mercoledì 24 ottobre 2012

Giovanna Zangrandi - I BRUSAZ - La Medusa degli Italiani n.95 - AME 1954 - £ 800



Questo vecchio libro di quasi sessant' anni è uscito da uno scatolone dove è conservata parte della biblioteca di famiglia, un reperto d'altri tempi con una  sorpresa, la prima pagina del volume, sotto il nome della collana la firma dell'autrice Giovanna Zangrandi. La terza di copertina, con una scarna biografia dell'autrice, ci avverte che il romanzo è vincitore di un Premio Deledda, in quegli anni premio prestigioso.

Ma chi è Giovanna Zangrandi?

Il suo vero nome è Alma Bevilacqua, è nata nel 1910  a Galliera,  vicino  Bologna. Si laurea in chimica e consegue l'abilitazione alla professione di farmacista, con una spiccata passione per la scrittura. Dopo l'8 settembre si unisce alle formazioni partigiane e profittando della sua attività di insegnante a Cortina, diventa staffeta assumendo il nome di Anna. Dopo la Liberazione dirigerà un giornale locale Val Boite, dove si creerà molti nemici per i suoi attacchi agli opportunisti che cercano di far dimenticare il loro passato fascista.

Troppo libera per sopportarne la routine, nel 1946 rinunzia all'insegnamento e cerca di realizzare un sogno espresso durante la resistenza con il comandante di cui era innamorata, Severino Rizzardi, morto pochi giorni prima della Liberazione: costruire e gestire un rifugio alpino a Pratonego, sotto il Monte Antelao, dove ha comprato un terreno. Lo gestirà fino al 1961, con  l'unico vero amico della sua vita, il fedele Attila, per poi cederlo al CAI, non essendo riuscita a cavarci di che vivere. Nel frattempo ha cominciato a pubblicare racconti e romanzi che è la sua vera passione.

Giovanna Zangrandi vive i suoi ultimi anni minata da una grave malattia  nella solitaria casa di Borca di Cadore, dove muore nel 1988.



 La bibliografia della Zangrandi è notevole, considerato che è quasi sconosciuta ai più. Le sue opere più importanti sono:


  • Orsola nelle stagioni, Mondadori, Milano 1957.

  • Il campo rosso (Cronaca di una estate 1946), Ceschina, Milano 1959

  • Premio Bagutta-Tre signore 1960.

  • I giorni veri 1943-1945, Mondadori, Milano 1963

  • Anni con Attila, Mondadori, Milano 1966

  • Il diario di Chiara, Mursia, Milano 1972

Moltissimi i racconti, novelle, articoli scentifici su i più disparati argomenti. Questo link porta ad una bibliografia completa che, anche a titolo di curiosità, può dare un'dea della vastità degli argomenti che questa straordinaria donna ha trattato.

http://giovannazangrandi.com/bibliografia/bibliografia-di-giovanna-zangrandi/

Questo l'incipit di I Brusaz:
E' un valico, un valico delle Alpi, che divide delle valli di qua e di là, delle acque con le loro sorgive che nascono tra i sassi od il muschio, che sboccano da disciolti nevai, si incanalano e vanno, cantano e rombano, diventano torrente e fiume.
Ma i fiumi alla fine vanno tutti a distendersi in qualche mare, Adriatico o Tirreno o Mar Nero che sia. Le acque di quei due displuvi lassù rigirano a lungo per tortuose valli, poi sboccano con violento ribollire di gorghi e fragore da cascate di due fiumi grandi. Ed ancora essi vanno, belli e regali, con dolci anse azzurre tra i colli, serpeggiano e si stendono infine nelle pingui pianure, a volte rinserrati tra alti argini: finiscono non lontano dall'amaro Adriatico, ambedue. Sono figli della stessa madre, da diverse terre tornano lentamente ora alla stessa casa che li generò.
L'ampio respiro di questo incipit, dove la natura viene descritta così intensamente, mi ha ricordato la visione, dall'alto verso il basso, dal generale al particolare, che Manzoni utilizza all'inizio dei  Promessi Sposi e che Umberto Eco definisce cinematografico, il narratore "sta costruendo il suo mondo narrativo, prendendo a prestito aspetti del mondo reale".

I luoghi narrati sono inventati, non esistono realmente,  ma sono autentici così come i personaggi, vivi e vitali nelle loro dure e semplici esistenze, dove la fatica fisica è la cifra che li accomuna.

La storia di Sabina, forte e bella protagonista di questa storia, ha l'andamento di una favola a rovescio incontra infatti il giovane lavorante Donato che la seduce, la gravidanza che ne consegue l'allontana dalla sua casa di contadini benestanti, per proiettarla nella  miseria della famiglia del marito, i Brusaz.

Il miraggio del riscatto economico, il sogno dell'America, allontana Donato dalla moglie, lasciandola con la vecchia suocera, la dura Teresa Brusaz che dimostrerà, pur nell'aprezza del carattere, sprazzi di inaspettata umanità.

Notevole l'autenticità dei rapporti tra uomo e donna rappresentati nel romanzo: in una società tesa all'essenziale, dove il soggetto amoroso non è idealizzato da modelli sentimentali di origine letteraria, l'amore tende a ridursi ad una sessualità primitiva.

Fu circa una settimana dopo, la mano di Sabina era ormai rimarginata e guarita; essa sentì raspare di notte alla finestrella della sua camera; era semichiusa e dava sul balcone, ben lo sapeva che, così, uno poteva entrare.
Chi?
Donato Brusaz, forse. Ma vi era una forza selvaggia, ignota e padrona che comandava di lasciarla così, la finestrella.
L'uomo era venuto, si era appoggiato al suo letto e l'aveva accarezzata adagio, senza violenza, sul volto e sulle braccia morbide:
"Mi lasci stare con te?" aveva implorato. "Non mandarmi via."
Lei aveva taciuto; certamente quella era la sua ora di amore, quella che aspettava; non ci si può ribellare.
L'uomo si era infilato sotto le coperte e lei si era stretta, fiduciosa e dolce, contro il suo corpo saldo.
 

Un romanzo così lontano dalle nostre esperienze quotidiane, moderne e consumistiche che a tratti sembra di essere in una di quelle fiabe che ci hanno affascinato da piccoli.

Un vero gioiello di emozioni, e una prosa  musicale, semplice e poetica.

lunedì 22 ottobre 2012

Vittorio Zucconi - GLI SPIRITI NON DIMENTICANO (Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux) - Mondadori 2004 - € 9,80 - Mondadori



La prima volta che sentii parlare di Vittorio Zucconi fu nel 1966, quando lessi su l'Unità che un giovane studente di Milano veniva processato per un'inchiesta sulla sessualità, pubblicata sullo storico giornale del liceo Parini che egli dirigeva, La zanzara. Il giovane Zucconi, rompendo gli schemi  ipocriti del perbenismo democristiano che voleva tenere fuori dalla scuola temi scottanti come la sessualità,  iniziava una  carriera importante che ancora oggi lo vede tra i maggiori protagonisti del giornalismo italiano. Attualmente lo seguo come direttore di Radio Capital.

Ed è proprio sulla sua radio, che ho riascoltato dopo tanto tempo la struggente canzone di De André Fiume Sand Creek, http://www.youtube.com/watch?v=K3tAfnDVbv8, che mi ha spinto a rileggere questo tremendo libro.

Intendiamoci, per leggere questo libro dedicato a Tashunka Uitko (Cavallo Pazzo), occorre non lasciarsi prendere dalla rabbia per le enormi ingiustizie che vi si raccontano; il libro che ha la cadenza e la struttura potente del poema epico di un popolo, racconta la vita del capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota Sioux, con i suoi riti secolari, la semplicità del vivere in simbiosi con la natura e il suo tragico destino.

Dall'Introduzione:

Nel 1804, quando la spedizione guidata dagli esploratori Lewis e Clark attraversò per la prima volta l'intero continente nordamericano dall'oceano Atlantico al Pacifico, sul territorio che oggi chiamiamo Stati Uniti viveva un milione di indigeni e galoppavano liberi almeno 50 milioni di bisonti.
Alla fine del secolo, quando il West fu vinto dagli emigranti europei, erano rimasti 1000 bisonti e 237.000 indiani. In 90 anni erano morti, in guerra o di malattia, il 75% degli indiani e il 100% dei bisonti, che erano alla base della loro civiltà e della loro esistenza.
Fra le parentesi di questo doppio genocidio umano e animale sta la storia di una guerra, di un popolo e di un uomo: la storia della invasione europea del Nordamerica, dello sterminio dei Sioux delle Grandi Praterie del Nord e del capo guerriero che sacrificò la vita per difendere il diritto della sua gente a vivere come aveva sempre vissuto, sulla propria terra.


Vittorio Zucconi è un grande professionista, profondo conoscitore della realtà americana e dell'anima umana per le importanti esperienze fatte in tanti anni di giornalismo attivo, ma è sopratutto un grande affabulatore che sa raccontare le storie e dei fatti sa cogliere l'elemento centrale, sempre con una grande leggerezza e un fondo di pacata ironia che gli viene dal suo essere emiliano.

Tra le tante cose che ci racconta sulla vita dei Sioux, i rapporti familiari, le gerarchie, le iniziazioni, la caccia al bisonte, apprendiamo come veniva amministrata la giustizia dagli akicita, i magistrati poliziotti dei Lakota:
La loro autorità era assoluta, il loro giudizio finale, e la punizione per chi non avesse rispettato la sentenza poteva essere terribile. Ma dovevano fare attenzione a mantenersi equi e imparziali. Quando un magistrato della akicita sbagliava nell'ordinare un castigo, nell'imporre un pignoramento punitivo di beni, veniva condannato a subire il doppio della pena inflitta, qualunque essa fosse. Una maniera brutale ma efficacissima per scoraggiare abusi ed errori giudiziari e mantenere onesti i giudici.

Sul rapporto tra i Sioux e i bisonti:

Il bisonte era l'alfa e l'omega, l'inizio e la fine, il centro della vita dei Sioux, dei cacciatori delle Grandi Pianure. Con i bisonti, i Sioux vivevano felici e prosperi. Senza il bisonte, sarebbero stati destinati a morire.
Per questo il "bufalo", per seguire il quale probabilmente le tribù asiatiche avevano attraversato lo stretto di Bering ed erano arrivate sul continente americano, era molto più di una preda ambita. Il bisonte era il dono che il Grande Spirito aveva fatto ai suoi figli, era il messaggero, e il ponte, tra la Terra e il Cielo. Non per nulla la madre di tutto il popolo indiano, la mitica donna dal cui grembo benedetto discendono tutti gli indiani secondo la loro tradizione, si chiama "Donna Del Bufalo Bianco".
E, dopo la caccia, che era cruenta non solo per la preda, ma anche per i cacciatori che dovevano affiancare la mandria di bufali in corsa e centrare con le frecce l'unico punto vulnerabile, sopra la spalla sinistra, per raggiungere il cuore:

Nel circolo attorno al fuoco centrale del villaggio, i capi rendevano grazie a Dio e chiedevano perdono a lui, al "fratello bisonte" per averne sparso il sangue, spiegandogli quel massacro era necessario, ma doloroso e che mai avrebbero ucciso più animali di quanti ne fossero serviti al popolo.
 Scendendo nel moderno aereoporto di Denver sono rimasto sorpreso dalle gigantografie raffiguranti  nativi americani nei loro pittoreschi costumi, forse una tardiva riparazione per il ruolo avuto dai reparti di Cavalleria del Colorado nel massacro di Sand Creek!

Scrive tra l'altro nell'Introduzione Zucconi:

Ho "dovuto" scrivere la vita di Cavallo Pazzo. Ho dovuto scriverla come l'avevo capita, comeme l'avevano raccontata gli Oglala, e come credo sia davvero avvenuta, sfidando il timore di sbagliare, di offendere la sua gente e il suo spirito.
Ora che l'ho finita, non so se sono riuscito a rendergli giustizia, se un poco di verità umana sia uscita dalla crosta dei luoghi comuni, delle leggende e dalle pieghe di una storia confusa, misteriosa, una sorte di Iliade sioux scritta con le parole e i ricordi di chi lo aveva conosciuto.

Una lettura avvincente, dolorosa e necessaria.

domenica 14 ottobre 2012

Giovanni Arpino - DOMINGO IL FAVOLOSO - Einaudi 1975 - £ 2.000


Giovanni Arpino (1927-1987), un grande narratore degno di figurare assieme ai classici del xx secolo, sebbene abbia al suo attivo sedici romanzi e quasi duecento racconti, sembra sparito dal panorama culturale italiano.

Identica sorte riservata ad altri illustri autori da un'editoria affetta dal virus dell'usa e getta. Ma se il postmoderno ha prodotto un tale squilibrio nella cultura, ormai difficilmente sanabile,  che vale lamentarsene ? Prendiamone atto e andiamo avanti per la nostra strada, cercando di emanciparci dalle leggi del mercato che guidano le scelte degli editori.


 Arpino, consapevole del mondo in  cambiamento, nel 1982 dice di se stesso:

«In quanto narratore di storie, sento di appartenere a una razza in via di estinzione, poiché la civiltà delle immagini ci sommergerà e i lettori saranno sempre più capaci a leggere, ma sempre meno come numero».
E ancora, a proposito dei suoi personaggi:
«Tutti i miei personaggi, se ci ripenso un attimo – giovani o vecchi, uomini e donne, operai contestatori e randagi – sono degli emarginati, che vengono a precipitare, pur essendo normali, in una situazione abnorme».
Ce n'è abbastanza per suscitare curiosità per questo narratore di storie, bracconiere di personaggi, cacciatore d'anime, come amava definirsi.

Domingo il favoloso è un vero feuilleton, uscito in tredici puntate, tra il dicembre del 1973 e marzo del 1974, sulla Domenica del Corriere con il titolo Correva l'anno felice, impreziosito da originali acquarelli  di Italo Cremona (1905-1979) , pittore e illustratore con forti tendenze surrealiste. Ho cercato queste illustrazioni sul web pensando che avrebbero spiegato più delle parole il personaggio creato da Arpino, ma non ho avuto fortuna, neanche nell'archivio storico della Domenica del Corriere.

Domingo il favoloso è il secondo volume della trilogia fantastica, iniziata con Randagio è l'eroe (1972) e conclusa con Il primo quarto di luna (1976).

L'incipit:

Gli restava mezz'ora di tempo.
In piedi alla finestra, indifferente alla frescura primaverile, Domingo guardava il corso livido, vuoto. Un vecchio ubriaco apparve all'improvviso tra le silenziose strutture delle giostre, di capanni e logori camioncini che ingombravano da alcuni giorni quell'angolo di città. Il vecchio faticava nel sospingere la sua ombra demente. Domingo lo seguì fin dove la sagoma rimase un attimo ferma nel tremolio luminoso che incorniciava la baracca del tirassegno. Lo vide sparire sotto le cupole buie degli ippocastani.
La Torino satanica (secondo la leggenda sotto l'aiuola centrale di piazza dello Statuto si trova la Porta dell'Inferno) è la  cornice ideale per le avventure di Domingo, moderno picaro, maestro di trucchi e astuzie, autore di truffe grandiose.

All'interno della storia, una favola che Domingo racconta alla misteriosa Arianna, una zingarella adolescente, che inizia così:

C'era una volta, al fondo dell'ultima foresta ai confini del mondo, una vecchissima donna. Tutti la chiamavano Zia e ne avevano paura, perché silenziosa, con una cuffia nera, un lungo grembiule coperto di macchie e una gran forbice. La gente sapeva che con quella forbice la Zia aveva in destino di tagliare la vita.


Un romanzo assolutamente originale, che risponde in pieno alle caratteristiche di letteratura fantastica definite nel saggio di Cvetan Todorov del 1973, sospeso tra tensione fantastica e concretezza fisica, che utilizza un linguaggio particolare fatto di trovate linguistiche all'interno del dialetto  torinese.

Da leggere, assolutamente.

giovedì 11 ottobre 2012

LIBERIAMO I PERSONAGGI DEI LIBRI E FACCIAMOLI VIVERE







Guardando i libri ordinatamente allineati in ordine alfabetico nella libreria (ma anche quelli che disordinatamente sono stati chiusi in scatoloni) giorni fa dicevo a me stesso che al loro interno, schiacciati dalle pagine, giacciono migliaia di personaggi in attesa che un lettore volenteroso li riporti in vita per il breve tempo della lettura.

 Migliaia di donne e uomini, giovani e vecchi, onesti e disonesti, idealisti e realisti, con le loro infinite storie di sofferenze: infami che nessun gesto di generosità potrà mai riscattare e altri generosi fino al sacrificio estremo per  amore, portatori di gioie e vittime di tragedie strazianti, tutti in attesa del momento magico di rivivere ancora una volta l'esperienza di vita che l'autore ha voluto per loro. 

Coraggio, allora, apriamo i libri e con la lettura insuffliamo nei personaggi lì prigionieri l'alito della vita, perché a questo l'autore li ha destinati disegnandone carattere e destino, ma solo noi lettori abbiamo il potere di farli vivere con la nostra emozione.

giovedì 4 ottobre 2012

Charles-Luis Philippe - BUBU di MONTPARNASSE - l'Unità/Einaudi 1996 (in abbinamento all'Unità)


L'attivività  forse più congeniale a Walter Veltroni - più che i vari incarichi di partito e governativi - è stata senza dubbio la direzione dello storico quotidiano l'Unità, alla cui carica  accede nel 1992, senza essere ancora giornalista.

Tra le varie iniziative per il rilancio del giornale, Veltroni punta da subito su vari gadget culturali, libri, audiocassette, videocassette di film rari e ormai introvabili, e addirittura le mitiche figurine Panini dei giocatori di calcio!

Tra le cose più interessanti nel settore editoriale, la proposta di questa collana dedicata agli Scrittori tradotti da scrittori, che il grande Giulio Einaudi realizzò per la sua casa editrice.

Vi troviamo Il processo di Kafka tradotto da Primo Levi, La signora Bovary di Flaubert tradotto da Natalia Ginsburg, La tempesta di Shakespeare tradotta in napoletano da Eduardo De Filippo - una vera chicca - L'Orestiade di Eschilo tradotto da Pasolini e, tra gli altri (in totale 12 volumi ormai introvabili), questo  inattuale e tenero Bubù di Montparnasse tradotto da Vasco Pratolini.

Vasco Pratolini, il fiorentino autore di Metello, Le ragazze di S.Frediano, Lo scialo, Cronache di poveri amanti, per la sua poetica neorealista sembra particolarmente indicato a tradurre la dolente umanità  di un sottoproletariato che vive ai margini de la Ville Lumière, in piena belle epoque. E' la stessa Parigi evocata da Marcel Proust, ma qui non ci sono i salotti eleganti di Faubourg Saint-Germain, solo i vicoli a ridosso dei grands boulevard, con le fatiscenti camere d'affitto e pensioni da quattro soldi.

La protagonista assoluta di questo breve, prezioso e tristissimo romanzo è Berthe che, giovanissima, lascia la casa paterna per andare a vivere con Maurice, detto Bubu, il classico poco di buono deciso a vivere sulle spalle della sua donna,  che pur amandola a suo modo, l'avvia alla prostituzione.

L'incontro con il  giovanissimo Pierre, sembra aprire uno spiraglio di normalità se non di felicità nella vita di Berthe, ma la scoperta di aver contratto la sifilide e di averla trasmessa a Pierre e a Bubù, getta nello sgomento i tre protagonisti.

Berthe si è appena alzata, è in camicia. Esile e gialla, le spalle strette, i piedi sporchi e la camicia grigia, sembra una creatura senza più luce. Ha gli occhi gonfi, i capelli arruffati, si muove fra il disordine della camera - anche le idee sono ammuchiate in un angolo della sua mente, insonnolite. I risvegli di mezzogiorno sono faticosi e impastoiati come la vita della sera prima, con l'amore l'alcol e il sonno che premeva. Berthe prova un senso di scoraggiamento al ricordo dei suoi risvegli di una volta, quando le idee erano così limpide che sembrava il sonno le avesse lavate. (Adesso, fratel mio, quando hai dormito non hai dimenticato nulla della tua tristezza!) L'angoscia che da ieri la possiede, l'opprime ancora, le toglie il respiro, come un mostro furente le gravitasse sul petto. (O, in verità, quelle tempie stirate, quei pomelli sbiancati, quelle labbra molli dicono chiaramente che Berthe ha poche idee e poco coraggio, dicono che la vita è cattiva a infierire duramente su ragazze come Berthe, le quali fanno il male senza misurarne la gravità).
- Sai Maurice, - dice Berthe, - deve essere come pensavo. Ieri ne ho parlato a Blanche, lei mi ha spiegato come l'aveva presa, ed è stato come è successo a me.
Egli tace.
Berthe risale di giorno in giorno con la mente fino all'origine del male, vuole individuare l'autore. Le hanno detto che occorrono quaranta giorni - e allora lei risale nella sua mente di uomo in uomo, di circostanza in circostanza, da una catinella all'altra, tutta la teoria dell'amore - e le parole e i gesti, di camera in camera. Immergendosi in quel passato vorrebbe bloccarlo con le sue mani, identificare un uomo e distruggere il giorno in cui lo ha conosciuto. Poi pensa che è inutile, che tutto è inutile; e si rassegna, affonda nei suoi tristi pensieri.
Maurice rompe il silenzio, dice:
- Io vorrei conoscere quello che ti ha attaccato codesto male per rompergli la testa.





Per chi volesse sfogliare in tutta comodità questa bella edizione del 1905 con 90 illustrazioni di Jules Grandjouan (1875-1968) anarchico, sindacalista rivoluzionario, questo è il link:

http://archive.org/stream/bubudemontparnas00philuoft#page/n11/mode/2up


Mauro Bolognini nel 1971 ne ricava un film delicato e sofferto, ambientandolo in una Milano inizi secolo che non fa rimpiangere Parigi. Ottavia Piccolo è una bellissima Berta, Massimo Ranieri è l'inetto Piero, uno sconosciuto Antonio Falsi è Bubù, il grande Jules - Giulio nel film - è un imperdibile Gigi Proietti. L'ambientazione, le scene, i costumi ci ricordano che Bolognini era architetto e aveva frequentato al Centro Sperimentale di Cinematografia corsi di scenografia.

Fedele al testo, Bolognini cambia prospetiva nel finale: anziché essere Pierre che rimprovera se stesso per la propria ignavia, e la voce di Berta che lo accusa  di non averla difesa.

Il link qui sotto consente la visione di alcune scene del film.

 http://www.youtube.com/watch?v=IXUBpQMP-sU&feature=relmfu