lunedì 19 novembre 2018

Raffaele La Capria - UN GIORNO D'IMPAZIENZA - Bompiani 1952 - £ 600



Sfoglio dopo non so più quanti anni il libro di esordio di La Capria e trovo questi tre biglietti che mi fanno viaggiare con la mente. Prima ancora di iniziarne la lettura,  mi si affacciano scene dimenticate di viaggi casa-lavoro e lavoro-casa, dove la lettura rappresentava la parte piacevole di quei lunghi spostamenti, dalla periferia dove abitavamo e il luogo del lavoro, il magazzino  Mondadori di Lungotevere Prati, a fianco del Palazzaccio a Roma.

Ma la memoria volontaria, lo sappiamo, può essere ingannevole. Pur essendo miei quei viaggi, forse non lo sono quei biglietti.  Nel risguardo, a mo' di ex-libris, c'è la firma di mio fratello e sotto la data Venezia agosto 53; adesso è chiaro il libro è stato acquistato in occasione di un viaggio per assistere alla 14ª Mostra del Cinema. E il 53 è quell'anno che non venne assegnato il Leone d'oro ma ben tre Leoni d'argento: «I racconti della luna pallida di agosto» di Mizoguchi, «I vitelloni » di Fellini e «Il piccolo fuggitivo» di Ashley (un capolavoro in b/n girato con cinepresa a mano, raro esempio di neorealismo statunitense).

Rimane il dubbio dei biglietti, su chi li abbia lasciati all'interno del volume. Ma non io, certamente, per la semplice ragione che per tutti gli anni 50 ho letto solo letteratura americana, che amavo per i suoi ritmi serrati, contratti, sincopati in Hemingway; amavo gli sperimentalismi di Dos Passos, quando raccontava la realtà sincronica della scena americana; il flusso di coscienza nei personaggi di Faulkner; la critica  sociale e l'impegno di Steinbeck. Solo qualche anno dopo ho scoperto la narrativa italiana, iniziando dal più anomalo degli scrittori: Buzzati.


Un giorno d'impazienza, ambientato in una Napoli dolente con i palazzi ancora diroccati dai bombardamenti, venne accolto con grande interesse dalla critica, che arrivò ad assimilarlo, per come era raccontato il senso di estraneità dei giovani usciti dalla guerra, a ciò che Gli indifferenti di Moravia aveva rappresentato nei primo dopoguerra.

L'incipit:

  Domani alle sei, a casa tua. Domani, cioè oggi. Appena sveglio avevo risentito le parole di Mira. Prigioniere del mio cervello vi camminavano su e giù, come in una gabbia. Ed ora aspettavo il tram al solito posto. Dovevo rivedere Enrico, dopo quello che era accaduto la sera precedente.
  Lo scirocco spazzava il marciapiede. Un effimero sole, che rendeva taglienti tutti gli spigoli, mi colpì la faccia ancora assonnata, oppressa da un oscuro senso di colpevolezza. Rimasi immobile, quasi impigliato, come un insetto nella luce dei fari di un auto.

Il tema è quello antico, eterno, del senso di insicurezza di chi ama, non sentendosi amato; l'angoscia che deriva dall'impossibilità del possesso completo della donna amata, del dolore quando la sentiamo lontana e del fastidio quando e disponibile. Come ha scritto Schopenhauer: La lontananza che rimpicciolisce gli oggetti per l’occhio, li ingrandisce per il pensiero.  Marcel Proust lo sapeva bene.