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domenica 19 febbraio 2012

Gianna Manzini - RITRATTO IN PIEDI - CLUB DEGLI EDITORI 1971 - £ 1.800


A Firenze, a un cavallo da piazza, non potevano fare attraversare il ponte Santa Trìnità. Giunto a metà, voleva saltare la spalletta e buttarsi di sotto, con la carrozza e tutto. Il vetturino diceva: "Buono, Lillo, buono"; e tentava di trascinarlo per la cavezza. Macché. S'impuntava; schiumava; impazziva. E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa. Non c'era nulla da ricordare. Tutto accadeva dall'oggi al domani. Ombroso non era mai stato.


Con questa immagine forte inizia il più bel romanzo, il più sofferto di Gianna Manzini (1896-1974).

Il rittratto a cui allude il titolo è quello del padre, l'anarchico Giuseppe Manzini (1872-1925) amico di Errico Malatesta, che Gianna bambina, incontra nella piccola bottega di orologiaio del padre.

La storia del cavallo, che senza una ragione apparente, improvvisamente, rifiuta di attraversare il ponte S.Trinità a Firenze, ricorre nel libro per rammentare come possa improvvisamente riproporsi ciò che si era voluto rimuovere.

L'anarchico Giuseppe Manzini, socio in affari del fratello della moglie, contro i propri interessi, organizza uno sciopero che lo costringerà a lasciare la ditta nella quale aveva investito tutti i suoi averi e, per i contrasti tra le sue idee anarchiche e il perbenismo conservatore della moglie, a doversene dolorosamente separare.

La separazione dei genitori lascia nella bambina un segno definitivo, che la condizionerà fortemente rendendo il legame con il padre molto forte; la bambina idolatra il babbo e lo difende con fierezza dai commenti malevoli che quotidianamente è costretta ad ascoltare nella casa degli zii, dove vive con la madre.

Tema centrale del libro è il rimorso. Il rimorso di non essere stata abbastanza vicina al padre, durante il confino a Cutigliano, dove il regime fascista lo aveva assegnato; di aver quasi rimosso la sua presenza quando, trasferitasi con la madre a Firenze, scopriva le gioie e i turbamenti dell'adolescenza.

Il vecchio, classico rimorso di tutti i figli nei confronti dei genitori, quando questi non ci sono più.

Ma la cosa tremenda è che bisognava che tu non ci fossi, babbo, perché io potessi finalmente calarmi tutta nella mia repentina, rapinosa giovinezza. Ti allontanavo. Chiudevo gli occhi sul pensiero di te, mio orgoglio, mio vero blasone, mio maestro assoluto, poesia fatta vita. Una lettera la settimana, sì, senza dubbio, con tante notizie, come no? ma bisognava evitare il pensiero che ogni giorno rischiavi il linciaggio, che certo avevi freddo, chi sa, anche fame; e che eri solo: perché gli amici, per devoti che siano, non sono che amici. Dire "evitare" è dir poco: abolire, cacciare nel profondo, sottrarre qualsiasi lembo di me all'appiglio di un ricordo, d'un richiamo, e correre via rapida, senza voltarmi: tu, confinato in quel paese sperduto; e la tua bambina in un turbine smagliante.
Un libro imprescindibile per chi ama la narrativa non banale, di un' autrice oggi dimenticata che utilizza un linguaggio elegante e fantasioso.

venerdì 23 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - IL DIAVOLO AL PONTELUNGO -Mondadori 1957 - £ 1.600


Questo squinternato volume della collana mondadoriana dei Narratori Italiani n.42 uscì nel 1957, per dare un'idea della lontananza di quella data, basti pensare che in quell'anno iniziarono le trasmissioni di Carosello, sei paesi firmarono il Trattato di Roma per far nascere l'Unione Europea, uscì la prima Fiat 500, Jack Kerouac pubblicò On the road e in Italia Feltrinelli diede alle stampe Il dottor Zivago.

Il diavolo al Pontelungo, naturalmente, non era una novità editoriale, era già stato pubblicato nel 1927, anno particolarmente ricco per la letteratura: nello stesso anno uscirono infatti America di Kafka, Gita al faro della Woolf e il Tempo ritrovato con cui Proust chiudeva la sua recerche.

Il romanzo uscì dunque nel '27 per i tipi dell'editore Ceschina di Milano, ma Bacchelli continuò a metterci le mani, sicché la versione definitiva la si può considerare questa del 1957 a cui seguirà, nel 1965, una edizione economica negli Oscar.


Questo romanzo storico di Bacchelli, definito da molti critici una delle opere più felici e più fortunate del romanziere, tratta dell'amicizia prima e della rottura poi tra l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin (1814-1876) e l'anarchico Carlo Cafiero (1846-1892), nonché del primo tentativo di far scoccare la scintilla della rivoluzione a Bologna per poi estenderla in tutta Italia.

Bakunin è una figura affascinante nel panorama ottocentesco, partecipa nel 1949 all'insurrezione di Dresda - gli fu compagno tra gli altri Wagner - arrestato e condannato a morte, pena commutata in carcere a vita, dopo il trasferimento in Russia la sua pena fu ancora commutata in esilio in Siberia, da dove fuggì nel 1861.

Ecco come magistralmente ce lo descrive Bacchelli:

Michele Alessandrovic Bakùnin sfiorava due metri di statura, e la sagoma dell'uomo era ampia e possente in pari proporzioni. La barba gli scorreva sul petto larga e appuntita, morbida, ondulata e brizzolata come i capelli che gli facevano una raggiera folta dietro la nuca. La fronte era larga e un po' sfuggente, fronte di fantastico e di sensuale; il naso era vivo e la bocca carnale. Lo sguardo era azzurro come l'illusione e trasparente come la logica assurda; le palpebre gravavano un poco, come quelle dei pigri e degli assonnati, sull'occhio. Questo era acuto, interrogativo, pronto sugli oggetti e sull'interlocutore, oppure vago e perso in un lieve sorriso estatico, indirizzato a tutto o a niente. Queste due espressioni di estrema petulanza e di estrema indolenza si inseguivano sul viso di Bakùnin a distanza di momenti, a volte accompagnando e a volte contraddicendo le parole e le azioni di quel che stava facendo e dicendo.
Carlo Cafiero, l'anarchico pugliese, ecco come ce lo presenta Bacchelli:

Carlo Cafiero, di fronte allo slavo rumoroso e massiccio, era tutt'altra figura fisica e morale. Egi era spinto ad agire dalla testa, e la testa esaltata non lascia requie, nè svago, nè sanità. Era di media statura, abbottonato e scialbo nel modo di vestire quanto Bakunin era libero, sciolto e colorito nel suo. Capelli e barba aveva lisci, uniti e ravviati; era un uomo gracile e composto, un'astratta e nervosa figura d'italiano e di meridionale. L'inquietudine che suscitava lo scioperato Bakunin era un elemento di simpatia umana, la stima che destava Cafiero era causa di freddezza. Asciutto, taciturno, severo, aveva nelle dita qualcosa che non voleva mai star fermo. E fregava spesso i gomiti sul fianco, stropicciando fra le dita, come per strapparli, maniche e bavero della giacca. Questi gesti divenivano nella contrarietà veri accessi nervosi, e allora lo sguardo, miope dietro gli spessi occhiali a stanghetta da studioso, cresceva una sua fissità assente e penosa. Il naso era bonario, la bocca arida, la fronte appuntita di testardo e di mistico. Al solo vederlo si scorgeva l'uomo scrupoloso e sottile, e su tutta la persona un segno, un'ombra di destino funesto e smarrito.
L'insurrezione di Bologna, che avrebbe dovuto essere la scintilla capace di scatenare la rivoluzione in Italia, fallì miseramente perché all'appuntamento con la storia si presentarono solo duecento rivoluzionari anziché i mille previsti, male organizzati, peggio armati, senza nessun coordinamento tra i vari gruppi, regolarmente ostili tra loro: caratteristiche queste peculiari sia della sinistra di tutti i tempi, che degli italiani in genere.

Le ali ardenti e temerarie dell'utopia erano cadute come ali da teatro, e Bakùnin si destò sereno e curioso del mondo. Era una curiosità pacifica, di ogni e qualsiasi oggetto. Per quanto gli paresse di aver da apprendere tutto, cioè quel che in sessant'anni aveva ignorato o visto di straforo coll'occhio dell'arbitrio e dell'idea fissa; tutto il vasto mondo, le tantissime cose, ora che di vita gli restavano mesi più che anni, non gli facevan fretta, non erano una ricchezza da dilapidare per timor d'essere tardi a godere. Il mondo era una ricchezza sua e senza fondo, tranquilla, inconsumabile.
A distanza di tempo dalla sua apparizione, il romanzo non ha perso nulla della sua attrattiva e del suo fascino, e si legge con piacere, pervaso com'è da bonaria saggezza e garbata ironia.

lunedì 27 giugno 2011

Ezio Taddei - LAFABBRICA PARLA - Milano-sera editrice - 1950 - £ 500


Un libro proletario. Un forte libro proletario. L'autobiografia di Ezio Taddei, nato nel 1895, vagabondo a dodici anni, dopo esser stato cacciato di casa, artigiano e operaio, sempre dalla parte dei più deboli, antifascista, libertario, anarchico, poi comunista, ma sopratutto uomo che ha lottato tutta la vita contro ogni ingiustizia.

Bersagliere nella Prima Guerra Mondiale, durante la battaglia del Monte Nero si guadagna una medaglia di bronzo per aver salvato, sotto il fuoco nemico, un compagno ferito.

Sconta tredici anni di carcere per attentati nel 1921, poi fino al 1936 al confino, finalmente riesce ad espatriare clandestinamente negli USA dove conosce e frequenta Arthur Miller- che verrà a trovarlo in Italia.


La prosa di Taddei è precisa e nitida, il suo modo di narrare semplice e sapiente insieme Non ci sono parole in più, non ci sono frasi infiorate: l'attività clandestina, la galera, la miseria, il dolore sono cose troppo importanti perchè si possa esercitare su di esse l'enfasi, l'ipocrisia, la speculazione.

Questo è uno di quei rari casi in cui l'opera, quella che val la pena ricordare, non è il prodotto letterario, ma la vita dell'artista, coerente con la scelta fatta di stare sempre dalla parte degli oppressi, dei diseredati, degli sfruttati. Con i tempi che corrono non è un esempio da poco.