martedì 27 dicembre 2011

Bertolt Brecht - GLI AFFARI DEL SIGNOR GIULIO CESARE - Einaudi 1975 - £ 2.000


In questo romanzo storico, purtroppo incompleto e pubblicato postumo nel 1956, per la traduzione di Roberto Bazien, Brecht dimostra come affari e politica siano attività affini e concordanti, intrinsecamente legate e coincidenti. Da sempre.

Solo in un'altra occasione Brecht si era cimentato nella narrativa, Romanzo da tre soldi, una trasposizione dalla più nota opera teatrale. Questo romanzo, invece, tratta un personaggio ed un periodo mai affrontati da Brecht sulla scena: Giulio Cesare.

Certo, non l'apologia del geniale condottiero, l'eroico conquistatore delle Gallie, il legislatore, l'amante di Cleopatra, nè il grande oratore o il brillante storico e narratore, che si guadagnò l'ammirazione di Cicerone e Svetonio, ma l'uomo che per raggiungere i suoi scopi non si faceva scrupolo di ricorrere a intrighi e corruzione, come d'altronde accadeva normalmente nel senato e in tutto il mondo politico-affaristico romano.

Il libro è bene articolato. Uno storico di età imperiale, intenzionato a scrivere una biografia di Giulio Cesare, acquista da Mumlio Spicro, ex ufficiale giudiziario e banchiere, che era stato amico di Cesare, i diari di Raro che al servizio di Cesare, si occupava delle sue questioni finanziarie, (sopratutto tenere a bada i numerosi creditori!).

Il ritratto che ne esce è quello di una Roma più complensibile di quella che si studia sui banchi di scuola, più vicina al mondo reale, dove i rapporti di forza esprimono le autentiche differenze sociali che la determinano. Ad esempio, la nostra conoscenza di Catilina attraverso le orazioni di Cicerone, non ci fanno chiarezza sulla situazione economica del periodo, sulle istanze populiste che Catilina esprimeva, sulla presa che queste avevano sul popolo, sulle difficoltà economiche che il popolo romano incontrava a causa della massiccia presenza di schiavi, mano d'opera a costo zero in mano a latifondisti che strangolavano i piccoli produttori. In questo contesto, C. (come viene sempre definito Cesare nei diari di Raro) può scegliere la sua politica più comveniente.

19.8
Per evitare di dare inutilmente nell'occhio, gli schiavi che Pompeo manda dall'Asia, vengono condotti di solito in città nelle prime ore del mattino per la vendita all'asta. Oggi ho visto una processione di questa gente. Circa 2000 scendevano zoccolando dalla Suburra, in uno stato pietoso, con calzature troppo leggere per il nostro pessimo selciato. Malgrado l'ora mattutina mi trovai circondato da piccoli bottegai e da disoccupati (i primi si mettono al lavoro molto presto per risprmiare la luce, i secondi vanno al mercato molto prsto in cerca di rifiuti a buon prezzo). Tutti guardavano cupi la lunga processione: Sapevano che ognuno di questi schiavi significava un posto di meno o un cliente di meno.

2.9
Gia da due settimane avevo inteso parlare qua e là di Catilina, ma ora improvvisamente non si parla d'altro. Vengo a sapere che ha tenuto un comizio nel terzo distretto, dove pare abbia parlato tra applausi entusiastici, contro i profittatori e gli speculatori. Egli esige che non soltanto il Senato e la city, ma anche il più infimo cittadino romano abbia la sua parte del bottino fatto in Asia. (.....)

10.9
La fuga di capitali assume proporzioni sempre maggiori. Il tasso d'interesse è salito dal 6 per cento al 10 per cento. Dunque nella city hanno già paura di Catilina! Pomponio Celere "pellami e cuoi", disse però qualcosa di molto notevole: "Forse la city fa sparire i capitali perché si abbia paura di Catilina".
Abbiamo discusso un'ora intera su questa frase.


Una lettura istruttiva e divertente. Peccato che Brecht non sia vissuto abbastanza per completare l'opera.


venerdì 23 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - IL DIAVOLO AL PONTELUNGO -Mondadori 1957 - £ 1.600


Questo squinternato volume della collana mondadoriana dei Narratori Italiani n.42 uscì nel 1957, per dare un'idea della lontananza di quella data, basti pensare che in quell'anno iniziarono le trasmissioni di Carosello, sei paesi firmarono il Trattato di Roma per far nascere l'Unione Europea, uscì la prima Fiat 500, Jack Kerouac pubblicò On the road e in Italia Feltrinelli diede alle stampe Il dottor Zivago.

Il diavolo al Pontelungo, naturalmente, non era una novità editoriale, era già stato pubblicato nel 1927, anno particolarmente ricco per la letteratura: nello stesso anno uscirono infatti America di Kafka, Gita al faro della Woolf e il Tempo ritrovato con cui Proust chiudeva la sua recerche.

Il romanzo uscì dunque nel '27 per i tipi dell'editore Ceschina di Milano, ma Bacchelli continuò a metterci le mani, sicché la versione definitiva la si può considerare questa del 1957 a cui seguirà, nel 1965, una edizione economica negli Oscar.


Questo romanzo storico di Bacchelli, definito da molti critici una delle opere più felici e più fortunate del romanziere, tratta dell'amicizia prima e della rottura poi tra l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin (1814-1876) e l'anarchico Carlo Cafiero (1846-1892), nonché del primo tentativo di far scoccare la scintilla della rivoluzione a Bologna per poi estenderla in tutta Italia.

Bakunin è una figura affascinante nel panorama ottocentesco, partecipa nel 1949 all'insurrezione di Dresda - gli fu compagno tra gli altri Wagner - arrestato e condannato a morte, pena commutata in carcere a vita, dopo il trasferimento in Russia la sua pena fu ancora commutata in esilio in Siberia, da dove fuggì nel 1861.

Ecco come magistralmente ce lo descrive Bacchelli:

Michele Alessandrovic Bakùnin sfiorava due metri di statura, e la sagoma dell'uomo era ampia e possente in pari proporzioni. La barba gli scorreva sul petto larga e appuntita, morbida, ondulata e brizzolata come i capelli che gli facevano una raggiera folta dietro la nuca. La fronte era larga e un po' sfuggente, fronte di fantastico e di sensuale; il naso era vivo e la bocca carnale. Lo sguardo era azzurro come l'illusione e trasparente come la logica assurda; le palpebre gravavano un poco, come quelle dei pigri e degli assonnati, sull'occhio. Questo era acuto, interrogativo, pronto sugli oggetti e sull'interlocutore, oppure vago e perso in un lieve sorriso estatico, indirizzato a tutto o a niente. Queste due espressioni di estrema petulanza e di estrema indolenza si inseguivano sul viso di Bakùnin a distanza di momenti, a volte accompagnando e a volte contraddicendo le parole e le azioni di quel che stava facendo e dicendo.
Carlo Cafiero, l'anarchico pugliese, ecco come ce lo presenta Bacchelli:

Carlo Cafiero, di fronte allo slavo rumoroso e massiccio, era tutt'altra figura fisica e morale. Egi era spinto ad agire dalla testa, e la testa esaltata non lascia requie, nè svago, nè sanità. Era di media statura, abbottonato e scialbo nel modo di vestire quanto Bakunin era libero, sciolto e colorito nel suo. Capelli e barba aveva lisci, uniti e ravviati; era un uomo gracile e composto, un'astratta e nervosa figura d'italiano e di meridionale. L'inquietudine che suscitava lo scioperato Bakunin era un elemento di simpatia umana, la stima che destava Cafiero era causa di freddezza. Asciutto, taciturno, severo, aveva nelle dita qualcosa che non voleva mai star fermo. E fregava spesso i gomiti sul fianco, stropicciando fra le dita, come per strapparli, maniche e bavero della giacca. Questi gesti divenivano nella contrarietà veri accessi nervosi, e allora lo sguardo, miope dietro gli spessi occhiali a stanghetta da studioso, cresceva una sua fissità assente e penosa. Il naso era bonario, la bocca arida, la fronte appuntita di testardo e di mistico. Al solo vederlo si scorgeva l'uomo scrupoloso e sottile, e su tutta la persona un segno, un'ombra di destino funesto e smarrito.
L'insurrezione di Bologna, che avrebbe dovuto essere la scintilla capace di scatenare la rivoluzione in Italia, fallì miseramente perché all'appuntamento con la storia si presentarono solo duecento rivoluzionari anziché i mille previsti, male organizzati, peggio armati, senza nessun coordinamento tra i vari gruppi, regolarmente ostili tra loro: caratteristiche queste peculiari sia della sinistra di tutti i tempi, che degli italiani in genere.

Le ali ardenti e temerarie dell'utopia erano cadute come ali da teatro, e Bakùnin si destò sereno e curioso del mondo. Era una curiosità pacifica, di ogni e qualsiasi oggetto. Per quanto gli paresse di aver da apprendere tutto, cioè quel che in sessant'anni aveva ignorato o visto di straforo coll'occhio dell'arbitrio e dell'idea fissa; tutto il vasto mondo, le tantissime cose, ora che di vita gli restavano mesi più che anni, non gli facevan fretta, non erano una ricchezza da dilapidare per timor d'essere tardi a godere. Il mondo era una ricchezza sua e senza fondo, tranquilla, inconsumabile.
A distanza di tempo dalla sua apparizione, il romanzo non ha perso nulla della sua attrattiva e del suo fascino, e si legge con piacere, pervaso com'è da bonaria saggezza e garbata ironia.

venerdì 16 dicembre 2011

COLAZIONE DA TIFFANY di Truman Capote








Devo alla lodevole iniziativa del giornale “La Repubblica”, che nella collana La Biblioteca del Novecento ha edito alcuni romanzi che altrimenti, forse, non avrei mai letto, l’incontro con Colazione da Tiffany di Truman Capote. Certo, la lettura è in parte disturbata dalla continua comparazione che, anche involontariamente, viene da fare con quel vero cult-movie che è il film con Audrey Hepburn, ma il romanzo funziona benissimo da solo, senza l’ingombrante riferimento Avevo conosciuto Truman Capote per un romanzo sconvolgente degli anni ‘60, A sangue freddo, la ricostruzione, niente affatto romanzata, di un fatto di sangue accaduto qualche anno prima, in una provincia americana del middle west.

In Colazione da Tiffany(1959) Capote, come gli altri scrittori della beat-generation, coglie lo spirito del tempo e sembra proporre una filosofia di vita capace di convertire i modelli severi della morale puritana in pura pratica della gioia, della leggerezza, della vitalità.

Il cinema americano, le grandi case di produzione, le major, sembrano non possedere la forza per
presentare una realtà che non sia banalmente consolatoria e ottimistica, e così condanna Colazione da Tiffany ad essere solo una deliziosa commedia brillante dell'american life, cioè il trionfo del conformismo contro lo spirito del romanzo.

domenica 11 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - UNA PASSIONE CONIUGALE - BMM n.483 - 1963- £ 350




Fate una prova: chiedete a un giovane se conosce Bacchelli. Nella migliore delle ipotesi vi dirà che è l'estensore di una legge che porta il suo nome, finalizzata ad aiutare artisti indigenti.

I più informati ricorderanno il suo monumentale Mulino del Po, romanzo scritto alla fine degli anni 30 del secolo scorso e grandioso sceneggiato televisivo del 1963 del maestro del genere Sandro Bolchi.

Ho sempre considerato Bacchelli alla stessa stregua di Manzoni, cioé un grande romanziere, come notoriamente non ne abbiamo in Italia, e ho trovato lo stesso giudizio espresso da Montanelli, nella prefazione a una vecchia edizione del Mulino del Po.

In questo intenso romanzo, Una passione coniugale, che ho riletto dopo tanti anni, ho ritrovato tutti gli elementi che me lo fecero amare nel lontano 1963, quando lo lessi in questa terza edizione: l'elegante scrittura, la complessa analisi psicologica dei personaggi, la modernità con la quale l'autore tratta un tema caro alla grande letteratura romantica, il rapporto tra l'amore e la morte.

Per dare un'idea di questo denso romanzo, ecco un brano che, per chi ha qualche dimestichezza con Proust, non faticherà a trovare alcune affinità:


Giulia era arrivata a Olmèdolo assai stanca, e aveva fatto una sana e bella dormita. Più lunga quella di Giorgio, che dormiva ancora quando Giulia appoggiata la testa sul palmo della mano destra, si mise sul fianco a guardarlo, pensando pigramente e contenta alla dolcezza del letto ritrovato dopo quei parecchi giorni di letti d'albergo. Non basta, rifletteva, che un letto sia buono, nè troppo cedevole nè troppo duro, e uguale e di giusta ampiezza. Bisogna, come la camera, che sia diventato nostro e cògnito, foggiato e penetrato di quelle innumerevoli impronte personali, che si fanno percepire dai sensi quando mancano e che lo spirito non degna di riconoscere se non quando, dopo che uno sia partito o sia morto, all'entrare nelle sue stanze intime ci s'accorge con dolore com'erano sue e come restano animate da lui.
L'amore che lega i due sposi si colora, fin dalle prime pagine, di una vena drammatica quando viene diagnosticato a Giulia una leucemia che non lascia alcuna speranza. L'amore, già intenso che li lega, privato della prospettiva del futuro, diviene assoluto, disperato, morboso: gli sposi si isolano completamente per dedicarsi solo al loro rapporto, destinato a interrompersi con la morte.

Giulia controlla le modificazioni che la malattia compie sul suo corpo:

Dimenticando nel timore l'oggetto del suo timore, si buttò com'era fuori del letto, e andò a scostare la tenda davanti a uno di quegli specchi che dal tempo della sua malattia teneva sempre coperti. Lo specchio le rifletteva addosso la luce, approfondendogliela attorno, e facendo splendere i margini e le linee esterne del suo corpo. Com'era bella! Sorta in piedi aveva ritrovato lo splendore fermo della sua gioventù, che il sonno aveva ammollito. Nello specchio molato, dalla luce chiara e profonda, apparivano, quasi in una limpida acqua di gemma, le parti più donnesche del corpo di lei, che gli volgeva le spalle, dalle ombrose ascelle e dal collo, che proteso verso lo specchio spiccava agile e fresco, fino alla dolcezza arrendevole e vigorosa delle ginocchia lucide e rotonde. Lo specchio incastonava il viso come una gemma: Lei non guardava Giorgio nello specchio, nè la propria bellezza, ma levando le braccia graziose, fatte esili dalla malattia tanto da dare una stretta al cuore indicibile, non meno belle, allontanava con una mano i capelli scomposti, ala nera sulla sua fronte ben fatta e nobilmente, e con l'altra scostava fra due dita le labbra e le palpebre in quel gesto di paura puerile che le era diventato abituale da quando spesso s'era data a spiare sulle gengive e dentro le palpebre i progressi del suo funebre pallore.

I personaggi di questo indimenticabile romanzo, sono resi con una vividezza esemplare, il loro travaglio psicologico di fronte all'incombente tragedia è raccontato con la semplicità che è solo dei grandi classici.

giovedì 24 novembre 2011

IL SAPER VIVERE DI DONNA LETIZIA - Mondadori - I^ Edizione Settembre 1960

Frugando in uno scatolone di libri, ho ritrovato questo delizioso galateo moderno, frutto dell'ironica dispensatrice di consigli Donna Letizia al secolo Colette Rosselli, che dalle pagine di Grazia teneva la fortunata rubrica con lo stesso titolo.

Conoscevo già Donna Letizia, prima ancora dell'uscita del volume in questione, perché negli anni '60, quando lavoravo al magazzino Mondadori di Roma, ricevevo ogni sabato, insieme agli altri colleghi, una copia di tutti i periodici Mondadori, tra cui Grazia.

In casa leggevamo con vero divertimento le argute risposte che Donna Letizia dava alle sue lettrici che settimanalmente le sottoponevano i loro problemi domestici ma anche esistenziali.

Anche questo galateo è scritto con divertita ironia, ma in questo caso manca l'elemento imprevedibile, costituito dalla voce delle sprovvedute lettrici di Grazia in cerca di soluzioni ai loro problemi.

Dopo tanti anni ricordo ancora la sconcertante lettera di una signora che raccontava di essere stata con il marito a cena da conoscenti e di aver visto, nel bagno di cui si era servita, l'insata a bagno nell'acqua del bidet (!). Quando a tavola servirono l'insalata, la signora in questione fece di tutto per impedire al marito di mangiarne e, alle rimostranze del marito stesso e degli ospiti, rivelò di averla vista a bagno nel bidet. La padrona di casa ne rise e disse che quel bidet non era utilizzato e trovava normale avervi messo a bagno l'insalata. La cena comunque finì nella freddezza generale. La lettrice chiedeva conferma a Donna Letizia sulla correttezza del proprio operato.

Il libro è un vero manuale per apprendiste signore, su come vestire in ogni occasione mondana, come comportarsi in società, ma anche in tutte le occasioni pubbliche, come vestire, come ricevere, come disporre gli invitati, in casa, in vacanza in ogni occasione; come scrivere un biglietto di invito, come ringraziare per un invito ricevuto, come salutare, come presentare una persona ad un'altra e poi a tavola, le posate.... Proprio l'Abc del vivere tra persone civili.

Mentre negli anni '60 è stato di qualche utilità, oggi a parte la leggera ironia che lo attraversa e che rende la lettura divertente, è decisamente superato dalla disinvolta cafonaggine che distingue i rapporti sociali.

Le ironiche illustrazioni sono della stessa Colette Rosselli, raffinata illustratrice editoriale con all'attivo molti deliziosi libri per bambini.

Ancora disponibile nel mercato dell'usato :


lunedì 21 novembre 2011

Giuseppe Dessì - PAESE D'OMBRE - Mondadori 1972


Chi frequenta questo blog avrà certamente notato che gli autori dei libri di cui parlo non fanno bella mostra di se, con decine di copie, nelle vetrine delle librerie né sui banconi centrali, dove sono concentrati i libri che vanno di moda al momento.

Di solito pésco nella libreria personale o negli scatoloni pieni di vecchi libri che mi sono stati affidati, per ragioni di spazio, da un fratello inguaribile bibliofilo.

Questo Paese d'ombre di Giuseppe Dessì, dunque, non fa eccezione.

Qualche considerazione generale.

A questo grande narratore sono intestate piazze, scuole, biblioteche e un importante premio letterario, ma dubito seriamente che sia letto dalle giovani generazioni, che è l'unico vero modo di onorare uno scrittore.

Come accade anche per i grandi classici, quelli a cavallo tra '800 e '900, li si onora ufficialmente e li si ignora nella pratica: nessuna ristampa, nessuno studio critico recente, né tesi di laurea, né recensioni.

Fortunatamente in favore della diffusione delle opere di Dessì, opera la casa editrice Illiso con le edizioni Bibliotheca Sarda che recentemente ne ha ristampato, in piccoli maneggevoli ed eleganti volumetti, tutta l'opera. Va anche ricordata l'opera della professoressa Anna Dolfi, docente di italianistica moderna e contemporanea all'Università di Firenze, che ha scritto essenziali prefazioni e introduzioni ad alcune opere di Dessì, ma anche saggi critici sulla sua poetica.

Giuseppe Dessì (1909-1977) per molto tempo riesce a conciliare la sua attività di insegnante prima e poi di Provveditore agli studi in varie città italiane, alla vera è propria sua natura che era il mestiere di scrivere, pubblicando dal 1939 al 1978 romanzi, racconti e opere teatrali.

Questo Paese d'ombre è un romanzo nel senso classico del termine, da alcuni definito tolstoiano per l'impianto storico e per lo sviluppo dei personaggi, che sono vivi e vitali, e le cui vicende narrate coinvolgono fin dalle prime pagine. Seguiamo l'avventurosa vita di Angelo Uras, nella Sardegna di inizi secolo, da povero fanciullo orfano, a ricco proprietario terriero, patriarca, geloso custode del patrimonio boschivo della sua terra, attraverso il periglioso percorso classico di tutti gli eroi della letteratura.

Mi ha colpito nella lettura di questo romanzo lo stretto rapporto che lega l'elemento umano al paesaggio naturale, e che Dessì descrive così bene:

Il ragazzo camminava nell'oliveto silenzioso, e camminando contava gli olivi. A vederli dalla strada, sembravano tutti uguali; ora invece, per la prima volta, si accorgeva che erano diversi: avevano ognuno una fisionomia particolare, come persone. Se guardi da lontano la gente che affolla una piazza, o una processione che ti viene incontro, ti sembra che tutte le persone siano uguali: se invece ci vai in mezzo ti accorgi che si assomigliano, ma nella somiglianza sono diverse. Così era anche per quegli alberi di cui percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano.


Premio Strega 1972, con un'ampia e insolita larghezza di consensi, Paese d'ombre si colloca di diritto tra i grandi romanzi classici italiani del '900.

sabato 12 novembre 2011

Ennio Flaiano - UN BEL GIORNO DI LIBERTA' - Rizzoli 1979 - £ 16.000




L'allusivo titolo di questo bel libro di Flaiano è una raccolta di articoli scritti per Risorgimento liberale (1944-1945), che raccontano, con l'occhio del grande giornalista, le macerie materiali e morali lasciate dalla fine della guerra. Ma il volume raccoglie anche altri articoli pubblicati su quotidiani e riviste dal 1941 al 1948.

Nella prefazione di Emma Giammattei, indispensabile lettura per inquadrare filologicamente questi scritti nell'opera complessiva di Flaiano, viene espressa una verità tautologica che sembra attualissima:

...l'eccessiva speranza è già disperazione: quanto più verticale e metastorica è l'immagine della libertà, così come Flaiano la elabora, tanto più ridotta sarà per forza la sua proiezione sull'accidentato terreno della storia.....


Una lettura istruttiva per tutti noi, proprio oggi che, liberati da un regime volgare, desideriamo essere traghettati nel radioso futuro cui crediamo di aver diritto, senza pagare l'obolo.

mercoledì 2 novembre 2011

Alfredo Panzini SANTIPPE - BMM 1954 - £ 250









Alfredo Panzini: ecco un altro autore dimenticato, anzi vittima di una vera e propria epurazione culturale, su cui ancora pesano i giudizi negativi di Croce, Gramsci, Piero Gobetti e altri; per contro ci sono giudizi positivi e alcuni decisamente entusiastici per la figura e l'opera di Panzini.

Qualche dato biografico per inquadrarlo storicamente: nato l'ultimo giorno del 1863 a Senigallia, ma riminese per origine familiare e scelta, fu allievo del Carducci all'Università di Bologna, ebbe la sfortuna di essere contemporaneo dei tre grandi poeti dell'epoca: Carducci, Pascoli, e D'Annunzio, e per questo, nella storia della letteratura italiana tra '800 e '900, viene definito minore.

Croce sostiene che Panzini, per compiacere il grosso pubblico ignorante, ha rinunziato alla sua vena di poeta e artista genuino degli affetti domestici, per adottare uno stile ripetitivo e artificioso.

Gramsci sprezzante, relega Panzini tra i nipotini di padre Bresciani, con riferimento alla corrente letteraria antidemocratica e reazionaria che prende il nome dal gesuita Giovanni Bresciani, che si distingue per il paternalismo ipocrita verso le masse e la devozione verso l'ordine costituito.

Piero Gobetti accusa addirittura Panzini di aver contribuito con le sue opere scritte dopo il 1918 - complice il suo editore Treves e i compiacenti critici - al decadimento morale e civile della letteratura italiana, attraverso un lento e inesorabile assorbimento della letteratura alle leggi di mercato.

Bella e articolata l'analisi che Carlo Bo traccia di Panzini, sviluppandola in comparazione con il coetaneo D'Annunzio, che rappresenta le aspirazioni più alte, mentre Panzini finisce per apparire come un dio più umile ma anche più adatto alla nostra misura. Inoltre Panzini ha aiutato molti giovani a non perdere il senso delle proporzioni e sopratutto a non disprezzare il metro della realtà e delle cose.

Per Emilio Cecchi Panzini rappresenta la risposta, seppure rassegnata e disincantata dell'antico ideale umanistico, oramai preso d'assalto dalla prepotenza e dalla volgarità della corrente dannunziana.

Per Giuseppe Prezzolini la più grande virtù di Panzini è l'identità tra opera e vita, per cui alla incessante tensione stilistica ne corrisponde una morale che lo fa tendere verso un'esistenza seria, serena, alta.

Interessante il pensiero di Panzini, Accademico d'Italia, sul problema dei neologismi, imposti dal regime fascista, in sostituzione di parole straniere entrate nell'uso comune. Scrive Panzini in una relazione all'Accademia d'Italia:


Si tratta di vedere fino dove e come si può dare cittadinanza italiana a quelle parole che non possono essere spulse. Per esempio: taxi. Ojetti in un suo scritto propose di scrivere tassì, due ss e l'accento. E va bene! Sport, tram, stop auto, film ecc. possono essere accolte ed è inutile usare il corsivo e l's per farne il plurale. Queste parolette brevi faranno per lo meno da contrappeso a certi neologismi orrendamente lunghi e aspri di nostra speciale produzione.
Ma torniamo alla nostra Santippe. Questa la premessa di Panzini al romanzo, con la sua prosa classica:


A CHI LEGGERA'
Questo piccolo romanzo non è stato scritto per gli eruditi, benché parli della Grecia; e sebbene parli di un filosofo, non è stato scritto per i filosofi.

Si intitola bensì con il nome di Santippe, un nome di donna vituperata nei secoli; e si potrebbe pensare che l'autore avesse avuto in mente di servirsi di Santippe, moglie di Socrate, come di un laido pupazzo per ripetere vecchie e sgarbate cose contro le donne: le quali cose, anche se fossero verità, sarebbero pur sempre verità maschili, a cui è lecito opporre altre verità femminili. E poi quale irriverenza è mai questa di dir male della donna che è l'anfora della vita?

No, il libro non ha questo scopo; forse non ha scopo nessuno; è venuto al mondo, così, come noi veniamo al mondo, senza scopo.

La sua prima pubblicazione è stata nella Nuova Antologia (1914). Ed è, come si vede, un piccolo, modesto libro.

Però, se pure essendo tale, se pure essendo breve, non si ripeterà di lui la brutta lode, si legge tutto d'un fiato: se molte cose che comunemente si credono serie, faranno sorridere; e molte altre cose ritenute ridicole indurranno ad alcuna meditazione, il piccolo libro crederà non del tutto inutile la sua venuta al mondo. Anzi crederà di essere anche lui venuto al mondo per amare e servire Iddio.


Il Socrate che disegna Panzini non è quello della tradizione classica, ma un uomo anziano che alle prese con le difficoltà della vita - e un rapporto familiare faticoso - risponde con bonaria ironia, quasi un alter-ego dell'ironico e bonario Panzini.

martedì 1 novembre 2011

Oreste del Buono - DELITTI PER UN ANNO - Rizzoli 1975 - £ 3.500


La forte immagine di copertina, carica di ironia, è di John Alcorn, un graphic designer newyorkese stabilitosi negli anni '70 a Firenze, molto noto per aver lavorato per l'editoria, la pubblicità e il cinema, ricordiamo il manifesto per l'Amarcord di Fellini.

In questi venti brevi racconti noire, che Oreste del Buono dedica a Vittorio De Sica, il linguaggio è quello brusco della narrativa poliziesca americana, mentre l'ambientazione ruota nel mondo del cinema italiano. Storie atroci e struggenti, dove tutti i personaggi sono vittime e assassini.

Libro insolito, disperato per il panorama umano che rappresenta, dove non c'è spazio per la pietas.

Ma la maggior desolazione era quella della nudità. Mai la nudità è la nudità della prima volta, le prime esitazioni, i primi stupori, le prime incertezze non possono tornare con la stessa intensità, perché mai quanto si desidera risulta come lo si desiderava, l'amore, la conquista, la resa, la perdizione, e si passa da una delusione a un'altra, dalla speranza allo sceticismo, dall'attesa allo sconforto, e si comincia a sospettare che la speranza sia stata lo sbaglio, l'attesa sia stata l'errore, che a non andare sia stato proprio il desiderio in sé e per sé, così intenso da far soffrire. Soffrire chi? Soffrire perché? Soffrire che? Sul fatto che non la desiderava per niente, al punto in cui erano arrivati, lui non aveva dubbi, non il minimo, infimo dubbio, non la desiderava per niente. E niente ancora.

Non un libro leggero, di storie gialle, ma un libro duro, costruito con un linguaggio intenso, che si legge tutto d'un fiato.

giovedì 27 ottobre 2011

Alfredo Oriani - LA DISFATTA - BMM 1953 - £ 300






Alfredo Oriani, chi era costui? E' questa una domanda legittima per uno scrittore nato nel 1852 e vissuto fino al 1909. Nato da una famiglia della piccola aristocrazia di campagna, frequentò a Roma la facoltà di Legge, poi visse l'intera esistenza nella Villa del Cardello - di proprietà della famiglia - a Casolia Valsenio, in provincia di Ravenna.

La sua attività letteraria, pur spaziando dal romanzo al saggio di carattere storico e politico, da testi teatrali ad articoli di giornale, non ebbe grande considerazione dalla critica dell'epoca, fino a quando, a fascismo solidamente consolidato, Mussolini non curò personalmente la pubblicazione dell'opera omnia in 30 volumi, trasformando la sua figura in un precursore dell'ideale fascista e inventandosi nel 1924 una marcia sul Cardello per onorarne la memoria.

Scrive Benedetto Croce nel 3° vol. di Letteratura della Nuova Italia: (pag.238)
Gran parte dei suoi sogni e dei suoi ideali, di quel che v'ha di più nobile, di delicato, di tenero, l'Oriani ha messo nel romanzo La disfatta, forse il più ricco d'idee che abbia la contemporanea letteratura italiana

Mentre dai quaderni del carcere Gramsci scrive:

Alfredo Oriani. Occorre studiarlo come il rappresentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione.
e, riferendosi all'appropriazione del fascismo della figura dell'Oriani, argutamente annota:

La fortuna di Oriani in questi ultimi tempi è più un'imbalsamazione funeraria che un'esaltazione di nuova vita del suo pensiero.
Il romanzo ha accenti di verismo impressionante, come nella descrizione dell'agonia che precede la morte del bambino, figlio tardivo dell'anziano professore De Nittis e di Bice, sua allieva e in seguito moglie.

Di notevole interesse, oltre che il linguaggio colto, la descrizione di ambienti, situazioni, rapporti umani, legati ad un mondo, idealizzato dall'Oriani sopratutto nelle figure femminili, ma che sucita in noi "moderni" un senso di nostalgia, come per un paradiso perduto.

mercoledì 19 ottobre 2011

Oreste Del Buono - UN INTERO MINUTO - Feltrinelli 1959 - £ 300


Oreste Del Buono (1923-2003) è stato un intellettuale poliedrico, che si è occupato di molti generi della comunicazione: giornalismo, fumetti, narrativa, pubblicità, direzione di collane editoriali, critica letteraria, autore radiofonico e televisivo, traduttore, sopratutto dal francese; come editor di numerose case editrici, ha fatto conoscere autori italiani e stranieri.

Queste molteplici attività non possono far dimenticare che Oreste Del Buono, nel panorama letterario del novecento, è stato un riferimento importante, facendo parte, anche se marginalmente, del Gruppo 63, che si poneva l'obiettivo di sperimentare nuove forme espressive, che facessero uscire la narrativa italiana dai logori schemi neorealistici.

In questo romanzo del 1959, Oreste Del Buono sceglie di far raccontare la storia della relazione tra Dino e Grazia allo stesso protagonista che, in un continuo serrato e acceso dialogo con se stesso, alterna il tempo presente che sta vivendo, con avvenimenti accaduti nel passato.

Interessanti le considerazioni che se ne ricavano sul mestiere di scrivere:

(...) La narrazione è tutta convenzioni: i personaggi, a esempio, già, i personaggi: si sa perfettamente, sappiamo tutti che l'unico personaggio che conti è l'autore (...)
In alcuni momenti la narrazione ricorda - punteggiatura a parte - il soliloquio di Molly Bloom nell'Ulisse di Joyce, questo è un esempio di un "lunghissimo" periodo:

Un uomo può vivere senza abbandono, mi dissi, certo, dovremmo intenderci sul significato di questa parola: vivere, ma lo sai benissimo, lo sai da sempre che un uomo può vivere anche senza abbandono, da sempre?, beh, da quando ho cominciato a guardare e ad ascoltare, a capire, a capire cosa? non si capisce nulla, io, almeno, non capisco nulla, e gli altri?, sono faccende loro, ma perché dovrebbero capire qualcosa?, tranne che tutto è incomprensibile, beh, questo lo capisco anch'io, io che non sono capace di abbandono, io che mi guardo, io che mi ascolto e non mi capisco, e, in definitiva, non sono neppure capace di prendermela, per questo: m'era restata quest'illusione, la più pericolosa: quello di poter essere, nonostante tutto, felice un giorno o l'altro, senza diritti e senza meriti: sotto la cenere, tanta cenere, covava la scintilla, così possono passare anni e anni, ma, se è restata sotto una scintilla, questa continua a palpitare, è pronta a divampare, attende solo il suo attimo, e l'ho lasciata finalmente divampare, l'ho fatta divampare: fatta, capito?, so perfettamente che questa storia non si regge troppo in piedi, che non può reggersi troppo in piedi: il mio personaggio inventato, il marito e padre infedele, il suo personaggio inventato, la ragazza scervellata e impulsiva, la nostra storia inventata, (.....)

L'impressione amara che se ne ricava, è una visione della vita pessimistica, dove nenche l'amore riscatta dalla solitudine a cui l'uomo è condannato, perché l'amore che fingiamo di provare per gli altri, serve solo a rafforzare l'amore per noi stessi.

martedì 18 ottobre 2011

Edmond Rostand - CIRANO DI BERGERAC Casa Editrice Bietti Milano - 1949


Il mio incontro con il "Cyrano de Bergerac" è avvenuto nella lontana adolescenza, nella classica versione di Mario Giobbe, i cui versi martelliani, ancora si aggirano nella memoria a rammentarmene la bellezza.


Rossana
Io vi parlo di fatti, da vera altezza!
Cirano
Certo, e mi uccidereste, se da codesta altura sul mio cor vi sfuggisse una parola dura!

Mario Giobbe, napoletano, a cui dobbiamo questa musicale traduzione del 1898, è stato giornalista, poeta, traduttore di classici, drammaturgo, notevole il suo Mefistofele da Goethe, in cinque atti ancora in versi martelliani, con prefazione di B.Croce.


Mario Giobbe soffriva di depressione, il suo rapporto con la realtà divenne sempre più incerta tanto da fargli prospettare la morte come unica soluzione alla sua sofferenza. Si tolse infatti la vita il 12 ottobre 1906.

Ma torniamo a Cyrano, eroe romantico e moderno insieme, nemico giurato della mediocrità e della convenienza, pronto a battersi contro cento avversari per difendere la sua libertà di giudizio ... e il suo pennacchio.

Il cinema si è spesso occupato di questo eroe. Io sono rimasto fedele alla versione di Michael Gordon del 1950, con uno strepitoso Josè Ferrer che per questa interpretazione vinse un Oscar. Altri che si sono cimentati con questa figura sono Gino Cervi, in teatro e in cinema, Modugno con una brillante commedia musicale, e poi in una canzone di Guccini e in una di Vecchioni, torna l'eroe a dimostrazione della sua attualità.

Certo, il testo teatrale in versi non è, non può essere, poesia tout court, condizionato com'è dalla sua stessa struttura narrativa, ma assicuro che la lettura, che ancora mi commuove e che consiglio vivamente, procura un grandissimo piacere.



giovedì 13 ottobre 2011

Natalia Ginzburg - LESSICO FAMIGLIARE - Einaudi 1963
















Natalia Ginzburg (1916-1991)




- Non fate malagrazie!
- Voialtri non sapete stare a tavola. Non siete gente da portare
nei loghi.
- Non fate brodegazzi! Non fate potacci!
- Sempiezze!
- Non fate negrigure!

Questi i coloriti rimbrotti che l'austero prof. Giuseppe Levi
rivolgeva ai suoi cunque turbolenti figli, quando questi si
comportavano in modo giudicato inadeguato.

La periodica rilettura di questo splendido romanzo- ma anche
biografia di una grande famiglia italiana -divertendomi, mi riempie ogni volta anche di una grande malinconia, per quel mondo scomparso.

Nella casa di Torino dove viveva la famiglia Levi, la figura del professore, scienziato e direttore dell'Istituto di Anatomia Umana, giganteggiava e si imponeva in tutti i sensi, con austera severità, con il suo lessico estroso e colorito.

- Cos'ha Terni con Mario e Paola da ciuciottare? - diceva mio padre a mia madre. - Stanno sempre li in un angolo a ciuciottare. Cosa sono tutti questi fufignezzi?
I fufignezzi erano, per mio padre, i segreti: e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano.
- Parleranno di Proust, - gli diceva mia madre.
Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l'asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza.
Disse mio padre:
- Doveva essere un tanghero.
Antifascisti più per inclinazione morale che per scelta politica, ospitarono Filippo Turati - di cui erano buoni amici - in transito clandestino a Torino, prima della fuga a Parigi.

Natalia Levi con il marito Leone Ginzburg


Natalia Ginzburg - che ha adottato il nome del marito Leone Ginzburg (1909-1944), (morto a Regina Coeli nel 1944, torturato dai nazisti), racconta con leggerezza e ironia, ma anche estremo pudore, gli anni difficili del periodo fascista e delle leggi raziali, dando maggiore spazio alle belle frequentazioni della famiglia con i maggiori intellettuali italiani, che alle difficoltà che la famiglia dovette subire a causa del fascismo.

Un libro che si legge avidamente, e che lascia al termine, come tutti i grandi romanzi, un senso di nostalgia per quei personaggi a cui così facilmente ci si affeziona.

Premio Strega 1963.

lunedì 3 ottobre 2011

HASSELBLAD HOUSE MAGAZINE - Goteborg Svezia




L'Hasselblad House Magazine è la prestigiosa rivista fotografica della nota casa svedese si Goteborg - quattro numeri ogni anno, fuori commercio e destinata a fotografi, grafici e operatori del settore per abbonamento, edita in quattro lingue: svedese, tedesco e giapponese, cioè i tre paesi leader nel settore fotografico e inglese per tutti gli altri.


Fin dal primo impatto visivo richiama la caratteristica fondamentale della camera fotografica Hasselblad e cioè il formato quadrato, quello che meglio sfrutta le caratteristiche dell'ottica fotografica.




Ogni numero della rivista è dedicata a tre-quattro fotografi di livello internazionale, di solito con specializzazioni diverse, ma tutti rigorosamente devoti al culto del formato 6x6, e naturalmente utilizzatori del sistema Hasselblad.

AA.VV. - 40 volumi - IL CASTORO CINEMA - l'Unità/Il Castoro - 1995

C'è stato un tempo felice nel quale Walter Veltroni dirigeva l'Unità, non si inventava partiti e non spaccava coalizioni, cioè faceva una cosa che sapeva fare bene e, infatti, nell'intento di dare maggiore spazio alla cultura nel giornale che dirigeva, creò l'Unità 2, tutto dedicato alla cultura.
Finalmente! Volendo, si poteva buttare la prima parte del giornale e concentrarsi su l'Unità 2, senza politica e politichese.

Com'è noto la passione di Veltroni è il cinema, e ne scriveva ovunque fosse possibile, ricordo in particolare le sue recensioni su una rivista.



















Nel 1995, da direttore dell'Unità, fece un accordo con l'Editrice Castoro di Milano per pubblicare, fuori commercio e destinato ai soli lettori dell'Unità, la collana Il Castoro cinema, prestigiosa collana diretta da Fernando di Giammatteo.

In totale 40 agili volumetti dedicati ai più grandi registi del cinema di tutti i tempi, curati dai maggiori esperti di cinema, volumi ben strutturati, con in apertura una serie di dichiarazioni dell'autore, riprese da intervuste, un'analisi dell'opera complessiva, biografia, filmografia completa con il cast di ogni film diretto.

Un utile strumento di informazione per gli appassionati della settima arte.

giovedì 29 settembre 2011

LINUS - Rivista di fumetti e illustrazione - Anno I N.1 - Aprile 1965 - £ 300


Questo primo numero di LINUS, datato aprile 1965, apre con una storica intervista di Umberto Eco a Elio Vittorini e Oreste del Buono che vale la pena di trascrivere integralmente per gli amanti di questo intramontabile mito.

Eco
Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini: com'è che hai conosciuto Charlie Brown?

Vittorini
Io mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occupavo anche ai tempi di "Politecnico" e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti americani parlandone non soltanto sotto il profilo sociologico, come succede di solito, ma anche sotto il profilo storico.

Eco
Di che cosa avete parlato a quell'epoca?

Del Buono
Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.

Vittorini
Si, avevamo anche cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi: Del resto uno "spirito di fumetto" c'era nel tipo di impaginazioneche usavo per il "Politecnico" dove poi c'era un'appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubblicazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su "Politecnico" ne riportammo due o tre.

Eco
E Charlie Brown?

Vittorini
Charlie Brown è venuto per un accidente. Io mi facevo mandare dall'America, da amici che ho li, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato "forze di liberazione": Incuriosito, melo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.

Eco
Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?

Vittorini
Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.

Eco
Allora secondo te è più artista Schulz?

Vittorini
Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario(da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto "hot", o meglio "hard-boiled", soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un "patetico" che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come loè per Schulz dove l'infanzia è il "signifiant", il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.

Eco
E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?

Del Buono
Io sono un convertito a Charlie Brown. All'inizio non mi piaceva affatto. Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avventuroso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo punto è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici. E' avvenuta addirittura una identificazione: Charlie Brown sono io. Da quewsto punto di vista ho cominciato a capirlo. Altro che comico,era tragico, una tragedia continua. Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed esorcismo.

Vittorini
E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quello che dice Del Buono: lui denuncia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Carlie Brown. Il primo contatto in effetti non soddisfa: una singola striscia di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però nella quantità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' come le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una,di quattro invariabili e una variabili l'altra, si ha allora un "continuo" che approfondisce non solo numericamente il significato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.

(Questa è solo la prima parte dell'intervista, la seconda parte la pubblicherò prossimamente).


Elio Vittorini - IL GAROFANO ROSSO -Oscar Mondadori XI ristampa 1981- £ 3.500


La censura fascista ha condizionato fortemente la stesura di questo intenso romanzo di Vittorini. Scritto tra il 1933 e il '35 uscito a puntate sulla rivista Solaria tra il '33 e il '36, ma il sequesttro della rivista dove appariva la sesta puntata, costrinse Vittorini a tagliare e riaggiustare molte pagine. Ma neanche dopo le numerose modifiche apportate al testo, il Ministero fascista nel '38 consentì la pubblicazione in volume, che avvenne infatti solo nel '48.

Scrive Giansiro Ferrata nella bella introduzione:

Non si può immaginare che cosa sarebbe diventato il romanzo -al quale Vittorini lavorava ancora per esteso mentre uscivano le varie puntate - senza gli interventi del funzionario fiorentino, e le loro ripercussioni nello scrittore.
(Gli effetti di quel "supplizio a puntate"furono certamente profondi in lui, e contribuirono a fargli risolvere un po' dall'esterno gli ultimi capitoli).
Nonostante i pregi del Garofano rosso anche nel più stretto senso letterario, credo sia giusto andargli incontro come ad un'opera che non è maturata per intiero. D'altra parte le opposizioni rinnovate dalla censura fascista in modi singolarmente toruosi e ostinati, sono una traccia utile per chi voglia ambientare il carattere e il valore del libro nelle circostanze di quel periodo.
Non leggo mai le prefazioni prima di aver letto il testo, perché credo di non dover essere influenzato da quanto viene detto dagli addetti ai lavori, e così è stato anche in questo caso.

Ho dunque letto Il garofano rosso trovandolo coinvolgente, i personaggi vivi e vitali, la narrazione densa, le descrizione dei luoghi che il protagonista attraversa in treno tornando a casa pezzi da antologia, i suoi ricordi infantili toccanti eccetera, poi, da un certo punto in avanti - da quando Mainardi rientra nella città dove studia - ho provato una certa stanchezza nella lettura, come se l'interesse in me fosse scemato. Ed è stato così fino alla fine del libro.

In appendice al volume c'è il saggio che Vittorini scrisse come prefazione all'edizione del 1948 nella "Medusa degli Italiani", nel quale spiega le traversie occorse al romanzo con la censura , le correzioni apportate, i sequestri subiti della rivista Solaria che lo pubblicava a puntate e infine, fatto fondamentale, l'asserzione secondo cui la seconda metà del romanzo non era più quello che pensava dovesse essere. Era cambiato lui nel frattempo:

Ma era dall'autunno del '35 che io non avrei potuto riconoscere più come mia, e insomma come vera, nessuna delle ragioni per le quali avevo scritto il Garofano rosso...
e ancora:

...voglio solo precisare che io m'ero accorto di non avere più nel Garofano rosso un libro "mio" nell'atto stesso in cui lo ritoccavo per la censura.

e ancora:

Si scrivono romanzi che sono buone opere, e che hanno un'efficacia, che toccano un segno o un altro, anche nel linguaggio che io non ho saputo parlare con coerenza, con serietà, con sincerità o almeno con pieno piacere di parlarlo, attraverso le pagine (specie la seconda metà) di Garofano rosso.

Questa prefazione del '48 è un proprio e vero saggio sul romanzo, con una carellata sulla letteratura europea e americana del dopoguerra, ma anche stimolanti riflessioni sul linguaggio nella narrativa, anche in rapporto con l'opera lirica e il melodramma. Insomma, un testo interessante da leggere e studiare, indipendentemente dal romanzo di cui è prefazione.

mercoledì 28 settembre 2011

Ernesto "Che" Guevara - LA GUERRA PER BANDE - Oscar Mondadori 1967 - £ 350

Il 9 ottobre del 1967 Ernesto Che Guevara veniva catturato ferito durante un combattimento e successivamente ucciso a La Higuera, provincia di Villegrande in Bolivia, da reparti antiguerriglia boliviani assistiti da agenti speciali della Cia. Moriva un uomo e nasceva anzi si consolidava un mito.

Poi, dopo la resa senza condizioni del comunismo reale, la caduta del muro di Berlino, la vittoria su tutti i fronti del consumismo edonistico e la riscrittura revisionistica della storia, giornalisti camuffati da storici (vedi Alvaro Vargas LLosa), si dilettarono ad esprimere giudizi assai negativi sull'opera politica e militare del Che, dimenticando di contestualizzarne le azioni.

E' accaduto a tutte le figure storicamente significative, da Nerone a Mao Tze Dung e questo conferma la tesi che la storia la scrivono i vincitori.

Come dice Marc'Antonio Il male che gli uomini fanno, vive dopo di loro; il bene è sovente sotterato con le loro ossa: lasciamo che sia così anche per Cesare.

Questo manuale del perfetto guerrigliero è stato molto in voga alla fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, quando sembrava che la scelta rivoluzionaria fosse la sola possibile per uscire - in occidente - dalla stagnante melma conservatrice e reazionaria e, nell'America latina, come l'unico possibile riscatto di un proletariato contadino oppresso e miserabile.

Non è stato così. Le rivoluzioni non si esportano e i popoli antepongono il burro ai grandi ideali di libertà e, dalle nostre parti, la cosiddetta scelta armata - deviata e contaminata - fece danni irreparabili a quella parte in nome del quale diceva di operare.

Certo, nella palude nella quale si dibatte attualmente tutto il mondo capitalistico, con la speculazione finanziaria mondiale che sta strangolando paesi interi, la scelta rivoluzionaria potrebbe tornare d'attualità e allora ecco pronto il vademecum per gli aspiranti guerriglieri.

domenica 18 settembre 2011

Luigi Pintor - SERVABO - Bollati Boringhieri 1991 - £ 14.000



Il ricordo che ho di Luigi Pintor risale ai tempi che partecipava, come giornalista de l'Unità, alle tribune politiche in televisione. Ne apprezzavo la chiarezza espressiva, la logica stringente, l'ironia dissacrante, la capacità di riportare sempre il politico intervistato al nocciolo, al centro del problema posto. A me dava l'impressione che insieme a questa sua grande capacità dialettica, senza prolissità e lungaggini, sobrio e asciutto, esprimesse anche una qualche forma di ritrosia, una innata riservatezza del carattere - forse dovuta al suo essere sardo - che lo rendeva simpatico, caratteristica inconsueta nei giornalisti d'assalto che frequentavano le tribune elettorali dell'epoca.

Poi, coerente al suo essere comunista, quando nell'estate 1968 le truppe sovietiche entrano a Praga per stroncare la primavera di Dubĉek, assume, insieme al gruppo che poi fonderà il manifesto, una posizione di dura critica, in aperto contrasto con la maggioranza del PCI, da cui verrà radiato insieme a Natoli, Rossanda, Magri e altri. Ma questa è un'altra storia.


Questo volumetto di Luigi Pintor mi è capitato per caso tra le mani, mentre girovagavo curioso tra gli scaffali della libreria Arion a Cinecittàdue; tra tanti volumi che gridavano graficamente di essere acquistati, Servabo mi ha colpito per la sua sobrietà ed eleganza, poi il titolo incomprensibile e infine il nome dell'autore, da me molto stimato e che in questo bellissimo libro - dando ancora prova di modestia - inizia con una citazione di Voltaire:

I libri più utili sono quelli dove i lettori fanno essi stessi metà del lavoro: penetrano i pensieri che vengono presentati loro in germe, correggono ciò che appare loro difettoso, rafforzano con le loro riflessioni ciò che appare loro debole.
Concetto questo - della complicità del lettore - espresso anche da J.L.Borges nella dedica di Fervor de Buenos Aires:
A chi mai leggerà. Se le pagine di questo libro consentono qualche verso felice, mi perdoni il lettore la scortesia di averle usurpate io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore.
Servabo è uno di quei libri che è importante leggere, questa Memoria di fine secolo - come recita il sottotitolo - infatti, riguarda tutti noi, quelli che hanno vissuto gli anni della guerra e quelli che per ragioni anagrafiche ne hanno solo sentito parlare.

Con il pudore - che è come una sua seconda natura - Pintor ci racconta in dodici capitoletti, un prologo e un epilogo, cinquant'anni di vita italiana: la morte del fratello Giaime, saltato su una mina tedesca, mentre tentava di raggiungere le formazioni partigiane, ma anche il suo arresto e la prigionia - senza dire una parola delle torture cui fu sottoposto dai fascisti della banda Koch.

Un libro da leggere più volte, per apprendere - senza dissertazioni pedanti - cosa vuol dire dignità e senso etico, quanto mai essenziale in questa fase di vita italiana.