venerdì 25 aprile 2014

Primo Levi - L'ALTRUI MESTIERE - Einaudi Tascabili 1998 - £ 15.000




La polemica innescata  qualche giorno fa da un post di Beppe Grillo, che ha utilizzato per fini di polemica politica un verso di Primo Levi, mi ha portato a considerare il fatto che Primo Levi viene ricordato esclusivamente per i due libri che raccontano la sua drammatica esperienza ad Auschwitz, Se questo è un uomo e La tregua.  

Quasi mai viene ricordato lo scrittore fantastico che è stato sia nei racconti (http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2010/05/un-primo-levi-fantastico.html)  che negli articoli, pubblicati quasi tutti su La Stampa di Torino,   qui raccolti sotto il titolo L'altrui mestiere.

A prefazione del libro, un articolo di Italo Calvino apparso su "la Repubblica" nel marzo dell'1985, dal titolo I due mestieri di Primo Levi.  Scrive Calvino:


Primo Levi ha raccolto in volume una cinquantina di scritti apparsi sui giornali (soprattutto su "La Stampa") che rispondono alla sua vena d'enciclopedista dalle curiosità agili e minuziose e di moralista di una moralità che parte sempre dall'osservazione.



La prosa di Primo Levi è estremamente gradevole, soffusa com'è da una sottile, bonaria ironia, come quando con un entusiasmo fanciullesco  racconta il suo primo approccio nel 1984 con un elaboratore di testi, come chiama il suo Apple Mac, con il quale ha creato l'immagine qui utilizzata per la copertina del libro. Parlando del suo Mac, scrive:


Purché alimentato con programmi adatti, sa gestire un magazzino, un archivio, tradurre una funzione nel suo diagramma, compilare istogrammi, persino giocare a scacchi: tutte imprese che per il momento non mi interessano, anzi, mi rendono malinconico e immusonito come quel maiale a cui erano state offerte le perle. Può anche disegnare, e questo è per me un inconveniente di segno opposto: non avevo più disegnato dalle elementari, e trovarmi adesso sotto mano un servomeccanismo che fabbrica per me, su misura, le immagini che io non so tracciare, e a comando me le stampa anche sotto il naso, mi diverte in misura indecente e mi distoglie da usi più propri. Devo far violenza a me stesso per "uscire" dal programma-disegno e riprendere a scrivere.
Ho notato che scrivendo così si tende alla prolissità. La fatica di un tempo, quando si scalpellava la pietra conduceva allo stile "lapidario": qui avviene l'opposto, la manualità è quasi nulla, e se non ci si controlla si va verso lo spreco di parole; ma c'è un provvido contatore, e non bisogna perderlo d'occhio.
 Il volume, preceduto da una prefazione di Italo Calvino e chiuso da una accuratissima Nota biografica  a cura di Ernesto Ferrero, consta di cinquantuno elzeviri o scritti brevi su argomenti diversissimi tra loro, dove la capacità di osservazione del mondo da parte di Primo Levi emerge con tutta l'evidenza.

domenica 20 aprile 2014

OMAGGIO A GABRIEL GARCIA MARQUEZ, DA SEMPRE AUTORE AMATISSIMO.


L'unico  modo per onorare questo grande autore che ci ha lasciato è leggere i suoi libri, magari rileggerli, per apprezzarne pienamente lo stile, per gustarne il lessico personale, a volte ricercato, a volte usuale e giornalisticamente diretto,  ma che sempre ci ha sorpreso per la sua originalità.  Il piacere della lettura, è questo e nient'altro. A caso ho preso dei brani da alcuni dei suoi capolavori, che sono un invito alla lettura.


"C'è un minuto in cui si consuma la siesta. Persino la segreta, recondita, minuscola attività degli insetti cessa in quel preciso istante; il corso della natura si ferma; il creato vacilla sull'orlo del caos e le donne si sollevano, sbavando, con fiore del cuscino ricamato sulla guancia, soffocate dalla temperatura e dal rancore; e pensano: "E' ancora mercoledì a Macondo." E allora si raggomitolano nuovamente nell'angolo, uniscono il sogno alla realtà, e si mettono d'accordo per tessere il chiacchierio come se fosse un immenso lenzuolo di filo elaborato in comune da tutte le donne del villaggio." (da Foglie morte)

 "Nel suo feretro drappeggiato di porpora, separata dalla realtà da otto viti di rame, la Mamà Grande era troppo imbevuta nella sua eternità di formaldeide per rendersi conto della magnificenza della sua grandezza. Tutto lo splendore che aveva sognato sul terrazzo della sua casa durante le veglie di afa, si realizzò con quelle quarantotto ore gloriose nelle quali tutti i simboli dell'epoca resero omaggio alla sua memoria. Lo stesso Sommo Pontefice, che nei suoi deliri la Mamà Grande aveva immaginato sospeso in una carrozza splendente sui girdini del Vaticano, combatté il calore con un ventaglio di palma intrecciata e onorò con la sua suprema dignità i funerali più grandi del mondo." (da Il funerale di Mama Grande)


"Eréndira stava aiutando la nonna a fare il bagno quando cominciò il vento della sua disgrazia. L'enorme magione di malta lunare. smarrita nella solitudine del desert, rabbrividì fin nei contrafforti sotto il primo assalto. Ma Eréndira e la nonna erano use ai rischi di quella natura dissennata, e notarono a malapena la portata del vento nella stanza da bagno ornata di pavoni ripetuti e di mosaici puerili di terme romane." (da La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata)


"Si mise a piovere dopo mezzanotte. Il colonnello conciliò il sonno ma si svegliò un attimo dopo, messo in agitazione dai suoi intestini. Sentì gocciolare da qualche parte della casa. Avvolto fino alla testa in una coperta di lana cercò di individuare nel buio il foro del tetto. Un filo di sudore gelato gli scivolò lungo la colonna vertebrale. Aveva la febbre. Si sentì galleggiare in cerchi concentrici in una cisterna di gelatina. Qualcuno parlò. Il colonnello rispose dalla sua branda di rivoluzionario.
    "Con chi stai parlando," chiese la donna.
   "Con l'inglese mascherato da tigre che è comparso nell'accampamento del colonnello Aureliano Buendia," rispose il colonnello. Si rigirò nell'amaca bruciando nella febbre. "Era il duca duca di Marlborough."  (da Nessuno scrive al colonnello)

 

".... non c'era altro runore nel mondo, lui solo era la patria, fece scorrere i tre paletti, i tre chiavacci, i tre chiavistelli della camera, orinò sulla latrina portatile, orinò due gocce, quattro gocce, sette gocce ardue, si lasciò cadere bocconi per terra, si addoormentò sull'istante, non sognò, erano le tre meno un quarto quando si svegliò inzuppato di sudore, sussultando nella certezza che qualcuno lo aveva guardato mentre dormiva, qualcuno che aveva avuto la virtù d'introdursi senza togliere i chiavacci, chi è là, domandò, non era nessuno, chiuse gli occhi, tornò a sentire che lo guardavano, aprì gli occhi per vedere, spaventato, e allora vide, cazzo, era Manuela Sanchez che girava per la stanza senza togliere i chiavistelli perché entrava e usciva a seconda della sua volontà attraverso le pareti, Manuela Sanchez della mia mala ora col vestito di mussolina e la brace della rosa in mano e l'odore naturale di liquerizia del suo respiro, dimmi che non è vero questo delirio, diceva, dimmi che non sei tu, dimmi che questo stordimento di morte non è il marasma di liquerizia del tuo respiro, ma era lei, era la sua rosa, era il suo alito caldo che profumava il clima della camera come un basso ostinato con più padronanza e più antichità dell'ansito del mare, Manuela Sanchez della mia rovina che non eri scritta nella palma della mia mano, né nel fondo del mio caffè, nemmeno nelle acque della mia morte dei catini, non sperperarti la mia aria da respirare, il mio sonno da dormire...." (da L'autunno del patriarca)


"Sapeva da parecchio tempo di essere predestinato a far felice una vedova, e che lei lo facesse felice, e questo non lo preoccupava. Anzi: ci era preparato. A furia di conoscerle nelle sue incursioni di cacciatore solitario, Florentino Ariza avrebbe finito per sapere che il mondo era pieno di vedove felici. Le aveva viste impazzite di dolore davanti al cadavere del marito, supplicando di seppellirle vive dentro la stessa bara per non affrontare senza di lui i casi del futuro, ma più si riconciliavano con la realtà del loro nuovo stato più le si vedeva risorgere dalle ceneri con una vitalità rinverdità." (da L'amore al tempo del colera)


"Il giorno che l'avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare il bosco di higuerones sotto una pioggiarella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma nel ridestarsi si sentì inzaccherato da capo a piedi di cacca d'uccelli. "Sognava sempre di alberi" mi disse sua madre 27 anni dopo, nel rievocare i particolari di quel lunedì ingrato. "La settimana prima aveva sognato di andare solo soletto in un aereo di carta stagnola che volava senza mai trovare ostacoli in mezzo ai mandorli" mi disse. Plàcida Linero godeva si una ben meritata fama di sicura interprete dei sogni altrui, a patto che glieli raccontassero a digiuno, ma non aveva riscontarto il minimo segno di malaugurio in quei due sogni di suo figlio, né negli altri sogni con alberi che lui le aveva riferito nei giorni che precedettero la sua morte." (da Cronaca di una morte annunciata


"Dopo il pranzo Roma soccombeva al sopore di agosto. Il sole di mezzogiorno rimaneva immobile al centro del cielo, e nel silenzio delle due del pomeriggio si udiva  solo il rumore dell'acqua, che è la voce naturale di Roma. Ma verso le sette di sera le finestre si aprivano d'improvviso per attrarre l'aria fresca che cominciava a muoversi, e una folla giubilante usciva in strada senza altro proposito che quello di vivere, in mezzo agli scoppi delle motociclette, alle grida dei venditori di anguria e alle canzoni d'amore tra i fiori delle terrazze." ( da La santa -  uno dei Dodici racconti raminghi)


"Un cane cenerognolo con una stella sulla fronte irruppe nei budelli del mercato la prima domenica di dicembre, travolse rivendite di fritture, scompigliò trabacche di indiani e banchetti della lotteria, e passando morse quattro persone che si trovarono sul suo percorso. Tre erano schiavi negri. L'altra fu Sierva Maria de Todos Los Angeles, figlia unica del marchese di Casalduero, che si era recata con una domestica mulatta a comprare una sfilza di sonagli per la festa dei suoi dodici anni." (da Dell'amore e altri demoni)


"Padre Angel non riuscì a mangiare. Dopo l'avviso del coprifuoco si sedette a scrivere una lettera, e rimase curvo sulla scrivania fin dopo mezzanotte, mentre la pioggia sottile andava cancellando il mondo intorno a lui. Scrisse in un modo implacabile, vergando caratteri uguali, con tendenza al perziosismo, e lo faceva con tanta passione che non intingeva la penna se non dopo aver tracciato due parole invisibili, raschiando la carta col pennino asciutto." (da La mala ora)



"Pilar Ternera morì nella poltrona di giunco, in una notte di festa, mentre sorvegliava l'entrata del suo paradiso. D'accordo con la sua ultima volontà, la seppellirono senza bara, seduta nella poltrona che otto uomini calarono con funi in un buco enorme, scavato in mezzo alla pista da ballo. Le mulatte vestite di nero, pallide di pianto, improvvisavano uffici delle tenebre mentre si toglievano gli orecchini, le spille e gli anelli, e li andavano gettando nella fossa, prima che la sigillassero con una lapide senza né nome né date e le collocassero sopra un promontorio di camelie amazzoniche. Dopo aver aver avvelenato gli animali, sbarrarono porte e finestre con mattoni e malta, e si dispersero per il mondo coi loro bauli di legno, tappezzati nell'interno con stampe di santi, cromi di riviste, e ritratti di fidanzati effimeri, remoti e fantastici, che cagavano diamanti, o che si mangiavano i cannibali, o che erano incoronati re di coppe in alto mare."(da Cent'anni di solitudine)


"Lo ricobbi d'improvviso, che passeggiava con sua moglie, Mary Welsh, per il boulevard  Saint-Michel, a Parigi, un giorno della piovosa primavera del 1957. Camminava sul marciapiede opposto in direzione del giardino del Luxembourg, e portava un paio di blue-jeans molto usati, una camicia a quadri scozzesi e un berretto da giocatore di baseball. L'unica cosa che non sembrava sua erano gli occhiali dalla montatura metallica, tondi e minuscoli, che gli davano un'aria da nonno prematuro. Aveva compiuto cinquantanove anni, ed era enorme e troppo visibile, ma non dava l'impressione di forza brutale che sicuramente lui avrebbe desiderato, perché aveva i fianchi stretti e le gambe un po' troppo magre. Sembrava così vivo fra le bancarelle di libri usati e il torrente giovanile della Sorbona che era impossibile immaginare che gli mancassero solo quattro anni per morire.
Per una frazione di secondo - come sempre mi è successo - mi ritrovai diviso fra le mie due tendenze opposte. Non sapevo se fargli un'intervista o se limitarmi ad attraversare la strada per esprimergli la mia ammirazione senza riserve. In entrambi i casi, tuttavia, c'era lo stesso grosso inconveniente: già allora io parlavo lo stesso inglese rudimentale che ho sempre parlato, e non ero troppo sicuro del suo spagnolo da torero. Sicché non feci alcuna delle due cose che avrebbero potuto rovinare quell'istante, ma mi portai le mani intorno alla bocca, come Tarzan nella giungla, e gridai da un marciapiede all'altro: "Maeeeeestro". Ernest Hemingway capì che non poteva esserci un altro maestro fra la folla di studenti, e si girò con la mano in alto, e mi grido in spagnolo con voce un po' puerile: "Ciaoooo, amico". Fu l'unica volta che lo vidi. (.....)" (da Tacquino dei cinque anni 1980-1984)


"Trovammo la casa di Neruda all'ombra dei suoi pini custodi,circondata da tutte e quattro le parti da una cinta di quasi un metro e mezzo di altezza, che il poeta aveva costruito intorno alla sua vita privata. Adesso sono nati fiori sul legno. Una scritta avverte che la casa è sotto sigilli della polizia e che è proibito entrare e prendere fotografie. Il carabinero che passava ogni tanto di lì fu ancora più esplicito: "Qui è proibito tutto". Siccome questo lo sapevamo già prima di arrivare, l'operatore italiano portò un grande equipaggiamento, molto visibile, perché fosse trattenuto apposta dai carabineros e, di nascosto, un altro equipaggiamento portatile. Il gruppo, poi, fu suddiviso in tre automobili, con lo scopo di portare i rollini a Santiago appena venivano filmati, cosicché se fossimo stati scoperti avremmo perso solo il materiale che avremmo avuto in quel momento. In caso di una sorpresa loro avrebbero fatto finta di non conoscermi, e Franqui e io saremmo stati due turisti innocenti." (da Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile)   


"A mezzogiorno del mercoledì l'alba non era ancora trascorsa. E prima delle tre del pomeriggio la notte era già calata, prematura e malaticcia, con lo stesso lento e monotono e spietato ritmo della pioggia nel cortile.  Fu un crepuscolo precoce, dolce e lucubre, che crebbe in mezzo al silenzio dei contadini, i quali si accoccolarono sulle seggiole, contro le pareti, esausti e impotenti dinanzi al turbamento della natura. Fu allora che cominciarono ad arrivare notizie dalla strada. Arrivarono semplicemente, precise, individualizzate, come portate dal fango liquido che scorreva per le vie e trascinava oggetti domestici, cose e cose, macerie e animali morti. Eventi accaduti la domenica, quando la pioggia era ancora l'annuncio di una stagione provvidenziale, tardarono due giorni a essere conosciuti in casa. E il mercoledì le notizie giunsero come sospinte dallo stesso dinamismo interiore della tormenta. Si seppe allora che la chiesa era inondata e che si temeva il suo crollo.   Qualcuno che non aveva motivo di saperlo, disse quella sera: "Il treno non può passare il ponte da lunedì. Sembra che il fiume abbia portato via le rotaie". E si seppe che una donna ammalata era scomparsa dal suo letto ed era stata ritrovata quel pomeriggio mentre galleggiava nel cortile." (da Monologo di Isabel vedendo piovere a Macondo


 "Esaminò il locale con la chiaroveggenza delle sue insonnie, e per la prima volta vide la verità: l'ultimo letto prestato, la toeletta di pietà il cui fosco specchio di pazienza non l'avrebbe più ripetuto, il bacile di porcellana scrostata con l'acqua e l'asciugamano e il sapone per altre mani, la fretta senza cuore dell'orologio ottagonale sfrenato verso l'appuntamento ineluttabile del 17 dicembre all'una e sette minuti del suo pomeriggio ultimo. Allora incrociò le braccia sul petto e cominciò a udire le voci raggianti degli schiavi che cantavano il salve delle sei nei frantoi, e vide dalla finestra il diamante di Venere nel cielo che se ne andava per sempre, le nevi eterne, il rampicante le cui nuove campanule gialle non avrebbe visto fiorire il sabato successivo nella casa sbarrata dal lutto, per gli ultimi fulgori della vita che mai più, per i secoli dei secoli, si sarebbe ripetuta. (da Il generale nel suo labirinto)




Una imperdibile intervista di Giovanni Minoli a Gabriel Garcia Marquez dove il grande romanziere si racconta in modo semplice e completo. L'intervista andò in onda il 16.5.2011, ma fu registrata nel 1987:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7cd7d08e-a147-40ba-8ffb-feadfe69150e.html#p=0








lunedì 14 aprile 2014

MORTE A VENEZIA di Luchino Visconti - a cura di Lino Micciché - Cappelli Editore 1971 - £ 4.000


Sotto il titolo dal soggetto al film, la Casa Editrice Cappelli ha edito negli anni '70 una collana cinematografica diretta da Renzo Renzi (1919-2004), noto scrittore e regista, che ricordo per il delirante fatto di cronaca politico-giudiziaria che lo coinvolse nel 1953, quando, grazie al clima clerico-fascista dell'epoca, insieme a Guido Aristarco fu arrestato e condannato da un Tribunale militare per vilipendio alle forze armate, per aver scritto il soggetto di un film che non fu mai realizzato: L'armata s'agapò. 

Ma di questo e del ricordo che ho  delle scritte fasciste sui muri di Roma, ingiuriose nei confronti di Aristarco e Renzi, ne parlerò in un'altra occasione.

Di questi volumi, preziosi compendi della nascita di un film, ne possiedo alcuni dedicati a Visconti e Fellini, e per chi ama il cinema d'autore sono dei riferimenti irrinunciabili. 

Questo dedicato alla Morte a Venezia di Visconti ha un corposo indice:
  • Visconti e le sue ragioni di Lino Micciché, a cui segue una Bibliografia su Visconti.
  • Mann su "La morte a Venezia", tratto da lettere a Mahler, Weber ed altri corrispondenti, ma anche opere varie, quali il Saggio autobiografico del 1930  nel quale Thomas Mann parla diffusamente di questo suo fondamentale racconto.
  •  Un incontro al magnetofono con Luchino Visconti, dove Lino Miccichè, con le sue domande, scava e analizza ogni aspetto del film, criticando apertamente il regista,  come non ci si aspetterebbe di fronte al mostro sacro Visconti. Qui si apprendono anche le ragioni per cui Aschenbach, che nella novella è un letterato, nella trasposizione  filmica  Visconti lo trasforma in un musicista.
 Seguono altre interviste a:
  •  Nicola Badalucco (sceneggiatore)
  • Franco Mannino (musicista)
  • Mario Gallo Produttore
Quindi la parte più propriamente tecnica, ma anche la più interessante per gli amanti del cinema:
  •  la prima scaletta-trattamento, quindi 
  • la sceneggiatura letteraria, e infine
  • la sceneggatura desunta, quella tratta direttamente dal materiale girato  che non sempre coincide con quanto previsto dalla sceneggiatura letteraria.
L'ultima voce dell'indice riguarda i titoli, con i nomi di tutti coloro che in qualche modo hanno prestato la loro opera nel film.
 La parte centrale del volume è dedicata, come non potrebbe essere altrimenti, alle moltissime fotografie, alcune a doppia pagina, molte a colori, del fotografo di scena Mario Tursi.

Riconoscibile Romolo Valli, l'impeccabile portiere dell'Hotel des Bains


    venerdì 11 aprile 2014

    PERCHE' TANTE VISITE AL BLOG QUEL GIORNO?


    Cosa determina un afflusso di visite al blog così anomalo ? Perché il 6 aprile quel picco straordinario ? Controllando i flussi statistici che Blogger mette a disposizione, non si riesce a comprenderne i motivi. Qualcuno può suggerire un'ipotesi?

    domenica 6 aprile 2014

    TRE VERSIONI A CONFRONTO - Thomas Mann - LA MORTE A VENEZIA -

    Possiedo tre edizioni di La morte a Venezia di Thomas Mann: la prima del 1946 Casa Editrice Bietti - Milano, lire 150 tradotta da Alessandra Scalero, la seconda Nuovi Coralli Einaudi del 1971 £ 5.000 tradotta da Anita Rho, e la terza "Scrittori tradotti da scrittori" L'Unità-Einaudi 1996 tradotta da Paola Capriolo. Mi viene spontaneo metterle a confronto e chiedermi in quale misura ciò che leggiamo in traduzione rappresenta il vero pensiero dell'autore? la sua poetica? il suo stile?

    Quando si parla di traduzione da una lingua all'altra, il primo problema che si pone è quello della fedeltà: ma il concetto di fedeltà riferito alla traduzione è un concetto ambiguo e irrisolto. Fedeltà, ad esempio, non può essere intesa come disambiguazione, cioé rendere chiaro ciò che l'autore vuol lasciare nel vago.

    Partiamo dall'assunto universalmente consolidato che: la fedeltà della traduzione poetica non è né la fedeltà meccanica a tutti gli elementi semantici né l’automatica fedeltà grammaticale né quella fraseologica assoluta né la fedeltà scientifica alla fonetica del testo:  è la fedeltà alla poesia, da: Teoria e storia della traduzione (1963) di Georges Mounin (1910-1993).

    Concludendo la sua bella prefazione nell'edizione Bietti del 1946, il curatore G.M.Boccabianca scrive:

    Mai la parola aveva raggiunto, anche nella tanto vigilata e tanto armoniosa ed espressiva prosa del Mann un così alto valore di evocazione una così germinale innocenza. Il suono nasce come immagine e l'immagine è tono e volume. Soprattutto volume, ché soprattutto plastica è l'intima struttura di questo racconto. Solo alla parola, nella felice esperienza di un grande maestro, è dato di trasfigurare la sua natura fonica e musicale in architettura e statuaria.

    Alla luce di queste considerazioni, che definiscono così precisamente la natura musicale della prosa di Mann, non ha più senso chiedersi in quale misura ciò che leggiamo in traduzione rappresenta fedelmente la melodia che l'autore ha profuso nel testo, ma considerare la traduzione come l'esecuzione di una partitura musicale, godendo delle diverse interpretazioni, esattamente come avviene per la musica.

    Qualche esempio di diverse esecuzioni fra tre edizioni di questo capolavoro assoluto:

    (Versione Alessandra Scalero, Editore Bietti, 1946)

    Chi non è stato assalito da un fuggevole brivido, da un segreto timore e da oppressione nel salire, per la prima volta, o dopo molto tempo, su di una gondola veneziana?

    Le osservazioni e le deduzioni di chi tace in solitudine sono più vaghe e insieme più penetranti di quelle di chi sta in compagnia: i pensieri suoi sono più gravi, strani, e non senza ombra di tristezza. 

    Proprio accanto ad Aschenbach si parlava polacco. Era un gruppo di ragazzi appena cresciuti, sotto la sorveglianza di una istitutrice o dama di compagnia, riunito intorno ad un tavolo di vimini: tre giovani ragazze, apparentemente fra i quindici e i diciassette anni, ed un ragazzo dal lunghi capelli, di forse quattordici anni. Aschenbach notò con stupore che il ragazzo era di una bellezza perfetta.
    Il suo aspetto pallido e graziosamente riservato, inquadrato dai capelli color del miele, dal naso giustamente inclinato, ricordava, per la grazia della bocca, per l'espressione di serena e divina imponenza, una statua greca dell'epoca migliore; ed era per la pura perfezione della forma, personalmente tanto attraente, che Aschenbach non credette potesse rinvenirsi nella natura e nell'arte cosa alcuna più felicemente riuscita. 

    Era il sorriso di Narciso, al quale egli stesso, in seguito al rinfrangersi della sua bellezza medesima nell'acqua, aveva tese le braccia; era un sorriso impercettibilmente contrariato dalla inutilità del suo sforzo di baciare le labbra divine della sua ombra, civettuolo, indiscreto, lievemente tormentato, infatuato e raggiratore.


    (Versione Anita Rho, Einaudi, 1971)

    Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo una lunga dissuetudine su una gondola veneziana?

    Le osservazioni e gli incontri di chi va attorno in silente solitudine sono al tempo stesso più sfumati e più netti di quelli dell'uomo socievole, i suoi pensieri sono più gravi, più bizzarri e mai esenti da un'ombra di tristezza. 

    Li vicino si parlava polacco.
    Era un gruppo di giovani e di appena adolescenti, radunato intorno a un tavolino di vimini sotto la custodia di una istitutrice o dama di compagnia: tre ragazze apparentemente fra i quindici e i diciassette anni, un ragazzo dai lunghi capelli che poteva avere quattordici anni. Con meraviglia Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso, pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca amabile, un'espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così felicemente riuscito.

    Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della propria bellezza - un sorriso un poco contratto dalla vanità dell'aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, piena di civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante.




    (Versione Paola Capriolo, l'Unità-Einaudi, 1991)

    Chi non dovrebbe lottare contro un fuggevole brivido, contro un timore segreto e un senso d'angoscia, salendo per la prima volta o dopo molto tempo su una gondola veneziana?

    Le osservazioni, i casi di chi è solitario e taciturno sono al tempo stesso più sfumati e più incisivi di quelli dell'uomo socievole, i suoi pensieri sono più gravi,  più bizzari e mai privi di un'ombra di tristezza. 

     Vicino a lui si parlava polacco.
     Era un gruppo di adolescenti e giovinetti radunati intorno a un tavolino di vimini sotto la sorveglianza di un'istitutrice o dama di compagnia: tre ragazze, che dimostravano quindici, sedici anni, e un ragazzo dai capelli lunghi forse quattordicenne. Con stupore Aschenbach notò che il ragazzo era di una bellezza assoluta. Il viso, pallido e graziosamente impenetrabile, circondato da capelli inanellati color del miele, con il naso che scendeva diritto, la bocca incantevole, l'espressione di dolce e divina serietà, ricordava le sculture greche del periodo aureo, e nonostante la più rigorosa perfezione della forma aveva un fascino così personale e irripetibile che ad Aschenbach, contemplandolo, parve di non aver mai incontrato nulla di così felicemente riuscito né in natura, né fra le opere d'arte.

    Era il sorriso di Narciso chino sullo specchio dell'acqua, quel sorriso intenso, incantato, ammaliato, con il quale egli tende le braccia verso il riflesso della propria bellezza: un sorriso appena un poco distorto dalla vanità del tentativo di baciare le dolci labbra della sua ombra, civettuolo, curioso e lievemente straziato, sedotto e seducente.

    Luchino Visconti nel 1971 portò il lavoro di Thomas Mann sullo schermo, facendone a sua volta un capolavoro della cinematografia di tutti i tempi. Qui, grazie a youtube, la scena finale:

     https://www.youtube.com/watch?v=4aUoeNp7TC4