venerdì 29 agosto 2014

Junikirô Tanizaki - GLI INSETTI PREFERISCONO LE ORTICHE - Mondadori 1960 - £ 1.200



Non riesco a ricordare quale impulso mi spinse nel lontano 1960 ad acquistare questa medusa appena pubblicata: non la notorietà dell'autore, Junichirô Tanizaki (1886-1965) che esordiva in Italia con questo romanzo, né la sua fama di scrittore dall'erotismo decadente, attratto dal mondo occidentale, che non conobbe mai direttamente.

Sicuramente fu il mistero di quell'oriente estremo, di quel Giappone così contraddittorio, di cui conoscevo solo l'immagine fantastica evocata dai romanzi di Murasaki Shikibu, vissuta intorno all'anno mille, autrice di La signora della barca e Il ponte dei sogni, parte della più complessa opera detta Ghengi Monokatari.  (vedi link)
 
Junichirô Tanizaki, autore molto prolifico,  si è cimentato anche in una versione in giapponese moderno di Ghengi Monokatari

L'insolito titolo. Gli insetti preferiscono le ortiche. Ma sarà poi vero? Una giovane coppia di sposi, di mentalità moderna nel Giappone anni trenta, in crisi per il disinteresse sessuale di Kanamè, che  alla bella moglie Misako, preferisce le cosiddette gheisa girls, e intanto la decisione definitiva, quella di divorziare non riesce a concretizzarsi perché entrambi, in fondo, preferirebbero continuare in questo interregno fatto di rispetto  stima e libertà, ma non di sesso.

Il fascino del romanzo è dato, oltre che della storia dei due protagonisti, di notazioni che riguardano la cultura giapponese; le impercettibili differenze, ad esempio, nel teatro dei burattini  tra la tradizione di Osaka e quella di Kyoto... 


A Kanamè, qualunque fosse l'opera, quella cantilena risultava sgradevole, di cattivo gusto: in essa vedeva affiorare l'indelicatezza, l'impudenza, l'eccessiva concretezza tipiche della gente medesima di Osaka e per lui come per la moglie nati a Tokyô, insopportabili e quasi disgustose. Gli abitanti di Tokyô sono tutti piuttosto riservati: nessuno di loro ha l'improntitudine con cui, per esempio, quelli di Osaka rivolgono la parola a sconosciuti in tram o sul treno, giungendo perfino a domandar loro il prezzo dell'abito che indossano e il negozio ove l'hanno acquistato: simili maniere sono per la gente di Tokyô assolutamente scorrette ed urtanti. Si dovrebbe dunque precisare che i figli di Edo (1) si comportano con maggior discrezione, fino ad una eccessiva preoccupazione delle apparenze, fino ad negativo isolamento. E il tratto caratteristico della gente di Osaka, tanto deprecato da quelli di Tokyô, è ampiamente riscontrabile nella parte che nel Bonraku è riservata al gidayù. Vero è che, anche per esprimere le emozioni più profonde, non è necessario assumere una grinta corrusca, storcere le labbra, alterare il viso, o dimenarsi fuori misura; e piuttosto che far uso di una simile messa in scena, la gente di Tokyô preferisce non esprimere affatto i propri sentimenti, sottraendovisi con qualche motto di spirito.
(1) Antico nome di  Tokyô



E' un libro che si lascia leggere con piacere, lasciando nel lettore il ricordo  gradevole di un ambiente umano semplice ed elegante, legato a tradizioni millenarie ma  in fase di veloce cambiamento, vittima della modernità livellatrice di un occidente invadente.

Anche dopo questa rilettura, non si scioglie il mistero che si cela dietro l'elegante metafora rappresentata dal titolo, confermando con questo che la cultura di un popolo, a differenza dei libri, rimane intraducibile












domenica 24 agosto 2014

Gabriella Lapasini - I RACCONTI DEL BORGO - Feltrinelli 1957 - £ 350


Nella monumentale collana Universale Economica Feltrinelli, furono pubblicati, dal 1956 al 1963, una cinquantina di titoli, facenti parte di una nuova serie denominata Scrittori d'oggi, con l'intento di presentare ad un vasto pubblico autori italiani contemporanei, spesso alla loro prima esperienza letteraria.

Di Gabriella Lapasini, nata a Vittorio Veneto nel 1927, a dispetto della notevole attività di giornalista e traduttrice, il web non ci dice molto; desumiano dai titoli  degli articoli pubblicati sulla rivista  Noi donne,  negli anni settanta, una sua collocazione nell'universo culturale di sinistra, l'immaginiamo impegnata nella lotta per l'emancipazione della donna, a sostegno del divorzio e l'aborto.  Sappiamo che è tra i fondatori e direttrice dal 1979 fino alla sua morte (non sappiamo quando avvenuta) della rivista Cubana, poi diventata Latinoamerica, oggi diretta da Minà. 

I racconti del borgo rappresentano il suo esordio come narratrice, scrive lei stessa nella terza di copertina:
I personaggi, l'ambiente, il paesaggio dei racconti, sono quelli delle colline venete tra le quali io sono nata e cresciuta ed alle quali mi sento profondamente radicata. Non c'è altra aria, altra luce, altre voci che io possa immaginare mi somiglino più di quelle che io possa supporre di sentire, un giorno, più mie. I miei interessi sono molteplici e, credo, tutti vivi; ma più che tutto amo la gente, le cose, un certo paesaggio veneto, verde ed ondulato, amo la realtà tangibile di ogni giorno.

Quattro i racconti del volumetto: Fumo in collina; Il cappotto nuovo; Il nonno, Marco e il macellaio; Il ritorno.

L'incipit del primo racconto:

La baracca di mattoni rossi sorge quasi ai piedi della collina, proprio dove il ruscello si infossa senza rumore nella terra che si fa gonfia e paludosa, dove s'apre lo stretto piano e di nuovo sale dolcemente a limitare la valle; sopra c'è un campo erto e dritto, lavorato a terrapieni, sulla faccia dei quali nasce un verde incauto e trombettire.
Dalla baracca, sulla lamiera lucida del tetto, s'alza a volte un fumo bianco e denso che si impasta con le ultime luci della sera o sale, impennandosi a tratti, a seguire un vento leggero e quasi freddo che lo trascina verso il borgo. Allora nel borgo tutti, persino i bambini, sanno che Giuseppe sta lavorando.

Fa un certo effetto presentare oggi il libro di una scrittrice che non c'è più, e di cui non abbiamo letto altro che questo esordio nel quale doveva aver investito delle speranze, che non sappiamo se e  quanto realizzate.

venerdì 22 agosto 2014

Michail Aleksandrovič Sciolochov - IL PLACIDO DON - Garzanti 1965 - £ 350



Nel 1965 la Accademia di Svezia conferisce il premio Nobel per la Letteratura allo scrittore sovietico Michail Aleksandrovič Šolochov (1905-1984) "per la potenza artistica e l'integrità con le quali, nella sua epica del Don, ha dato espressione a una fase storica nella vita del popolo russo". 

E' noto che caratteristica peculiare dell'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura è, da sempre,  la polemica che ne segue. Quell'anno il livore anticomunista fece scrivere che la Accademia di Svezia, con questo premio al sovietico Šolochov, pareggiava lo sgarbo fatto all' Unione Sovietica nel 1958, quando - su pressione della CIA - preferirono l'allora sconosciuto Pasternak, inviso al potere sovietico e espulso dall'Unione degli Scrittori, al favorito, ma filo-comunista, Moravia.


C'è stato poi chi, addirittura, ha messo in dubbio l'attribuzione dell'opera, definendola un plagio di  Šolochov ai danni di tale Kryukov (1870-1920), ma recenti analisi hanno decisamente archiviato questo ulteriore tentativo di delegittimare l'autore, colpevole di essere scandalosamente scrittore comunista, organico al sistema sovietico. 

Critiche pretestuose, e polemiche a parte, Il placido Don resta un'opera corale grandiosa, che per l'ampiezza dei temi trattati, la quantità di personaggi che gremiscono la storia, è stato paragonato, forse con qualche condiscendenza di troppo,  a Guerra e pace.

Sembra francamente eccessivo: non perché i quattro episodi in cui è diviso Il placido Don non coinvolgano emotivamente il lettore, per le passioni e i drammi che vivono i molti protagonisti, per le fasi storiche tragiche che attraversano, ma perché manca quell'afflato universale che pervade tutta l'opera di Tolstoj.



 L'inizio de Il placido Don:

La casa dei Melechov sta sul margine del contado. Il cancello delle stalle si apre a nord, verso il Don. Dopo una ripida discesa di una ventina di metri, tra massi di creta inverditi dal muschio, viene la riva: una distesa perlacea di conchiglie, una grigia striscia sinuosa di ghiaia baciata dalle onde e più oltre, la corrente del Don, increspata sotto il vento dallo schiumare di piccoli gorghi vorticosi. Verso est, dietro le siepi intrecciate di rami di salice che circondano le ale, vien la strada di Ghermanskja, una striscia polverosa di bionda erba amara e di tenace erbaccia bruna, calpestata dagli zoccoli dei cavalli. Al bivio si scorge una cappella e poi la steppa, velata d'un miraggio fluente. A sud si alza la cresta cretosa del monte; ad ovest la via che attraversa la piazza e corre verso i campi

Dopo la penultima campagna turca il cosacco Prokofij Melechov tornò al villaggio portando con sè da quelle terre la sposa, una donna piccoletta, tutta avvolta in uno scialle: Essa nascondeva con cura il viso e di rado di potevano scorgere i suoi grandi occhi tristi, inselvachiti. Lo scialle di seta, adorno di disegni iridati, odorava d'ignoti profumi lontani e con ciò nutriva l'invidia delle donne del contado. La prigioniera turca si teneva lontana dai parenti di Prokofij e il vecchio Melechov non perdonò quell'offesa; dopo qualche tempo assegnò al figlio la parte che gli spettava separandosi da lui, e fino alla morte non entro mai in quella casa.

Un'ultima curiosità: nella quarta di copertina, nelle note di presentazione del volume, Garzanti fa scrivere:

....Un potente ciclo romanzesco del quale ha detto con efficacia un altro grande narratore di questo secolo Aleksej Nikolaevic Tolstoj: « "Il placido Don per lingua, cordialità, umanità, plasticità, è un'opera totalmente russa, nazionale, popolare. »

A parte il riferimento al nazional-popolare, ma se il grande Tolstoj è morto il 20 novembre 1910, come è possibile che abbia potuto leggere Il placido Don che è del 1928, e che comunque racconta la prima guerra mondiale, la rivoluzione d'ottobre e la guerra civile russa, fatti accaduti  molti anni dopo la sua morte ?

Mistero della sciatta editoria nostrana.

Della travagliata, drammatica storia dei cosacchi, della diaspora che è seguita alla guerra civile, protrattasi fino alla seconda guerra mondiale, apprendiamo anche dal romazo strorico di Carlo Sgorlon, L'armata dei fiumi perduti, di cui si è già parlato qui:
  
http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/03/carlo-sgorlon-larmata-dei-fiumi-perduti.html

venerdì 15 agosto 2014

Paolo Maurensig - LA VARIANTE DI LÜNEBURG - Adelphi 1993 - £ 20.000


Ci sono romanzi che hanno un avvio lento e solo l'ostinata curiosità del lettore ne consente il prosieguo; quando non è addirittura premeditata opera di scoraggiamento, come in alcuni romanzi di Umberto Eco; altri invece, pur avendo l'andamento di un adagio, scorrono veloci, catturando totalmente fin dall'incipit l'attenzione del lettore, costringendolo a leggerlo tutto d'un fiato.

E' il caso di questo fortunato romanzo d'esordio del goriziano Paolo Maurensig, classe 1943, che, uscito ad aprile del 1993, quando l'acquistai a luglio, era già alla sua quarta edizione. 

Leggendo la biografia di Maurensig scoprii, con sorpresa, che per anni era stato, come me, un agente di commercio: un collega, dunque. Riandando con il pensiero al tipo di rapporti che si instaurano tra colleghi venditori, persone anche simpatiche se prese a piccole dosi, sempre con la battuta pronta, brillanti per necessità, dove il passatempo preferito, durante i lunghi meeting aziendali, è quello che lo psicanalista transazionale Eric Berne (1910-1970) nella sua teoria dei giochi chiama donne & motori, la mia simpatia per questo autore crebbe notevolmente. 

Come di consueto, non racconterò nulla di questo avvincente romanzo, per non togliere il piacere della scoperta a quei distratti lettori che ancora non lo avessero letto. Dirò solo che la costruzione è un rigoroso congegno narrativo, dove le tessere della storia trovano la loro collocazione alla fine di un percorso che ha le insidie e la pericolosità di una partita a scacchi.

Questo l'incipit:


Sembra che l'invenzione degli scacchi sia legata a un fatto di sangue.
Narra infatti la leggenda che quando il gioco fu presentato per la prima volta a corte il sultano volle premiare l'oscuro inventore esaudendo ogni suo desiderio. Questi chiese per sé un compenso apparentemente modesto, di avere cioé tanto grano quanto poteva risultare da una semplice addizione: un chicco sulla prima delle sessantaquattro caselle, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza, e così via...
Ma quando il sultano, che in un primo tempo aveva accettato di buon grado, si rese conto che a soddisfare una simile richiesta non sarebbero bastati i granai del suo regno, e forse neppure quelli di tutta la terra, per togliersi dall'imbarazzo stimò opportuno mozzargli la testa.

mercoledì 6 agosto 2014

Anne e Serge Golon - ANGELICA Marchesa degli Angeli - Garzanti 1957 - £ 2.500






La saga di Angelica rappresenta, nel panorama letterario del novecento, quello che I Grandi Romanzi Storici di Dumas hanno rappresentato per il secolo precedente: una serie di romanzi pseudo-storici, dove le avvincenti storie dei personaggi creati dall'autore, si intecciano, avventura dopo avventura, con i fatti storici del periodo narrato, catturando l'interesse del lettore e appassionandolo alle vicende dei protagonisti. 

Alexandre Dumas  (1802-1870), pubblicava a puntate i suoi romanzi sui giornali, abilissimo nel creare colpi di scena, riusciva a suscitare tra i suoi lettori un'attesa febbrile. Fatte le dovute proporzioni, è un po' quello che è successo alla fine degli anni cinquanta con la serie di Angelica.

Gli autori, Anne e Serge Golon, sono marito e moglie, lei si chiama in realtà Simone Changeux (1921), ha esordito a 18 anni con il romanzo Au Pays de derrière mes yeux, e in seguito ha scritto vari romanzi d'avventura: Master Kouki, Le Cailloux d'Or, La Patrouille des Saints Innocents, Alerte au Tchad, usando come pseudonimo Joëlle Danterne oppure Anne Servoz. 

Il marito nato come Vsevolod Sergeevich Goloubinoff (1903-1972), di famiglia nobile, in fuga in Francia per la Rivoluzione del 1917,  divenuto cittadino francese, adotterà il nome di Serge Golon. Si incontreranno durante un viaggio in Congo, dove lui lavora come ingegnere minerario e in seguito si sposeranno.

Nel 1952 Simone Changeux inizia la stesura di un romanzo storico ambientato nel XVII secolo, sull'avventurosa vita della sua eroina, contemporanea di Luigi XIV, Angelica, Marchesa degli Angeli. Suo marito, Serge, l'aiuta nelle ricerche storiche. Firmerà il romanzo con il quasi pseudonimo, Anne Golon, ma ben presto estenderà la paternità dei romanzi anche a Serge. Una curiosità, in America pubblicherà i romanzi con il nome Sergeanne Golon.

Angelica è un'eroina moderna che, in qualche modo, la letteratura attendeva. Più ardita e disinvolta  di Emma Bovary, più determinata di Anna Karenina, più simile a Scarlett O'Hara con il suo indomabile coraggio, e disinibita, se non spregiudicata.

A dispetto della critica, che all'uscita bistrattò il romanzo tacciandolo di essere un feuilleton, ebbe, come spesso accade giustamente, un enorme successo di pubblico, perché è pur vero che si tratta di un romanzo d'avventure, dove i fatti si susseguono con un ritmo intenso, ma la ricostruzione del periodo storico, le descrizioni degli ambienti, degli usi e costumi - come si dice - è veramente resa in modo eccellente. 

A margine di un pranzo di nozze tra  contadini, fittavoli del padre, Angelica assiste al rito pagano dello "chaudaut":
In basso, grida e luci riempivano la notte e si avvicinavano.
      « La farandola! »
Tenendosi per mano fanciulle e ragazzi le passarono vicino; Angelica fu trascinata nel flutto. La farandola infilava i vicoli, saltava le barriere, sconfinava nei campi nella mezza luce dell'alba. Tutti, ebbri di vino e di sidro, inciampavano di continuo, ed erano crolli e risate. Si tornò verso la piazza: le tavole e le panche erano rovesciate; la farandola le oltrepassò. Le torce andavano spegnendosi.
      « Lo "chaudaut!" Lo "chaudaut!" » si ripetevano ora le voci. Si bussava alla porta del sindaco, ch'era andato a letto.
        «  Svegliati, borghese! Andiamo a riconfortare gli sposi! »
In testa procedevano due buffi personaggi vestiti di orpelli e di sonagli al modo degli antichi "buffoni" del re. Poi, due giovani che portavano sulle spalle un bastone al quale era passato il manico di un enorme paiolo. Li cirdondavano alcuni compagni recando recipienti di vino e bicchieri. Tutti gli abitanti del villaggio che ancora si fidavano di reggersi in piedi, seguivano, formando una schiera già assai numerosa.
Senz'attendere altro, entrarono nel capanno dei giovani sposi. 
Angelica li trovò carini, coricati a fianco a fianco nel grande letto. La giovane sposa era tutta rossa. Tuttavia, bevvero senza farsi pregare il vino caldo, mescolato a  spezie che veniva loro servito. Ma uno dei presenti, più ebbro degli altri, voleva togliere il lenzuolo che pudicamente li ricopriva. Il marito gli tirò un pugno. Ne seguì una baruffa durante la quale si udirono le grida della povera donna aggrappata alle coperte. Sospinta da quei corpi in sudore, soffocata da quegli effluvi contadineschi di vino e di carni poco pulite, Angelica stava per essere gettata a terra e calpestata. Fu Nicola a liberarla e ad aiutarla a uscire.

 Nel Nono Capitolo, Angelica viene data in sposa, per procura, al conte Goffredo de Peyrac, che lei sa essere zoppo e sfregiato, decide allora di darsi fisicamente al giovane Nicola, lavorante del padre. 
Se il romanzo fosse stato scritto da E. L. James, quella delle cinquanta sfumature, la scena nel granaio sarebbe stata descritta in modo assai diverso da questo:
Il granaio era buio. Il calore della paglia ammucchiata emanava una specie di fremente tensione simile a quella d'un uragano. Angelica, folle, inebriata, roteava la fronte contro la spalla di Nicola. Si sentiva nuovamente circondata dal desiderio selvaggio dell'uomo, ma questa volta vi si abbandonava. 
    « Ah! tu sei buono, » sospirava. « Tu sei il mio amico. Vorrei che tu mi amassi. Una sola volta. Una volta sola voglio essere amata da un uomo giovane e bello. Capisci? »
Annodò le braccia intorno alla forte nuca, costringendolo a piegare il suo volto verso di lei. Egli aveva bevuto e il fiato aveva l'aroma del vino ardente. Sospirò:
     « Marchesa degli Angeli...»
   « Amami, » sussurò lei, con le labbra contro le sue labbra. « Una volta sola. Dopo partirò... Non vuoi? Forse non mi ami più? »
Egli rispose con un grido sordo sollevandola tra le braccia, barcollò nell'ombra e andò ad abbattersi con lei sul mucchio di paglia.
Angelica si sentiva al tempo stesso stranamente lucida e come distaccata da ogni umana contingenza.
Penetrava in un altro mondo;  fluttuava al di sopra di ciò che sino ad allora era stata la sua esistenza. Stordita dalla totale oscurità del granaio, dal calore e dall'odore di chiuso, dalla novità di quelle carezze brutali e abili insieme, ella cercava soprattutto di dominare il suo pudore, che si ribellava malgrado lei. Voleva con tutte le sue forze, che fosse fatto alla svelta, per tema di essere sorpresa. Andava ripetendosi a denti stretti che non arebbe stato l'altro a prenderla per primo. Si sarebbe, così, vendicata, sarebbe stata la risposta, gettata all'oro, che credeva di poter comprare ogni cosa.
Intenta a seguire le ingiunzioni dell'uomo il cui respiro si faceva precipitoso, si lasciava fare, accettava tutto da lui, si apriva docilmente sotto il peso  di quel corpo che ora si appesantiva.
Dei tredici romanzi originali, ne uscirono in italiano ventuno titoli, consentendolo l'estensione dei romanzi, tutti sulle cinquecento pagine. 


Garzanti fu il primo editore a pubblicare Angelica. Il primo e il secondo volume in questa elegante veste, grande formato e sovracopertina illustrata da Fulvio Bianconi (1915-1996). Per gli altri titoli Garzanti, inspiegabilmente, cambia formato, e veste grafica, rendondoli banalmente più moderni.
Delle edizioni Vallardi, meglio non parlarne, economiche e dozzinali.