domenica 27 maggio 2012

Ermanno Rea - MISTERO NAPOLETANO - Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda -Einaudi 1995 - £ 28.000



 Questo Mistero napoletano, dopo averlo riletto con un interesse sempre crescente, coinvolto emotivamente per vicinanza ideale con i protagonisti, mi accorgo solo  ora, nel momento di scriverne dopo vari tentativi, di quanto sia difficile parlarne, senza cadere nella banalità e nella schematizzazione.

Si può iniziare dicendo che attraverso la ricostruzione dell'avventura umana e politica di Francesca Nobili (più nota come Francesca Spada, pseudonimo con cui firmava gli articoli sull'Unità negli anni '50), Ermanno Rea analizza più ampiamente le ragioni della decadenza di Napoli, del suo degrado economico, politico e umano, che  si è acutizzato dalla fine della guerra, ma anche del clima stalinista che soffocava ogni tentativo di analisi della realtà che uscisse dagli schemi fissati dalla direzione del PCI.

C'è un primo mistero, quello di fondo:
La domanda alla quale mi sento chiamato a rispondere è una sola: perché si uccise Francesca? Una scorciatoia potrebbe essere la seguente: si uccise perché, come un pesce in un acquario stagnante, sentì venirle meno via l'ossigeno. L'acquario ovviamente è la metafora dietro la quale si nasconde la città, Napoli, la metropoli cupa e melmosa degli anni Quaranta e Cinquanta. Francesca si uccise a Pasqua del 1961.
Un libro terribile, straziante, che scava all'interno dei conflitti esistenziali di una donna moderna, drammaticamente in anticipo sui tempi, innamorata di un partito che non si fida di lei, che la perseguita e tiranneggia in ragione del suo passato, ma anche per colpire il suo compagno (e poi marito) Renzo Lapiccirella, intellettuale, poco incline a subire le angherie del "piccolo Stalin"  che guida la Federazione del PCI di Napoli, Salvatori Cacciapuoti, per conto di Giorgio Amendola, vero deus ex machina dell'Italia meridionale.

Scrive Rea:

Renzo Lapiccirella, per esempio, erano anni che viveva le angoscie di un'opposizione, dentro al PCI, attento a non oltrepassare mai i limiti di sicurezza. A me sembrava un acrobata, vedevo la sua esile figura perennemente sospesa in aria, aggrappata a un trapezio oscillante su un'arena popolata da famelici leoni. Le sue acrobazie avevano il fascino delle imprese impossibili, quasi insensate: portare i valori della democrazia e del rispetto della persona dentro un meccanismo politico perfetto nella sua illiberalità, che anzi era arrivato a dare a questa illiberalità addirittura un senso etico-ideale.

Tra i personaggi più affascinanti in cui ci si imbatte, primeggia  Renato Caccioppoli, il grande matematico, nipote dell'anarchico Bakunin, amico di Francesca, diplomata al conservatorio, con cui spesso suonava il pianoforte a quattro mani. Morto suicida due anni prima di Francesca.

 Il porto di Napoli, ceduto dopo la guerra con un patto segreto alla Sesta Flotta e nel 1951 Quartier Generale delle forze alleate del Sud Europa, i cantieri smantellati, il "Comandante" Lauro, imposto come sindaco che opera contro la città trasferendo la sua flotta civile a Genova, sono le ragioni che impedirono lo sviluppo economico della città. Scrive Rea:

Riassumendo, il nostro governo decide (sia pure sotto le prevedibili pressioni degli anglo-americani) che tocca al "Bel Golfo" il grande sacrificio: trasformarsi nel più grande porto militare d'Europa offrendosi come il maggior contributo italiano al sistema difensivo atlantico. Rinunciando così al suo stesso sviluppo.

Questo libro, scritto con grande passione e  rigore, mi ha fatto pensare, per certi versi, a Guerra e Pace, non solo per la ricchezza dei temi toccati e il gran numero di personaggi che vi si incontrano - questi tutti reali - con i loro drammi, passioni,  debolezze, grandi e piccoli eroismi, ma anche come e perché le conseguenze di scelte politiche,  effettuate in quei lontani anni, siano  rimbalzate fino ai nostri giorni.

La forma che Rea utilizza in questo appassionante ricostruzione è quella del diario, scandito su piani temporali diversi, consulta documenti e memorie dell'epoca, interroga i testimoni sopravvissuti, amici e colleghi di Francesca, alla ricerca di un'identità difficile da ricostruire, ma affascinante come un'eroina che sogna la redenzione del mondo.

In questo intervento durante la trasmissione Quello che (non) ho, Rea parla del coraggio dell'impossibile e del nuovo libro che ha per protagonista ancora Francesca La comunista.

                                                 http://youtu.be/rKgQgn-JcdQ

mercoledì 23 maggio 2012

Paolo Monelli - LE SCARPE AL SOLE - Il Ponte Mondadori 1965 - £ 1.300


Cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini di muli e di vino, questo è il sottotitolo che Paolo Monelli ha voluto aggiungere al titolo Le scarpe al sole che, nel gergo degli alpini, significa morire in combattimento.

Quando ho comprato e letto, quasi cinquant'anni fa, questo libro era già un successo che Mondadori riproponeva in varie edizioni da dieci anni. Uno di quei titoli sicuri che rappresentavano la base delle fortune editoriali di Arnoldo Mondadori, insieme ai Manzoni, D'Annunzio, Bacchelli, Trilussa, Winston Churchill e tutti i classici italiani. Ricordo una edizione in grande formato con 24 litografie di Mario Vellani Marchi, edito dieci anni prima, e che si vendeva moltissimo ancora negli anni '60 come strenna.

Qual'è stato il segreto del successo di questo insolito libro? Credo la semplicità con cui è scritto e la verità che vi traspare. Paolo Monelli teneva quasi giornalmente una sorta di diario, quando appena ventunenne nel '15 fu chiamato sotto le armi, tenente negli alpini. Quel diario racconta una vita ridotta ai dati più elementari in un rapporto diretto con la natura, nelle marce fra i boschi alla luce di albe fredde, ma anche il cameratismo che è una categoria di fratellanza che la morte improvvisa accomuna, e le grandi bevute e le bestemmie innocue.

 



                                       
Sulle cime del Cauriol, dopo un attacco respinto, il giovane tenente annota sul suo quadernetto:
Sempre quell'odore di cimitero sotto il naso. Ce n'è una ventina ammassati in un crepaccio, che si sfanno lentamente. Ma andarli a tirar fuori, di notte, è un affar serio. La faccia dell'alfiere medico la si vede mutare adagio adagio quotidianamente, sotto la decomposizione: e ieri il suo naso s'è spaccato e ne cola una sanie verde. Ma i suoi occhi sono sempre vivi, e sbarrati - no, non sono io che t'ho ucciso! 
 Non sono io che t'ho ucciso, e poi perché, se eri medico, cacciarti tra le file all'attacco notturno? Avevi una tenera fidanzata che ti scriveva delle lettere bugiarde, forse, ma consolatrici, e tu le tenevi nel portafogli. Rech te l'ha tolto, il portafogli, la notte che t'hanno ammazzato. Abbiamo visto anche il suo ritratto (bellina - ma c'è stato chi ha fatto dei commenti sconci), e la fotografia del tuo castello, e tutte le cianfrusaglie care che tenevi là dentro; un mucchietto nel mezzo, e noi attorno, stretti nel ricovero, lieti di aver respinto l'attacco, con un fiasco per premio alla buona fatica. Tu eri morto da così poco, ed eri già nulla, più nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia; e noi così vivi, alfiere, e così ferocemente vivi che invano cercavo un brivido di rammarico in fondo alla nostra curiosità.  Che ti giova aver guardato il mondo con occhi rapaci, aver tenuto tra le braccia il suo corpo giovane, esser partito per la guerra come per una missione?  Ed anche tu t'inebriasti forse d'altezza e del tuo posto d'avanguardia, e del tuo destino di sacrificio.  Per chi, morto?  I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi abituati alla guerra come ad un ritmo più celere di vita, i viventi che non credono di dover morire.  Come se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita, ma l'abbia annullata. Rimani per un po' di tempo elemento numerico nello specchio del furiere, argomento patetico nel discorso che ti rammemori: ma tu, uomo, non sei ed è come non fossi stato mai.  C'è del carbonio e dell'acido solfidrico sotto a noi, coperto da un mucchio di stracci-uniformi; e ciò chiamiamo morti.
 Ma stasera puzzate troppo, morti.
Allora il capitano Busa ha chiamato quattro mascalzoni che non hanno paura né di Dio né del maggiore, e ha detto:
"Fioi, vi dò una tazza di cognac e la maschera: andate a portarmi via quei morti."
"El cognac el ne lo daga subito, sior capitano."
E più tardi, il capitano Busa racconta:
"Ostia! se no li tegneva, i me sepeliva anca i vivi."

Il giornaliero contrasto tra il sereno eroismo  dell'alpino, e il cieco consueto ottuso formalismo, al limite della stupidità, degli alti comandi. Annota il tenente Monelli:


 
 Colognese è arrivato stamane, in giubba di tela, pallido ed emaciato, e si è presentato al Comando di battaglione.
 "Potevano tenerti ancora un poco giù al deposito, a riposare" brontola il maggiore. "Sei guarito bene?"
"Siorsì."
 "Dov'è la bassa di passaggio? E perché ti mandan fra la neve in giubba di tela?"
"Gnente bassa, salo. Son scampà da Feltre. No me podeve più vedar lavìa. Son scampà sensa dir gnente a nisun."
"Bel pasticcio, adesso. Ti avranno dato per disertore, laggiù."
 A Colognese, che torna dopo quindici giorni di ospedale e cinque di deposito a questa montagna di pena e di spasimo, queste finezze burocratiche paion da ridere. E mentre riprende il cammino della selletta dov'è il suo terzo plotone, il maggiore manda un telegramma al Deposito, spiegando come il caporalmaggiore Colognese sia rientrato di sua iniziativa, con lodevole spirito militare.
 Risposta: il Deposito resta in attesa di conoscere quale punizione è stata inflitta al caporalmaggiore Colognese.

E ancora:

Mattacchioni come al solito, quelli della Divisione mandan su dei mirini luminosi da applicare ai fucili per sparare di notte, e chiedono che si riferisca sulla loro utilità.
"Scriva" detta il maggiore al furiere. "Ottima cosa i mirini luminosi. Ora non resta che rendere luminoso il nemico."

E attese e battaglie, e incomprensibili ordini di ritirata, da una Stato Maggiore che gioca alla guerra come coi soldatini di piombo, e poi tentativi di riconquista di una stessa posizione lasciata al nemico. Infine quando sfondarono a Caporetto, (per ignavia e responsabilità precise del generale Badoglio comandante del 27° Corpo d'Armata) accerchiati dalle truppe nemiche che dilagarono nelle zone abbandonate, anche la compagnia di Paolo Monelli - divenuto capitano - fu fatto prigioniero con tutto il battaglione di alpini.
 Così, dopo le sofferenze e i disagi della trincea, i valorosi alpini conobbero l'umiliazione e la fame nei campi di prigionia. Poi, con uno di quei capovolgimenti della storia che rendono l'esistenza una continua avventura, la capitolazione dell'Impero Austro-Ungarico li trasforma da vinti in vincitori.

Creiamo dunque questo simulacro di riconquista, battaglione armato nel cuore dell'Austria con le armi tolte al nemico, picchetti e pattuglie, ancora le regole dell'ordine interno e del servizio in guerra; fa bene questo risottomettersi ad una disciplina nostra, gli ordini chiusi scattano sul present'arm come una buona molla che s'era lasciata inoperosa.
E poi l'armistizio e il ritorno a casa, dove i riflessi della vittoria sono offuscati da tanti esempi di mediocrità premiata, affarismo dilagante e propensione all'oblio per i tanti sacrifici e le vite dissipate.

Un libro amaro e divertente, profondo e intenso, che ricorda per situazione quel capolavoro che è Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu, che combattè nella Brigata Sassari  sullo stesso fronte degli alpini di Paolo Monelli.

giovedì 17 maggio 2012

Umberto Eco - SUGLI SPECCHI e altri saggi - Bompiani 1985 - £ 18.500


Gli specchi sono l'argomento del primo saggio di questo volume, che raccoglie scritti su diversi argomenti ed elaborati in periodi diversi. Ma in qualche modo la metafora dello specchio suggerisce alcuni dei temi che tutti questi saggi affrontano: il segno, la rappresentazione, l'illusione, l'immagine.

Di qualunque tema Eco scriva, è sempre presente un fondo di divertita ironia, all'interno di una narrazione che spazia senza limiti, trovando naturali relazioni tra argomenti solo apparentemente lontani; queste connessioni rendono la lettura particolarmente stimolante.

Singolare, in una  conferenza dal titolo Il segno della poesia e il segno della prosa, la definizione usata da Eco per distinguere l'una dall'altra:

"la poesia è quella cosa che va a capo prima che la pagina sia finita, e la prosa quella che continua sino a che si può sfruttare una porzione di carta, riducendo al massimo i margini, perché la carta costa, anche in senso ecologico, e piuttosto che andare a capo troppo in fretta si accetta anche di spezzare una parola in due, ciò che la poesia di solito non fa, salvo nei deliri della più estrema avanguardia, e guardate quanto tira lunghi i suoi versi, l'avanguardista Sanguinetti, da buon genovese, pur di non comprare un altro quaderno".

E partendo da questa definizione solo apparentemente  faceta, prosegue lambendo le teorie della semiotica su poesia e prosa, citando e confrontando i maestri di questa disciplina.

Che Umberto Eco ami il paradosso  non c'è alcun dubbio, anche perché lo utilizza a fini didattici. In "Elogio del Montecristo", ci provoca così:

Il Conte di Montecristo è senz'altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d'altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature.
Dopo aver analizzato nel testo, le ripetizioni, le lungaggini, le divagazioni sentenziose con difettosa  sintassi, la goffaggine nel disegnare i sentimenti, Eco ci avverte che Dumas era pagato un tanto a riga e doveva allungare per ragioni di denaro, ma nonostante questo limite riesce in un sol colpo a mettere assieme tre situazioni archetipe capaci di torcere le viscere: l'innocenza tradita, il colpo di fortuna e la strategia della vendetta, che ne fanno - con tutti i suoi difetti formali - un'opera omerica.

L'altra grande  rivelazione, (quella che ha  colpito un lettore dilettante come me), che era lì sotto gli occhi di tutti e che Eco puntualmente ci svela, è il punto di vista del narratore dei Promessi Sposi nella prima pagina:

Egli (Manzoni) ha deciso che la sua descrizione dell'ambiente non sta partendo da decisioni verbali ma da decisioni epistemologiche. Egli ha deciso che la sua descrizione dell'ambiente deve procedere anzitutto per un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di zoom e come se la ripresa fosse fatta da un aereo, cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti. Questa prima opposizione tra alto vs basso, ovvero questo primo movimento continuo dall'alto al basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a individuare (come non si potrebbe da una altezza"geografica") il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla decisione, sempre epistemologica, di procedere da nord verso sud, seguendo appunto il corso di generazione del fiume; e di conseguenza il movimento descrittivo parte dall'ampio verso lo stretto, dal lago al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all'arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.  La visione geografica, man mano che procede dall'alto verso il basso, diventa visione topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. E come ciò avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall'alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio concreto, la visione scende dall'alto al basso; a questo punto l'ottica si ribalta, e i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi.
Se gli insegnanti a scuola riuscissero a dare di queste istruzioni sull'uso, indicazioni, suggerimenti di modalità di lettura, certo la familiarità con Manzoni ne trarrebbe un grande vantaggio.

Nelle 376 pagine del libro, diviso in cinque corposi capitoli:
  1. MODI DI RAPPRESENTAZIONE
  2. TRA ESPERIMENTO E CONSUMO
  3. CONGETTURE SU MONDI
  4. TRA POESIA E PROSA
  5. DISCORSI SULLE SCENZE UMANE
trovano posto tutti gli argomenti cari a Eco, semiotica, estetica, teorie delle comunicazioni di massa e qualche incursione nel medievale, con la prosa precisa ma accessibile che ne ha fatto uno degli autori più letti nel nostro paese e nel mondo.

Per conclude, un libro utile, necessario per chi nella lettura  non  cerca verità superficiali, ma aspira alla comprensiote totale del testo.

martedì 15 maggio 2012

Marcel Proust - LA STRADA DI SWANN - La Biblioteca di Repubblica - 2002 € 4,90



Devo alla lodevole iniziativa del quotidiano La Repubblica la mia iniziazione, dieci anni or sono, all'universo proustiano. Acquistato insieme al quotidiano, il libro sembrava assumere una dimensione di accessibilità, l'esatto contrario degli austeri sette volumi einaudiani, che facevano bella mostra di sé nella biblioteca di famiglia, inaccessibili per il mito di complessità che irradiavano. Sono contento di non averne tentato la lettura allora, ventenne.

Più tardi, leggendo di Natalia Ginzburg Lessico famigliare, appresi che quella divertente famiglia di intellettuali, erano appassionati lettori di Proust, di cui leggevano le opere che in quegli anni venivano pubblicate a Parigi. Natalia Ginzburg qualche anno più tardi tradusse Du còte de chez Swann per Einaudi, la prima traduzione in Italiano, la stessa scelta da Repubblica per questa edizione.

Come per altre opere impegnative di cui ho parlato in questo blog, non ho intenzione di tentare un'analisi ma neanche riassumere i temi affrontati, bensì cercare di esprimere qualche sensazione che la lettura ha provocato  e le molte curiosità suscitate.  Ad esempio, a pag 13 scrive Proust a proposito della confusione che si può ingenerare in noi svegliandoci in posto diverso:

Queste evocazioni vorticose e confuse non duravano mai più di qualche minuto; spesso la mia breve incertezza del luogo dove mi trovavo non discerneva le une dalle altre varie supposizioni di cui era formata, non meglio di quanto, vedendo un cavallo correre, se ne possano isolare le pose successive che ci mostra il cinetoscopio.

Immediatamente ho pensato che Proust si riferisse alle famose foto di Muybridge del Cavallo in movimento, e l'apparecchio a cui fa riferimento, cinetoscopio o kinetoscopio, è il precursore del cinema dei fratelli Lumière, con la differenza che la visione, e quindi l'emozione che suscita, è individuale e non collettiva, come nel cinema.

 


 Un altro oggetto che Proust ci descrive perfettamente è la lanterna magica, un oggetto che consentiva di vedere immagini anche in movimento, come questa.

A Combray tutti i giorni, sul termine del pomeriggio, molto prima del momento in cui avrei dovuto mettermi a letto e stare, senza dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto ridiventava il punto fisso e doloroso delle mie preoccupazioni. Avevano escogitato, per distrarmi nelle sere che mi vedevano con l'aria troppo infelice, di regalarmi una lanterna magica, di cui, mentre si aspettava l'ora del pranzo, coprivano la mia lampada: e, al modo dei primi architetti e maestri vetrai dell'età gotica, essa sostituiva all'opacità dei muri impalpabili eiridescenze, soprannaturali apparizioni multicolori, dov'eran dipinte leggende come in una invetriata vacillante e momentanea.

Una sorpresa è l'apprezzamento che suscitava, nella patria dello champagne, il nostro Asti spumante, tanto da essere regalato, da una persona facoltosa e di gusti raffinati  come Swann in occasione di un invito a pranzo dalla famiglia del Narratore:


Esse (zia Flora e zia Celine: le prozie di Marcel) mostrarono maggior interesse quando, la vigilia del giorno che Swann doveva venire a pranzo, e aveva mandato a loro personalmente una cassa d'Asti spumante, la zia, ...... eccetera

Il personaggio che in tutta la recherche viene analizzzato più in profondità - più di famigliari e amici - e di cui conosciamo con più precisione i meccanismi mentali, è senz'altro Françoise, che sovrintendeva il personale nella casa della zia Léonia, a Combray e, alla morte di questa, in casa del Narratore. In questo modo esordisce il personaggio nel romanzo:

Il mio timore era che Françoise, la cuoca della zia, incaricata di badare a me quando ero a Combray, si rifiutasse di portare il biglietto. Capivo che fare una commissione alla mamma mentre c'era gente, le sarebbe parso altrettanto impossibile come al portinaio d'un teatro il consegnare una lettera ad un attore che è in scena. Ella aveva, riguardo alle cose che si possono o non si possono fare, un codice imperioso, vasto, sottile e intransigente nelle distinzioni inafferabili od oziose (ciò che gli dava l'aspetto di quelle leggi antiche, le quali, accanto a prescrizioni feroci come il massacro di bambini poppanti, proibiscono con esagerata delicatezza di bollire il capretto nel latte della madre, o mangiare in un animale il nervo della coscia).    (omissis)
 In questo caso l'articolo del codice per cui era poco propabile che, salvo caso d'incendio, Françoise andasse a disturbare la mamma in presenza di Swann per un piccolo personaggio com'ero io, esprimeva semplicemente il rispetto che ella professava non soltanto per i genitori - come per i morti, i preti e i re - ma anche per il forestiero a cui viene data ospitalità.       (omissis)
Immagino che Françoise non mi credesse, giacché, come gli uomini primitivi, i cui sensi erano più potenti dei nostri, ella discerneva immediatamente, da segni inafferabili per noi, qualsiasi verità che volessimo tenerle nascosta.... (omissis)
Già da questi  piccoli campioni, non sentite la voglia di immergervi nella estasiante lettura di Proust?

Dopo aver letto La strada di Swann cercai di recuperare nella biblioteca di famiglia i preziosi sette volumetti Einaudi dell'opera completa, ma ahimè ne rimanevano solo tre, gli altri quattro dispersi in traslochi o ex-libris in casa di amici infedeli; così, per completare la lettura dell'intera opera, acquistai i quattro volumi  dell'edizione I Meridiani, che possiede, a differenza dell'edizione einaudiana, un apparato imponente di note, forse anche eccessive per la fatale  frammentazione che può creare nella lettura.