione.

Segno che la curiosità e l'interesse intorno al problema della religione, vista da un'ottica laica, è fortunatamente in costante crescita.

giovedì 26 agosto 2010

LA MORTE DEL CIGNO di Klaus Mann





Questo delizioso volumetto di Franco Maria Ricci della collana
La Biblioteca Blu del 1973, stampato con bellissimi caratteri bodoni su carta Fabriano tirata a mano, al ridicolo prezzo di Lire 6.000 seimila, tratta dell'infelice fine di Re Ludwig II di Baviera.

Ludwig, un uomo che del potere faceva uso per realizzare ideali, fantasie, spesso capricci o stravaganze. Come la costruzione di castelli. Ecco i più famosi:

Neuschwanstein




Linderhof




Hohenschwangau



















Questo re sensibile e infelice, immortalato da Luchino Visconti, fu mecenate di Wagner che ne sfruttò a piene mani la generosa dedizione, famose e degne di approfondimento le lettere appassionate del loro carteggio, finanziò la costruzione del Festspielhaus a Bayeruth dove ancora oggi si rappresentano le opere di Wagner.

La morte del cigno non tratta tutto questo, ma la drammatica deposizione del re per demenza e il suo confinamento nel castello di Berg e la sua misteriosa morte insieme al medico curante il dottor Gudden, responsabile della diagnosi di demenza.

L'autore, Klaus Mann, figlio di Thomas Mann, morì suicida a Cannes nel 1949.

lunedì 23 agosto 2010

DONA FLOR E I SUOI DUE MARITI di Jorge Amado


Dopo le ambigue e oscure atmosfere picaresche di Il Cieco e la Bellona, un salutare tuffo nell'atmosfera incantata di Bahia con sole, musica, sesso, cucina esotica e Candoblé.

La lettura di questo straordinario romanzo è un divertimento che mi regalo per la terza volta dopo molti anni e che trovo ancora irresistibile, per il succedersi allegro dei personaggi , ritratti con la felice ironia, così naturale nella prosa di Amado, che ruotano intorno alla figura sensuale di Dona Flor.

Fin dall'inizio, con la lettera che Dona Flor scrive al caro amico Jorge Amado con cui accompagna la torta di puba (specie di torta fatta con polpettine di tapioca), si intuisce la natura particolare di questo romanzo, che mescola al racconto della vedovanza di Dona Flor, ricette di cucina bahiana e culto degli Orixas (divinità sincretiche di origine africana e cristianesimo).

E' tutto un susseguirsi di situazioni, raccontate con humor e sentimento, dalla morte di Vadinho durante il carnevale e, attraverso un susseguirsi di flash back, si ripercorre la storia dell'amore dello sfrontato Vadinho con la giovane Flor, le gioie e le sofferenze di quest'ultima, gli scontri con la tremenda suocera Rozilda, il secondo matrimonio di Dona Flor e tutto quel che segue.

E' senz'altro uno dei più bei romanzi di Jorge Amado, per ricchezza verbale e un' architettura perfetta, diviso in cinque parti e un intervallo.

Nel 1976 a seguito del successo del romanzo viene portato sullo schermo con la bellissima Sonia Braga, bello anche il film seppure parziale rispetto alle cose raccontate nelle 523 pagine del romanzo. La colonna sonora del film era O que serà (A flor da terra) di Chico Barque de Hollanda.

L'incontro con Jorge Amado, e questo libro in particolare, è di quelli che rimangono impressi a lungo e che a distanza di tempo, ancora sollecitano fantasia, interesse e nostalgia per i personaggi a cui ci si affeziona, così come accade a tutti i grandi capolavori della letteratura.

giovedì 19 agosto 2010

IL CIECO E LA BELLONA di Arturo Loria - Mondandori (1959)













Arturo Loria nel panorama letterario del '900 è veramente un illustre sconosciuto. Nacque a Carpi nel 1902 da famiglia di industriali e salvo alcuni soggiorni negli Stati Uniti, in Francia e Inghilterra, visse sempre a Firenze, dove mori nel 1957.


Fece parte del movimento letterario che si raccolse intorno alla rivista "Solaria",
centro letterario e artistico teso a svecchiare il panorama strapaesano e conformista dell'Italia fascista e aprire una prospettiva europeista nella cultura del nostro paese. L'elenco degli intellettuali che collaborarono a vario titolo e in periodi diversi alla rivista vanno da Riccardo Bacchelli a Eugenio Montale, da Sergio Solmi a Leone Ginzburg, a Giacome De Benedetti , a Carlo Emilio Gadda; Il Garofano rosso di Vittorini usci a puntate sulla rivista nel 1933.

In questo panorama di fervore, teso a collegare le grandi esperienze letterarie europee, notevole è il contributo, insieme a Nino Frank e Leo Ferrero, di Arturo Loria per far conoscere autori inglesi (Joyce, Eliot, Virginia Woolf), statunitensi (Hemingwey, Faulkner), i russi (Majakowskij, Pasternak, Esenin), gli europeri (Rilke, Kafka, Mann, Zweig). La rivista cessò le pubblicazioni nel 1936 per le sempre maggiori difficoltà frapposte dalla censura fascista.

Ma torniamo a Il cieco e la bellona (1928). Si tratta di una raccolta di racconti che furono definiti sbrigativamente picareschi e lo sono nel senso che i personaggi sono i malandrini e avventurieri che popolano la narrativa picaresca, ma a differenza di questa, nei racconti del Loria, il tempo della narrazione è indefinito: dal contesto si immagina un periodo pre-industriale, il luogo un'indistinta periferia del mondo. I protagonisti che popolano questi otto racconti, possono essere riassunti nelle parole di Alessandro Bonsanti nella belle prefazione:

Una creatura solitaria, condannata alla solitudine per una straordinaria ricchezza dell'animo spesso complicata da una stortura del fisico, si dibatte in conseguenza di quella incomunicabilità con gli altri esseri umani; tenta di venirne a capo tra cedimenti e ribellioni. Il mezzo da usare è l'amore; ma esso è perseguito invano, e si fa raggiungere solo per lasciare al più presto nuovamente abbandonato il protagonista d'una contesa che, per quanto si svolga in sordina, è di proporzioni amletiche. Per bene che vada, il racconto si chiude su una nota di malinconia, non rassegnata sibbene atroce.

Una lettura insolita, per chi ha curiosità letterarie da soddisfare, che non si esauriscano nelle ultimissime novità & bestseller da vetrina.

giovedì 12 agosto 2010

L'IMMORALE TESTAMENTO DI MIO ZIO GUSTAVO DI Tom Antongini ( BMM -1951)

Sarà ormai chiaro ai lettori di questo blog che pur amando enormemente curiosare tra gli scaffali delle librerie, ormai prediligo le bancarelle di libri usati, essendo le librerie diventate dei supermercati per soli best-seller.

Fortunatamente di libri vecchi, in casa, ne ho moltissimi e razzolo tra quelli.


Da bambino trovavo attraente la copertina di questo libro, da adolescente ero attratto da quella promessa implicita nel titolo di contenuto immorale, da adulto avevo altro da leggere e il volume non era nella mia disponibilità, ora me lo ritrovo insieme al suo compagno di scaffale (I codicilli di mio zio Gustavo BMM - 1954) in uno scatolone di libri avuto in deposito permanente.

Zio Gustavo, nell'effige di copertina, col suo monocolo, sembra ammiccare al fatto che ormai essendo coetanei, nulla impedisce che io possa iniziare quella lettura così a lungo procrastinata.

Il primo elemento che si evidenzia nella lettura, è la grande leggerezza di scrittura e di pensiero, in seguito si delineano, ma senza mai assumere toni pedanti, i principi della filosofia epicurea: in tono scherzoso e paradossale ripropone giudizi e temi cari a l'Orazio delle satire.

ELOGIO DELLO STUPIDO

Gli stupidi, checché ne dica la gente, sono una tra le grandi istituzioni umane. Il commercio intellettuale con gli stupidi è la cosa più riposante che esista al mondo. Io, diceva mio zio, dopo aver parlato un'ora con uno stupido, mi sento sollevato, fresco, lieto come se avessi fatto una bella passeggiata. E quante passeggiate di questo genere ho fatto nella vita! Lo stupido è una valvola di sicurezza: è sempre a vostra disposizione, come un bar pronto, ad ogni angolo di strada, a ristorarvi gratuitamente. Se un uomo intelligente ed erudito con la sua pesante conversazione vi ha ridotto in fin di vita, lo stupido con quattro considerazioni cretine, vi rimette in piedi in un batter d'occhio. Amare gli stupidi vuol dire amare il genere umano perché essi ne costituiscono l'enorme maggioranza e ne assicurano quindi la continuità. (I)

(I) Huxley: "I governi dittatoriali considerano l'intelligenza come il loro peggior nemico.
Una lettura amena, divertita e divertente, intelligente e arguta, in alcuni momenti ricorda Jerome K.Jerome, in altri a Wodehouse, quello di Jeeves per intenderci.



INUTILITA' DELLA RAZZA UMANA
Mio zio Gustavo era, almeno filosoficamente parlando, contrario alla continuazione della razza umana sulla terra, fonte secondo lui di sofferenze per i suoi componenti e di nessuna utilità per l'universo. Egli sosteneva perciò il programma della progressiva e razionale estinzione della razza umana da iniziarsi con la riduzione delle nascite. Sarebbe già un discreto risultato, diceva, perché eviterebbe a breve scadenza le guerre, col permettere a tutti gli abitanti del globo, ridotti a un quantitativo normale, di cibarsi a sufficienza senza essere obbligati ad ammazzare il prossimo per raggiungere questo elementare scopo (I)

(I) Il famoso spazio vitale (Nota del nipote)
Tom Antongini, forse è qui utile ricordarlo, è stato per quarant'anni segretario di Gabriele D'Annunzio e suo biografo, molto nota la sua Vita segreta di Gabriele d'Annunzio.

giovedì 22 luglio 2010

ARDIENTE PACIENCIA di Antonio Skàrmeta ovvero IL POSTINO DI NERUDA

Un altro dei numerosi motivi per cui amo la letteratura latino -americana, si chiama Antonio Skarmeta e il romanzo che lo ha reso famoso in tutto il mondo, anche grazie al film di Troisi, Il postino di Neruda.

Ho incontrato questo delizioso libricino nel 1989, quando è uscito in Italia per Garzanti, ma è stato scritto nel 1986, durante il lungo esilio di Skàrmeta a seguito del colpo di stato del 1973 contro il governo di Salvator Allende.

La lettura è un divertimento continuo, lo sto rileggendo in questi giorni e rido come alla prima lettura. E' una scrittura spumeggiante, ironica, piena della sensualità delle poesie di Neruda. Il desiderio di Mario per Beatrix, il loro primo, esaltante rapporto sessuale, sono un inno alla gioia; gli orgasmi di Beatrix "apoteosi che decollano verso la notte siderale, con una cadenza che ispirò le coppie sulle dune ("uno così, tesoro", chiese la turista al telegrafista), rese scarlatte e sfolgoranti le orecchie della vedova e ispirò le seguenti parole al parroco nella sua veglia sul campanile: "Magnificat, stabat, pange lingua, dies irae, benedictos, kirieleison, angelica."

Almeno per me l'importante è aver letto prima il libro e solo dopo aver visto l'adattamento cinematografico di Troisi, a cui collaborò lo stesso Skàrmeta.

Laddove nel libro è gioia di vivere, la scoperta della poesia una sfolgorante epifania, il sesso una lussuria infinita, nel film è melanconia, tristezza e dolore.

Anche nel finale del romanzo, con il colpo di stato di Pinochet , la fine del governo Allende, con i militari che presidiano la casa di Neruda a Isla Negra, la stessa morte del poeta, non hanno la cupa atmosfera del film di Troisi.

Un convinto consiglio di lettura.



TRISTE,SOLITARIO Y FINAL di Osvaldo Soriano

Un altro dei motivi per cui amo la letteratura latino-americana è Osvaldo Soriano, argentino.

Il titolo, Triste, solitario y final è una citazione di Philip Marlowe, da Il lungo addio di Raymond Chandler: "Arrivederci amico, non le dico addio. Gliel'ho detto quando aveva un senso.Gliel'ho detto quando ero triste, solitario e alla fine."

In questo pazzo romanzo Osvaldo Soriano, giornalista argentino, è protagonista (ma non voce narrante) insieme a Philip Marlowe, investigatore privato, Los Angeles. Altri personaggi che appaiono sono, Stan Laurel, Van Dick, John Wayne, Charlie Chaplin (fulminante il giudizio di Marlowe:Non gli piaceva quell'ometto arrogante, al quale andava sempre male nei film e bene nella vita.).

Questo romanzo è stato definito un'elegia per il romanzo poliziesco e il cinema, un commosso e irriverente ricordo di due miti nordamericani diventati universali.

Il romanzo è stato scritto nella redazione del quotidiano di lusso La Opiniòn di Buenos Aires dove Soriano lavorava, senza tuttavia riuscire a pubblicare un articolo per il clima politico che si era venuto a creare con il governo militare di Videla.

Di Soriano ho letto anche Mai più pene né oblio e L'ora senz'ombra, due romanzi intensi, sulla realtà argentina il primo, classico romanzo on-road il secondo. La scrittura è lineare ed entrambe le storie ti conquistano completamente, anche se senza il divertimento assoluto di questo singolare Triste, solitario y final.



mercoledì 21 luglio 2010

Marcel Proust - SALOTTI PARIGINI - Valentino Bompiani Editore - 1946





Com'è charmant, questo volumetto di Marcel Proust (Bompiani, 1946), conservato gelosamente per almeno 50 anni (non so quando è stato acquistato) che raccoglie poco più di una dozzina di articoli apparsi nei prini anni del '900 su Le Figarò, che esperienza agrèable la sua lettura. Viene in mente quel famoso verso di Baudelaire:



Là, tout n'est qu'ordre et beutè, Luxe, calme et volupté


"Grandi occhi neri, brillanti, dalle palpebre pesanti e piagate in giù ai lati; uno sguardo di una dolcezza estrema, che s'attacca a lungo sull'oggetto che fissa; una voce ancora più dolce, un po' ansante, un po' strascicata, che sfiora l'affettazione schivandola sempre. Lunghi e folti capelli neri, che talvolta coprono la fronte e che non avranno mai un filo biaco. Ma è agli occhi che si torna, immensi occhi cerchiati, stanchi, nostalgici, estremamente mobili, che sembrano spostarsi e seguire il pensiero segreto di colui che parla. Un sorriso continuo, divertito, accogliente, esita e poi si fissa sulle sue labbra. Di un colorito opaco, ma allora fresco e roseo, egli fa pensare, nonostante i sottili baffi neri, a un fanciullone indolente e troppo perspicace."




Questo affettuoso ritratto di Marcel Proust, tracciato da un suo biografo, Lèon Pierre-Quint, all'epoca delle frequentazioni dei solotti parigini di cui parla il volume, ricorda questa famosa foto, che Marcel regalò nel 1915 (o 1916) a Céleste Albaret.

Certo, nessuno dei lettori de Le Figarò avrebbe potuto immaginare che nel giovane e incantato cronista mandano, occupato a celebrare le frivolezze del faubourg St.Germain si celasse un osservatore acutissimo e spietato di quella società, che avrebbe descritto senza compiacenze nell'opera della sua vita.

Qui, descrivendo gli eleganti salotti presso i quali la più bella società europea si incontrava, nelle lunghe e appassionanti descrizioni di genealogie nobiliari, appare ai nostri occhi di smaliziati esegeti iconoclasti, una qualche forma di adulazione, certo involontaria in un uomo fondamentalmente buono e disinteressato.

Pur avendo questi scritti poco in comune con la Recherche per stile e contenuti, Parigi a parte, alcuni elementi sono presenti: l'attesa spasmodica ai Champs-Elysées della bambina di cui era innamorato, (Gilberte, nella finzione narrativa) e la cocente delusione quando ella mancava quei taciti appuntamenti, oppure la promessa di una vacanza a Firenze, (Venezia, in La strada di Swann) cui dovette rinunciare perché malato; o ancora i biancospini...

Marcel Proust
ha qualcosa di magico, che se  cominci a parlarne, ti prende la nostalgia dei suoi luoghi, dei suoi personaggi e ti ritrovi, gioiosamente, a perderti ancora una volta nella sua Recherche du temps perdu.


Il traduttore, Giuseppe Lanza (1900-1988), scrittore, saggista, autore di teatro, vincitore di un premio Bagutta 1956 con il racconto Rosso sul lago, oggi assolutamente dimenticato, con una modestia d'altri tempi, chiude l'introduzione con queste parole:

Il traduttore s'è sforzato di rendere in buon italiano queste prose; ma sa
 di essere stato, più che ardito, temerario.