martedì 29 agosto 2017

Gianandrea Gavazzeni - LE CAMPANE DI BERGAMO - Mondadori 1953 - £ 1.000


Tra  vecchi libri conservati in scatoloni, ripesco con piacevole sorpresa questo volume della storica collana mondadoriana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, del Maestro Gianandrea Gazzeni (1909-1996). 

Della sua imponente produzione letteraria, prevalentemente saggistica, notevole è la parte diaristica: Le campane di Bergamo (1953) comprende scritti del decennio 1950-1960: viaggi, mostre visitate, libri letti, incontri con musicisti dell'epoca e personaggi della cultura, considerazioni su argomenti musicali, letterari,  artistici.

Incredibile la quantità di personaggi illustri concentrati in quel decennio  che il Maestro Gavazzeni frequentava abitualmente: Toscanini, Goffredo Petrassi, Backhaus, Ildebrando Pizzetti, Callas, De Sabata, Serafin, Franco Alfano... e Berenson, Bacchelli, Cecchi, Corrado Alvaro, Montale, il musicologo Massimo Mila, Gianfranco Contini, Piovene, Bruno Barilli, Landolfi, Attilio Bertolucci, Guttuso, Francesco Flora ...

La scrittura è fluente, precisa, ne risulta una lettura piacevole, che ci rende partecipi di avvenimenti che sono storia: qui il lungo racconto della traslazione della salma di Mascagni a Livorno:

Livorno dal 17 al 30 giurno (1951)
   Partiamo per Livorno con una sicura leggerezza. Come se l'esito del nostro lavoro preparatorio fosse certo. Solitanente non mi abbandono alla fiducia sin quando l'esecuzione non è avvenuta. Chi mi ha dato tranquillità stavolta?
   Discorsi teatrali, vani, ripetuti nel giro di una loro retorica, affidati al gusto della tradizione melodrammatica italiana. Sono la voce di un costume che seguita la sua vita anche nelle esperienze della modernità. Provo il piacere di vivere negli innesti con gli ambienti più lontani. Si appartiene a una realtà, con il trapasso rapido da una verità all'altra. E' vero codesto convenzionalismo della passione teatrale; sono veri gli incontri in ben diverse zone della cultura e della vita sociale.
   Le manifestazioni popolari per l'arrivo del feretro mascagnano. A un'ora del tramonto avviene il trasporto sul Colle del Montenero, al Santuario. Episodi che attestano la presenza della musica in una collettività popolare. Se ne coglie la forma completa essendone partecipi, e pur guardandone il movimento col distacco che già appartiene alla storia di un'epoca o di un artista. Momento memorabile, per l'emozione che passa nella folla, nei gruppi di popolani, nelle figure isolate. Livorno che ama il suo Mascagni. Non credo siano espressioni da confinare nella definizione provincialistica. Sono momenti essenziali di una vita popolare.
   Il feretro sale per il colle, nell'ora lucente. Su un poggio è la villa di Byron, diroccata, bianca, tra il cerchio dei pini marittimi. La gente si affaccia alle soglie, punteggia i sentieri di macchie scure nell'oro grande del giorno.
   Su al Santuario, il cortile gremito, torno torno al portico; giovani frati, chierici alle finestre, come nella composizione di un quadro storico. Il Capitolo del Duomo, gli stendardi, i gonfaloni dei Comuni. Nel fondo il coro, l'orchestra. Si attacca " L'inno al Sole". Per giustezza di calcolo, al punto che il feretro portato a spalle raggiunge il sommo della scalea, il coro prorompe: "Son io la vita..."; dirigendo l'esecuzione non vedo quanto mi accade alle spalle: odo un sussurro mescolato alla musica, come se prendesse murmure il fremito che passa nella folla. Dopo l'esecuzione il lungo discorso di un ministro. L'ascoltano soltanto i più vicini, per obbligo. S'ode a tratti una voce opaca, tediosissima.
   Oltre al suo significato spirituale, seguito a considerare l'episodio nell'ordine di una struttura figurativa. Posso amare le "bottiglie" di Giorgio Morandi: e di Morandi quegli stupendi alberi, pur vagheggiando nella gran scena popolare la possibilità di una composizione pittorica. Come un adagio di Bartok, mi consente altrettanto legittima l'esistenza di certe pagine dell'Iris.
   L'indomani ancora il feretro che passa per le strade della città. All'uso antico, quando feste nuziali e feste funebri illustri duravano più giorni. Sosta dinanzi al teatro: un carro solenne avvolto nel chiaro scuro delle gualdrappe nerissime e del vivo argento. Balconi e finestre stipati di braccia in movimento. E un moto di gambe penzoloni sul muricciolo che limita la piazzetta. Durante la sosta la fiamma delle torce sbiancata per la calura e la luce. Dall'interno del teatro viene il suono di una famosa pagina mascagnana.
   Ho il senso di ciò che si perde di una vita musicale, di ciò che rimane, di ciò che vale, per chi chiede la presenza di codesti attimi. E sento il valore di quanti hanno saputo rispondere anche solo con alcuni momenti di grandezza. Le occasioni per le quali il valore estetico e il valore umano non si dissociano. Invano anche col ferro più sottile, tenteresti dividerli. Spenta la musica il carro si muove. Fiori dalle finestre. Cadono come voci, come esclamazioni. La fiammella delle torce si perde nel fumigare, estinguendosi. Seguono i gonfaloni dei comuni toscani. Ancora per del tempo la folla seguita a ondeggiare nelle strade intorno.
   Rimane una carica elettrica, come uno strano entusiasmo. La maggiore energia sembra venire dai morti. (...)
   Le tre recite dell'Iris. Il teatro è una caldaia di umanità fumante:. Mi piace inserirvi la nitidezza di una esecuzione precisa. "Il sentimento del tempo", come diceva Mozart dell'interpretazione musicale. Una volta tanto mi sembra di averlo raggiunto.

Di notevole interesse, soprattutto per gli amanti dell'Opera, gli incontri e le discussioni di Gavazzeni  con il Maestro Toscanini, dalle quali si evince, oltre che la straordinaria memoria musicale del Maestro, la scarsa simpatia per Puccini.

Attraverso il racconto di questi dieci anni di appassionata attività, si staglia il ritratto di un uomo di incredibile integrità morale, appassionato di arte, letteratura, filosofia e musica, naturalmente, pienamente partecipe del dibattito culturale dell'epoca, critico e molto polemico nei confronti delle innovazioni registiche definite "presuntuose avventatezze". E il riferimento non era a qualche signor nessuno improvvisatosi regista, ma ad un mostro sacro della regia teatrale, Luca Ronconi, "nessuno più potente di lui in quegli anni alla Scala".

Nel link un video realizzato per il centenario della nascita del Maestro Gianandrea Gavazzeni:

https://www.youtube.com/watch?v=MQxFGFmraWE

mercoledì 28 giugno 2017

Roberto Bolaño - LOS DETECTIVER SELVAJES - Editorial Anagramma - IV edicion mexicana 2013


Se non fosse riduttivo accostare opere letterarie tanto importanti quanto così distanti tra  loro, si potrebbe postulare come Los detectives selvajes, per la struttura circolare, articolata in tre tempi, per il contenuto, i  personaggi ricorrenti e lo sfuggente protagonista, alter-ego dell'autore, possa in qualche modo ricordare la recherche proustiana, oppure quel progetto mai realizzato, che avrebbe dovuto riunire tutti i romanzi di Kerouac in un'unica complessiva opera.

Questo romanzo di  Bolaño è strutturato in tre parti:
  1. Mexicanos perdidos en Mexico (1975)
  2. Los detectives selvaje (1976-1996)
  3. Los desiertos de Somora (1976)
Per la prima parte l'autore ha scelto come forma narrativa quella del diario, che ci consente di seguire in presa diretta Juan Garcia Madero, giovane studente di diritto, ma in cuor suo poeta, per le strade del Distrito Federal, su e giù per la Calle Bucareli,  lo seguiamo nelle cafeterías dove si incontrano i poeti dell'avanguardia real visceralista in scontro aperto con l'establishment culturale messicano ben rappresentato da Octavio Paz, ma soprattutto assistiamo alla sua movimentata educazione sentimentale. 

La seconda parte è costituita da testimonianze rese da personaggi che, nell'arco di vent'anni, hanno incontrato Arturo Belano e/o Ulisse Lima in qualche parte del mondo.
In queste testimonianze senza interlocutore, colte all'impronta e a totale beneficio del lettore, si concentra forse la parte più interessante del romanzo per la ricchezza e straordinarietà dei personaggi, alcuni già presenti nella storia, altri sconosciuti, ma una in particolare, Auxilio Lacouture, la madre di tutti i poeti messicani,  protagonista di un altro noto romanzo di Bolaño, Amuleto, che assurge  a simbolo della resistenza dell'università UNAM contro la violenza di esercito e polizia nel 1968.

Auxilio Lacouture, Facultad de Filosofia y Letras, UNAM. México DF, diciembre de 1976.
Yo soy la madre de la poesia mexicana. Yo conozco a todos los poetas y todos los poetas me conocen a mì. Yo conocì a Arturo Belano cuando él tenìa dieciséis años y era un niño timido y non sabìa beber. Yo soy uraguaya, de Montevideo, però un dìa llegué a México sin saber muy bien por qué, ni a qué, ni còmo, ni cuàndo. Yo llegué a México Distrito Federal en el año 1967 o tal vez en el  año 1965 o 1962. Yo ya no me acuerdo ni de la fechas ni de los pelegrinajes, lo unico que sé es que llegué a México y ya no me volvì a marchar.
Altro grande protagonista con le sue argute facezie è lo scrivano Amadeo Salvatierra, poeta e testimone del periodo dell'avanguardia realvisceralista, amico di Cesarea Tinajero.  

Y  entonces uno de ellos abrió la botella (de tequila) y escanció el néctar de lo dioses en los respectivos vasos, los mismos en donde antes habìamos bebido mezcal, lo que según algunos es señal de dejaciôn y según otros una exsquisitez de los mil demonios pues al estar el cristal, digamos, lacado  con el mezcal, el tequila se encuentra más a gusto, como si a una mujer desnuda la vistiéramos con un abrigo de piel.

La terza parte riprende il diario di Garcia Madero, in fuga nel sud del Messico con Belano e Lima per proteggere la giovane prostituta Lupe dal suo violento protettore, e sulle tracce della poetessa degli anni venti Cesarea Tinajero.

Di quest'opera è stato scritto (El Pays) che si tratta di un romanzo che Borges avrebbe accettato di scrivere, è un giudizio condivisibile, considerato con quanto piacere il poeta argentino creasse  scittori e opere  di finzione, alle quali era difficile non affezionarsi per lo spessore umano che li caratterizzava. Lo stesso avviene per Cesarea Tinajero, poeta di finzione, ma non per questo meno viva e concreta.

 https://garciamadero.blogspot.it/2017/05/por-que-buscar-cesarea-tinajero-en-los.html

Divertenti i dialoghi, che spesso svelano con molta ironia i non sempre armoniosi rapporti tra uomo e donna, anche tra intellettuali:

- Hay muchas poetisas?
- Decirles poetisas queda un poco gacho - dijo Pancho.
- Se les dice poetas - dijo Barrios.
- Pero hay muchas?
- Como nunca antes en la historia de Mexico - dijo Pancho - Levantas una piedra y encuentras a una chava escriviendo de sus cositas.


Provocatorio al limite dell'insolenza la classificazione dei poeti fatta da un  membro del gruppo realvisceralista,  Ernesto San Epifanio: 

Dentro del inmenso océano dela poesia distinguía varias corrientes: maricones, maricas, mariquitas, locas, bujarrones, mariposas, ninfo y filenos. Las dos corrientes mayores, sin embargo, eran la de los maricones y los de los maricas: Walt Whitman, por ejemplo, era un poeta maricón. Pablo Neruda, un poeta marica. William Blake era maricón, sin asomo de duda, y Octavio Paz marica. Borges era fileno, es decir de improviso podia ser maricón y de improviso simplemente asexual. Rubén Dario era una loca, de echo la reina y el paradigma de las locas.
Dopo una lunga diasamina delle caratteristiche dei maggiori poeti latino americani, uno sguardo non superficiale ai maggiori poeti italiani:


En Españ en Francia y en Italia los poetas maricas han sido legión, decia, el contrario de que podria pensar un lectos no excesivamente atento, Los que sucedia era que un poeta maricón como Leopardi, por ejempio, recontruye de alguna manera a los maricas como Ungaretti, Montale y Quasimodo, el trio de la muerte. De igual modo Pasolini repinta a la mariqueria italiana actual, vease el caso de el pobre Sanguinetti (con Pavese non me meto, era una loca triste, ejemplar unico de su especie, o con Dino Campana, que come en mesa aparte, las mesas de las locas terminales).

Che dire, un libro geniale, avvincente, di quelli che i personaggi un po' ti rimangono dentro, e lasciano un vuoto quando  arrivi alla conclusione e chiudi il volume.  Per questo ho di nuovo iniziato a leggerlo, questa volta con più scioltezza e con meno ricorso al dizionario. 

Grazie ancora, Elisabet, perquesto bellissimo regalo.


venerdì 6 gennaio 2017

Raffaello Giovagnoli - SPARTACO - Parente Editore Firenze - 1955


Raffaello Giovagnoli (1838-1915), scrittore, giornalista, patriota, garibaldino,  politico, parlamentare nel Regno d'Italia per cinque legislature. Di questo eclettico personaggio ho sentito parlare spesso in famiglia perché parente di mia nonna materna, anche lei una Giovagnoli, il cui padre (il mio bisnonno) doveva essere cugino primo; peccato che all'epoca, quando ne sentivo parlare in casa, il mio interesse di bambino era attratto da altro. 

Di questo romanzo storico, scritto al Caffè del Teatro Valle, e uscito a puntate nel 1873 sul quotidiano Fanfulla, così come I tre Moschettieri di Dumas una trentina di anni prima sul giornale Le siécle, tornai a pensare nel 1960, quando, in occasione dell'uscita in Italia del film Spartacus di Stanley Kubrick, Mondadori - dove lavoravo - ristampò il romanzo di Haward Fast (1914-2003) da cui era stato tratto il film.

Non fu certo per affermare un'anacronistica prima genitura che, in quegli anni, cercai presso la Biblioteca Nazionale di Roma, la vecchia sede di quasi sessanta anni fà, questo Spartaco di Giovagnoli, ma inutilmente perché non esisteva nel catalogo. La cosa era abbastanza curiosa per un romanzo che aveva avuto un grande successo, specialmente dopo il pubblico apprezzamento fattone da Giuseppe Garibaldi con una lettera di encomio all'autore; inoltre il romanzo era stato tradotto in tutto il mondo e se ne erano occupati a suo tempo Croce (La letteratura della Nuova Italia, vol.V) per liquidarlo con sufficienza, e Gramsci (Quaderni del Carcere, VIII) che ne aveva apprezzato invece il carattere popolare, e ne auspicava un adattamento moderno.

Raffaello Giovagnoli fu uomo di larghi interessi letterari e storici, e a lui si deve anche una delle prima Storie del Risorgimento Italiano. Considerata nel suo complesso, la figura del Giovagnoli meritava di essere rinfrescata nella memoria di noi posteri, e si può dire di lui, che fu storico per essere romanziere e volle essere romanziere per ragioni didattiche (Massimo Pinto)

Le ragioni didattiche di Giovagnoli, si evidenziano sia nella puntigliosa descrizione degli usi e costumi della popolazione romana nella vita di tutti i giorni e nelle cerimonie civili e religiose, sia per la traduzione in latino di tutti gli oggetti che si incontrano nel racconto: armi, suppellettili, indumenti di uso comune, e poi per la descrizione dettagliata delle strade, vicoli e rioni sia di Roma che delle città interessate dal racconto, negli anni tra il 675 e 683 del calendario di Roma.




Un aspetto particolarmente rilevante dello Spartaco di Giovagnoli, è la grande fortuna che il libro ebbe all'estero e il gran numero di traduzioni che ne furono fatte già alla fine del XIX secolo e poi per tutto il XX secolo, fino ai nostri anni. Forse già nel 1880 il romanzo fu adattato in russo, in castigliano nel 1884 e nel 1930,  in francese 1902, in tedesco 1939 e in varie lingue dell'Unione Sovietica: ucraino, kazako, uzbeco, kirghiso; e in molte lingue dei paesi vicini al mondo sovietico: rumeno, ungherese, serbo-croato, bulgaro e mongolo. Una traduzione in finlandese fu anche stampata a Portland in Oregon, dai socialisti finlandesi d'America. Particolarmente significativa è stata poi la fortuna del romanzo in Cina fino ad anni molto recenti. Almeno tre le traduzioni in yiddish 1900, 1903 e 1913. Non sembra invece che il romanzo sia mai stato tradotto in inglese.

Queste notizie sono prese dagli atti di un seminario di studi svoltosi a S.Maria Capua Vetere nell'ottobre del 2013 sul tema L'Unità d'Italia e la cultura classica. Sotto il link relativo:

http://www.academia.edu/9836520/Spartaco_al_tempo_dellUnit%C3%A0_dItalia._Sul_romanzo_di_Raffaello_Giovagnoli

Anche se alcuni storici ritengono una forzatura identificare Spartaco come precursore del combattente proletario-antimperialista, nel mondo socialista e comunista questa figura è sempre stata vista in questo modo, a cominciare da Karl Marx che, in una lettera del 1861 a Engels, definisce Spartaco uno dei migliori protagonisti dell'intera storia antica e un genuino rappresentante dell'antico proletariato. Non ebbero miglior fortuna del nostro eroe, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che, nel 1919, istituirono la «Lega di Spartaco» e furono denominati per questo motivo «spartachisti», ma quando si sollevarono contro il governo di Berlino, vennero  ferocemente repressi e assassinati.

Leggendo la biografia di Howard Fast (1914-2003) autore del romanzo Spartacus da cui Stanley Kubrick ha tratto il famoso film che Kirk Douglas, produttore e protagonista, aveva fortemente voluto, viene spontaneo chiedersi, dove l'autore abbia trovato lo spunto per scrivere un romanzo su questo personaggio: figlio di genitori ebrei, madre inglese e padre uscraino, digiuno di studi classici,  iniziò a lavorare, secondo la migliore tradizione americana, vendendo giornali presso la Biblioteca di New York. Difficile che avesse letto Plutarco, o Appiano, o Sallustio, forse più semplicemente fu ispirato dalla lettura dello Spartaco di Giovagnoli, testo, come abbiamo già visto, famoso in tutto il mondo, ma soprattutto nell'ambiente della sinistra comunista, e qui va ricordato come Howard Fast, vittima del maccartismo per la sua adesione al comunismo, nel 1953 vinse il Premio Stalin per la Pace. Sono ipotesi, ovviamente, nient'altro che ipotesi che nulla aggiungono e nulla tolgono ai due romanzi, che, è bene ripeterlo, sono assai diversi tra loro, non solo per lo stile, ma per la storia che raccontano, simile ma non uguale.

Edizione russa di Spartaco
Film muto del 1913 di Giovanni Enrico Vidali, tratto dal romanzo di Giovagnoli
 Qui sotto alcune scene del film:
 https://www.youtube.com/watch?v=IUOMr15z0VU


Ma veniamo al romanzo. Fin dalle prime pagine ci si trova immersi nel mondo romano, se ne percepiscono gli odori, si ascolta frastornati il clamore di una città che ribolle di vitalità incontrollata: che a me ha ricordato un po' l'atmosfera de I Tre Moschettieri di Dumas, non solo per l'incip che è similmente una scena di massa, che risucchia il lettore dentro il romanzo con la forza delle immagini vivaci, ma per i particolari che si alternano, come in una sapiente sceneggiatura, allo sguardo d'insieme. Voglio dire, qui la storia non è solo raccontata ma, come tutti i romanzi popolari, tende a coinvolgere il lettore nelle emozioni dei personaggi.  Questo l'incipit di Spartaco:

 Al levar del sole del quarto giorno avanti le idi di novembre (10 novembre 675 dell'èra romana), essendo consoli Publio Servilio Vatia Isaurico e Appio Claudio Pulcro, Roma formicolava di popolo che, proveniente da tutte le regioni della città, si dirigeva al Circo Massimo.
 Dalle straduzze strette, tortuose, popolatissime dell'Esquilino e della Suburra, più specialmente abitate dal popolino, una folla sempre crescente di persone d'ogni età e d'ogni condizione affluiva e si dilagava nelle vie principali, di Tabernola, dei Figuli, Nuova, ecc., camminando sempre in direzione del Circo.
 Cittadini, operai, capo-censiti, liberti, vecchi gladiatori storpi e coperti di cicatrici, poveri e monchi veterani delle superbe legioni vincitrici dell'Asia, dell'Africa e dei Cimbri, femminucce del volgo, mimi, istrioni, danzatrici e stormi di vispi e saltellanti fanciulli formavano quella folla sterminata.  Essa, con la fronte serena, con sguardo giulivo, con la parola e col frizzo facile e pronto sulle labbra, affrettandosi verso il Circo, dava a divedere indubbiamente come s'andasse a qualche pubblico e piacevole spettacolo.
 Tutte queste turbe spigliate, ciarliere, numerose, empivano le strade della grande città di quel confuso, indistinto e gagliardo ronzìo, di cui appena mille e mille alveari riuniti nelle sue vie avrebbero potuto produrre l'eguale.
Per gioco, leggiamo anche l'incipit de I Tre Moschettieri:

Il primo lunedì di aprile del 1625 la cittadina di Meung, dove nacque l'autore del Roman de la Rose, sembrava completamente sconvolta, come se gli ugonotti fossero venuti a farne una seconda Rochelle. Molti borghesi, vedendo fuggire le donne dalla parte della Grande-Rue e sentendo piangere i bambini sulle porte, si affrettarono a indossare la corrazza e, rafforzando il loro contegno un po' incerto con un moschetto o una partigiana, si diressero verso la locanda del Franc Meunieur, davanti alla quale si accalcava, ingrossandosi di minuto in minuto, una folla compatta, rumorosa e curiosa.
A quell'epoca il panico era assai frequente, e poche giornate passavano senza che una città o l'altra registrasse nei suoi archivi un avvenimento del genere. C'erano i nobili che si facevano la guerra tra loro; il re che faceva la guerra al cardinale, la Spagna che faceva la guerra al re. Poi, oltre a queste guerre nascoste o pubbliche, manifeste o segrete, c'erano i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i lupi, e i lacché che facevano la guerra a tutti. I borghesi si armavano sempre contro i ladri, i lupi, i lacché, spesso contro i signori e gli ugonotti, qualche volta contro il re, mai contro il cardinale e gli Spagnoli. Il risultato di queste abitudini è che il suddetto lunedì i borghesi, sentendo del frastuono e non vedendo né il guidone rosso e giallo, né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono alla locanda del Franc Meunieur.



Come ha scritto qualcuno il romanzo è e resta ancora il modo migliore di raccontare il mondo di oggi, quello di ieri e quello di domani. Ma non si era a lungo discusso sulla morte del romanzo? Ma se questo fosse vero, significherebbe che non sia più possibile raccontare il mondo?  

Non staremo certo qui a riproporre l'eterno dilemma se il romanzo sia morto davvero, e perché e quando e chi ne siano i responsabili. Certo il romanzo popolare era in perfetta salute, con il suo schema costante e ben collaudato: l'eterna contraddizione tra bene e male; l'amore travolgente, totale; i sentimenti sempre estremi; la crudeltà, il tradimento e l'odio sempre viscerali, così come l'abbandono e l'amore totale; e l'amicizia sacra, fino al sacrificio.

Spartaco rappresenta tutto questo, è la summa, il compendio di tutti gli stereotipi del romanzo popolare e del romanzo d'avventura, con un protagonista la cui vicenda umana, a distanza di oltre venti secoli ancora riesce a rappresentare  l'eroe (ἣρως), cioé colui che compie straordinari e generosi atti di coraggio, fino al consapevole sacrificio di sé stesso. Come poteva non essere d'esempio per i rivoluzionari di tutto il mondo?

Così si esprime Spartaco, quando Cesare gli chiede:

- ...Spartaco, che con ammirabile costanza, con sapienza di gran capitano, hai raccolto gli schiavi in esercito, li hai ordinati a legioni, e ti appresti a guidarli alla riscossa, dimmi che volgi tu nella mente, Spartaco, che speri?
- Spero - rispose il rudiario, con occhi scintillanti e con slancio di irrefrenabile passione - di sfasciare questo corrotto mondo romano, e dalle sue ruine veder sorgere l'indipendenza dei popoli: spero di abbattere le leggi infami che vogliono l'uomo prono innanzi all'uomo ed impongono che tra due creature umane, dotate della stessa forza e della medesima intelligenza, l'uno sudi su zolle non sue per dar cibo all'altra che poltrisce in ozio infingardo: spero di soffocare nel sangue degli oppressori i gemiti degli oppressi: di infrangere i ceppi degli infelici, asserviti al carro delle romane vittorie, spero di cangiare quei ceppi in brandi, onde a ciascun popolo sia dato ricacciarvi entro i confini d'Italia, che segnano la terra a voi concessa dagli Dei, e i limiti della quale non avreste dovuto giammai varcare: spero di poter incendiare tutti gli anfiteatri dove un popolo di belve, che chiama barbari noi, s'inebria alle stragi e alle carneficine di poveri uomini nati all'intelligenza, alla felicità, all'amore anch'essi, e destinati, invece, a scannarsi, per sollazzo dei tiranni del mondo, spero, per tutte le folgori del potentissimo Giove, di vedere abolito sulla terra l'obbrobrio della schiavitù all'apparire dello splendido sole della libertà.
E' difficile, contro ogni razionalità, non essere con Spartaco.




 Un amico mi ha informato di possedere una copia della quarta edizione del 1882 con illustrazioni di Senesi, questa copia del 1955 e illustrata con 32 incisioni di Santino Gallieni di qui sotto ne riproduco alcune: