giovedì 25 giugno 2015

Mario Lodi - IL SOLDATINO DEL PIM PUM PA' - Einaudi 1974 - £ 3.500





Una vita per la scuola, così si potrebbe sintetizzare la vita di Mario Lodi (1922-2014)  insegnante, pedagogista e scrittore; antifascista attivo contro la guerra, subisce il carcere e, dopo la liberazione, lo troviamo impegnato nel movimento democratico per rinnovare profondamente la scuola italiana ancora pervasa dal veleno fascista.

Per chi non conosca l'opera e la personalità di questo grande uomo, la sua semplicità e modestia, il suo amore per l'insegnamento, il suo contributo pedagogico nella scuola italiana, il suo impegno per la democrazia, la poderosa mole di libri pubblicati, libri per ragazzi, fiabe, testi teatrali, lavori per la TV, la sua bibliografia completa, insieme alle iniziative promosse da Lodi e proseguite anche dopo la sua scomparsa, può essere utile il link del suo sito:

 http://www.casadelleartiedelgioco.it/mariolodi/riconoscimenti.php

Il soldatino del pim pum pam è un libro dove le immagini giocano un ruolo fondamentale, come complemento narrativo della parola, perché parlano direttamente alla mente attraverso l'occhio e stimolano la fantasia.










                                           



Fa un certo effetto, con i tempi che corrono, rileggere queste storie o fiabe, e scoprire quanto fosse primario nella narrazione di Mario Lodi il concetto di democrazia, come ne avesse fatto l'elemento centrale, e come ritenesse essenziale il valore della conoscenza e dell'unione, perché solo attraverso la conoscenza e l'unione si possono difendere e affermare i diritti sanciti dalla Costituzione.






















Il re inforcò gli occhiali e lesse il peso «Un chilo e un etto». Il contadino levò dalla tasca il coltello, uccise il pesce e lo mise sulla bilancia. Il re si mise gli occhiali e disse «O bella... un chilo e un etto come prima... il peso è uguale!»
Il popolo fece un grande applauso e il re disse: «Sia dato a questo contadino il sacco di monete d'oro».
 































domenica 21 giugno 2015

Jack Kerouac - LA VITA STREGATA e altri scritti - Mondadori 2014 - € 10,00



Ho letto questo racconto inedito di Kerouac, e gli altri scritti giovanili che compongono il libro, con sentimenti contrastanti. Certo, è prevalsa la curiosità entusiasta, un'aspettativa forse eccessiva per un autore che mi è caro, ma anche molto interesse per l'avventurosa storia del manoscritto, misteriosamente riemerso dopo quasi cinquant'anni, che è già di per se molto romanzesco. 

Dimenticato in un taxi a Lowell nel 1944, ritroviamo il manoscritto  in un catalogo Sotheby's nel 2002, dove un anonimo acquirente se lo aggiudica per 95.600 dollari. Sapremo in seguito che il manoscritto, rimasto per una quarantina di anni in un armadietto dell'Università di Lowell, è stato recuperato e messo in vendita quando si è saputo che il famoso rotolo di On the Road era stato battuto ad un'asta di Sotheby's per 2.430.000 dollari!

La prima cosa che emerge fin dall'incipit, ma non è una novità,  è il profondo razzismo della provincia americana, lo spirito xenofobo più retrivo e un odio profondo per Roosevelt, che mi ha ricordato la trama di quel romanzo di Philip Roth, Il complotto contro l'America (2004), di cui ho avuto occasione di parlare qualche tempo fa:

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/07/philip-roth-il-complotto-contro.html

L'incipit di La vita stregata:

«L'America non è più il paese di una volta, non è neppure più l'America." Mr Martin aspirò il suo sigaro con scoraggiata e rabbiosa decisione. "E' diventato uno stramaledetto buco per tutte le miserabili razze che vengono da fuori. L'America non è più l'America. Un bianco non può camminare per strada, entrare in un ristorante, mettersi in affari, o fare qualsiasi cosa senza doversi rimescolare a questi fottutissimi immigrati che vengono da fuori.»
Dal divano nella stanza buia, Peter Martin sogghignò, aspirando una sigaretta.
«Gentaccia!» gridò Mr Martin, tossendo fumo.
La luce della cucina, da dove la zia Marie stava lavando i piatti, irruppe nel salotto buio in cui Mr Martin stava ancora tossendo nel momento esatto in cui sua sorella lo richiamò, china sull'acquario: «Allora, ricominci?»
«Lo sai che ho ragione, porca miseria!» disse quasi soffocando.
Peter si allungò verso la manopola della radio per alzare il volume; era appena cominciato un pezzo di Benny Goodman. Represse l'impulso di annunciare il titolo a tutta la stanza; il un juke joint (*) l'avrebbe gridato a squarciagola per dimostrare a tutti la sua cultura in fatto di jazz.
«Ruffiani!»ripreseMr Martin,con la sua voce spessa. «Ebrei!Greci!Negri!Armeni, siriani, qualsiasi razza schifosa del mondo. Sono venuti tutti qua, ci stanno ancora venendo, e continueranno a venirci stipati nei bastimenti. Ricordatevi quel che vi dico: verrà il giorno in cui un americano vero non avrà uno straccio di possibilità di trovare un lavoro e di vivere decentemente nel proprio paese, il giorno in cui distruzione e bancarotta si abbatteranno sulla nostra nazione perché questi dannati stranieri avranno messo le mani su tutto e ne avranno fatto un bordello.»
(*) Locale tipico del Sudest degli Stati Uniti in cui si ballava al ritmo della musica suonata da un juke-box

Quando Kerouac scriveva questo inizio di romanzo, era poco più che ventenne e ancora non aveva acquisito quel suo particolarissimo stile, ritmato come un pezzo bebop suonato da Dizzie Gillespie; in questo romanzo, che potrebbe essere l'antefatto di On the Road, la prosa è convenzionale, ancora nel solco dei grandi della generazione precedente,  la cosiddetta lost generation.

In queste pagine non c'è ancora traccia di ribellione nei confronti della società, solo desiderio di evadere da Galloway, asfissiante cittadina di provincia dove non succede nulla, pietrificata nei gesti quotidiani in perenne attesa di qualcosa, come nei dipinti di Hopper. La prosa a volte ricorda Saroyan; le descrizioni sono meticolose come se l'occhio di una cinepresa, dopo un'inquadratura d'insieme, stringa sui dettagli per raccontare la totalità della scena nei suoi infiniti particolari..

   C'è qualcosa nelle case americane di periferia che lenisce tutte le apprensioni della vita. Il pomeriggio successivo vide Peter seduto in veranda con un bicchiere di limonata; ascoltava il match fra Red Sox contro Detroit alla radio portatile.
   Le veneziane verdi della zia Marie erano sbarrate contro il sole delle quattro sul lato destro della casa, e a sinistra l'olmo dei Quigley ergeva una barriera di verde maculato. Kewpie il gatto fissava distratto la strada tranquilla dalla sua postazione di fronte alla porta con la zanzariera. Una mosca ronzava all'orecchio di Peter e, quando la scacciò, lo sforzo fece scricchiolare l'amaca; Kewpie girò i suoi placidi occhi verdi e lo fissò, stupefatto.
   A Peter piaceva ascoltare le radiocronache delle partite di baseball. Durante le pause del cronista, quando non aveva niente da dire, si potevano sentire le urla dalle gratinate e dalle panchine, le lontane battute di spirito dei ricevitori, e qualche fischio occasionale. Era un suono vasto e sonnolento.

La vita stregata occupa una ottantina di pagine, il resto del volume riguarda altri scritti che rappresentano un importante contributo per la comprensione di Kerouac, come uomo e come scrittore. 

In Schizzi e riflessioni, c'è uno scritto del 1948 che riguarda Città e metropoli, dove emerge forse con maggior chiarezza che in tutti gli altri scritti, come l'uomo idolatrato dai figli dei fiori, padre riconosciuto della beat generation, non differisca in modo sostanziale dall'uomo medio americano, con i suoi valori tradizioni, le sue convinzioni e le sue fobie.

Scrive Kerouac:
Una forma di masochismo (o amore per l'impotenza) e qualcos'altro che somiglia a una sorta d'impetuosità sembrano farsi la prova più tangibile di quel che ho chiamato "decadenza intellettuale"...
Il masochismo si manifesta sotto varie forme, ma viene sempre generato dagli stessi abissi, dalla stessa psicologia, dalla stessa "struttura di carattere" o, se non vogliamo usare questo termine reichiano, dalla stessa dissoluzione del carattere. Il masochismo è la vera caduta della virilità. Intendo ciò nel senso più letterale del termine. E in parallelo, nelle donne, il masochismo consiste nella perdita della femminilità, ancora nel senso più letterale del termine. Il masochismo rende l'uomo incapace di affrontare le situazioni concrete della vita reale, vale a dire, un tipo di vita primaria che viene arbitrariamente mistificata da convenienti modelli metropolitani che non possono durare, né mai dureranno. (....)

Molta della magnanimità del  nostro "liberalismo" è connesso al masochismo. Il radicale di New York che si precipita a sud a "combattere per il negro", in realtà vuole soltanto dimostrare che lui è meglio di noi; e allo stesso tempo rivela senz'altro che lui vuole essere punito. Questo è Burroughs, salvo che lui si occupa del rovesciamento dei valori, i valori borghesi, e non dei capovolgimenti politici. Tutte queste divergenze radicali sono solo pose. intese a rivendicare contrapposizioni cariche d'invidia e malizia, quali l'invidia della ricchezza, dello status sociale e del linguaggio. Poiché niente di tutto ciò riguarda l'andamento generale della razza americana (per non dire della razza umana del mondo intero), concludo che la gente non è pazza; sono invece gli intellettuali a essere pazzi. La gente a pazienza, senso dell'umorismo, è assennata, a volte agisce con brutalità e violenza, ma alla fine, è leale e forte. Così è facile osservare come gli intellettuali delle Metropoli, che si avvalgono di strumenti moderni e potenti mezzi di propaganda e comunicazione di notizie,possono alla fine esercitare una pessima influienza sui figli di questa gente, e rovinare le generazioni future.
Questo kerouac-pensiero non cambia il mio giudizio sulla grandezza dello scrittore, semmai mi consente di fare una distinzione netta tra l'artista e l'uomo, tra il mito cresciuto intorno al suo nome e la realtà di un uomo con tutti i suoi limiti, che si è autodistrutto perché incapace di vivere.

Per una maggiore comprensione del fenomeno Kerouac, può essere utile la lettura di un articolo di Alberto Arbasino, che lo incontrò insieme a Domenico Porzio  nell'ottobre 1966 in un albergo di Roma, questo il link:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/a-colloquio-con-jack-kerouac/

Dopo Roma visitò Napoli. A Napoli l’incontro avvenne nei saloni di Villa Pignatelli e fu un autentico disastro. Lo scrittore arrivò ubriaco, imbottito di birra e cognac (il suo cocktail preferito) e fu particolarmente aggressivo con gli studenti che gli chiedevano del suo lavoro letterario, ma anche della guerra nel Vietnam, che lui giustificò provocando una colossale contestazione con ingiurie e improperi e fu costretto ad uscire dalla porta di servizio per impedire che l’incontro degenerasse in una rissa incontrollabile.

mercoledì 17 giugno 2015

I FIORI BLU di Raymond Queneau - traduzione di Italo Calvino - Einaudi 1995 - £ 13.000



Raymond Queneau (1903-1976), scrittore, poeta, matematico e drammaturgo, è stato uno dei più poliedrici uomini di cultura della Francia del XX secolo. I suoi romanzi sono esplorazioni nelle infinite potenzialità della lingua.




I fiori blu (1965) è la più imprevedibile e pirotecnica opera di Queneau, certo la più rappresentativa. L'intreccio della vita dei due personaggi principali che si sognano reciprocamente, è il complesso nucleo del romanzo: Cidrolin, vive in una chiatta ormeggiata nella Senna nel 1964 e sogna le avventure del Duca d'Auge, che a sua volta, accompagnato dai suoi due cavalli parlanti Sten e Stef, attraversa la storia con quattro balzi lunghi 175 anni ciascuno, per incontrare Cidrolin. Non deve sorprendere la struttura matematica del romanzo, poiché nel 1960 Queneau fondò, insieme ad altri, un laboratorio di letteratura potenziale allo scopo di proporre nuove strutture, anche di natura matematica, per espandere la creatività.

L'incipir è illuminante:

   Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d'Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvados.
    Il Duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti.
   Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevano calvados.
   - Tutta questa storia, - disse il Duca d'Auge al Duca d'Auge,- tutta questa storia per un po' di giochi di parole, per un po' d'anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d'uscita
Ecco, l'uscita dalla storia (il disfacimento della storia la definisce Italo Calvino, nella Nota del Traduttore in appendice) è un'altra delle molte chiavi di lettura di questo romanzo (la principale è quella psicanalitica), ma  posso assicurare che, nonostante la complessità, il romanzo risulta di piacevole lettura perché il linguaggio usato è un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose, e le battute, i doppi e tripli sensi, i calembours si alternano a citazioni colte in un susseguirsi spumeggiante che fanno la gioia del lettore.