venerdì 13 maggio 2011

Giovanni Germanetto MEMORIE DI UN BARBIERE Edizioni Rinascita 1950 £ 400 - Prefazione di Palmiro Togliatti

Qualcuno ha detto: "Un popolo senza memoria è un popolo condannato a commettere sempre gli stessi errori". In questi ultimi anni c'è molta confusione in Italia sul ruolo svolto da persone e movimenti politici. E' una confusione e mistificazione alimentata ad arte per bassi fini politici, rivolta essenzialmente a stravolgere la storia che ha visto protagonista il PCI nella lotta contro il fascismo, nella Resistenza e nella fondazione della nostra Repubblica.

Per questo motivo oggi presento questo vecchio libro, comprato tanti anni fa.

E' la storia di Giovanni Germanetto (Torino 1885- Mosca 1959), la storia esemplare di un comunista che ha combattuto tutta la vita per i diritti dei lavoratori, per la libertà contro il fascismo che si andava consolidando nel paese, scontando con anni di carcere il suo impegno democratico.

La prefazione è di Palmiro Togliatti, e già questo è indicativo del ruolo che Barbadirame (questo il sopranome affibiatogli per spregio e da lui mantenuto) ha svolto fin dalla sua fondazione nel P.C.d'I. prima e nel PCI dopo. Collaboratore di Gramsci all'Ordine Nuovo, giornalista autodidatta, che nella sua avventurosa vita ha conosciuto e frequentato personaggi politici e della cultura, tra cui Lenin.

Nato da una povera famiglia operaia piemontese, menomato ad una gamba, con una istruzione approssimativa, garzone e poi barbiere, pacifista prese parte alle lotte antimilitariste contro la guerra di Libia e poi della prima guerra mondiale.

Queste memorie si leggono con piacere perchè il tono è leggero e una sottile ironia (e autoironia) pervade il testo, anche quando racconta i molti momenti drammatici della sua avventurosa vita.

Ha scritto due altri libri Fenicottero (1935) e Travaglio (1939) e numerose novelle,racconti e opere teatrali inedite.

Miriam Mafai BOTTEGHE OSCURE ADDIO (Com'eravamo comunisti) Le Scie Mondadori - 1996 - £ 26.000







Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo - in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e le muraglie e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

Eugenio Montale
"Sul muro graffito" Ossi di Seppia


A prima vista questo intenso libro di ricordi di Miriam Mafai può sembrare un patetico amarcord, destinato agli inconsolabili reduci del PCI. In parte, ovviamente, è anche questo. Ma è anche qualcosa di più, è, ad esempio, un'analisi di come l'insediamento in quella prestigiosa sede abbia modificato il rapporto tra militanti e dirigenti, ma anche una carrellata sul carattere degli inquilini dello storico palazzo.

La storia ufficiale delle Botteghe Oscure comincia nel 1946, poco dopo le elezioni del 2 giugno, quando l'Italia scelse la Repubblica ed elesse l'Assemblea che, sembra incredibile, in soli diciotto mesi di lavoro riuscì a preparare, discutere e approvare la nostra Costituzione.

Il palazzo era li all'angolo tra via delle Botteghe Oscure e via dell'Ara Coeli, ambizioso e incompiuto. Nel 1944 ci mette gli occhi addosso Alfio Marchini, cui Togliatti aveva chiesto, un giorno, di cercare una sede degna del nuovo Pci. Sono dunque i Marchini a rilevarlo, ristrutturarlo e consegnarlo al partito.
La prima sede del Pci era al terzo e quarto piano di un palazzo umbertino in via Nazionale:

Alcune stanze erano state adibite a foresteria per ospitare i compagni che venivano dalle zone liberate, molti ancora con l'improbabile divisa partigiana e il fazzoletto rosso al collo. Si fermavanmo pochi giorni e ripartivano volentieri per le loro città: già allora Roma veniva vissuta, dopo i priomi momenti di curiosità e di entusiasmo, come il luogo del pericolo, la palude dove rischiava di spegnersi la voglia di cambiamento espressa dalla Resistenza.

E infatti di li a poco:


In autunno la Direzione del Pci si trasferì da via Nazionale al palazzo delle Botteghe Oscure. Il traslogo segnava un cambiamento di status, di ambizione, di prospettiva. Cominciava una nuova storia: si metteva fine a una fase della vita del Pci, avventurosa, disordinata e felice, e si metteva ordine nelle stanze, negli archivi e nelle teste.

Un segnale, piccolo ma doloroso, di questo cambiamento di status e di prospettiva venne offerto dall'installazione di due diversi ascensori: il primo, al quale si accedeva direttamente, oltre la vetrata dell'ingresso, era riservato ai membri della direzione e portava ai loro uffici; il secondo, in fondo a sinistra, era per tutti gli altri, compagni dell'apparato, tecnici, e dirigenti. Il segno di una separazione che prima, in via Nazionale, non era nemmeno pensabile. Un piccolo colpo al cuore per quanti, un po' ingenuamente, pensavano che nel partito, in anticipo rispetto alla società, dovessero realizzarsi i principi dell'uguaglianza.

E poi un'analisi del moralismo un po' ipocrita del Pci, con l'esaltazione del ruolo della famiglia, della madre prolifica, il rifiuto dell'aborto, e l'Unità che, riecheggiando involontariamente uno slogan fascista, indicava quale dovesse essere la donna comunista: "madre e sposa esemplare".

Nel capitolo "L'amore al tempo della guerra fredda" Miriam Mafai esamina con occhio disincantato le contraddizioni nei comportamenti di molti dirigenti, rispetto alla norma severa che li vuole integerrimi difensori di monogamia e fedeltà coniugale.

Dal capito "Piccolo mondo comunista":

L'Associazione del pionieri nacque per iniziativa dei giovani comunisti nell'immediato dopoguerra e, per almeno quindici anni, svolse un'intensa attività, sopratutto, ma non solo, In Emilia e Toscana. (.....)

Il pioniere più famoso è Massimo D'Alema che a dieci anni, nel corso del congresso del Pci che si tenne all'inizio del 1959, salì sulla tribuna per offrirte un mazzo di fiori a Palmiro Togliatti e in questa occasione pronunciò il suo primo discorso in pubblico.La mamma ricorda ancora con soddisfazione quell'esordio. Il papà gli chiese se voleva essere aiutato a preparare il suo saluto, ma Massimo rispose di no, lo voleva preparare da solo: "Altrimenti" - spiegò - "se me lo fai tu, io poi non lo so dire"
Un gran bel libro, scritto bene, scorrevole e pieno di notizie utili per giudicare compiutamente un periodo storico del nostro paese.

martedì 10 maggio 2011

CITAZIONI DELLE OPERE DEL PRESIDENTE MAO TSE-TUNG Casa Editrice in Lingue Estere - PECHINO 1967



La distribuzione in Italia del famoso libretto rosso di Mao avveniva, a cura dell'Associazione Italiana per i rapporti culturali e di amicizia con la Repubblica Popolare Cinese in Corso Buonos Aires 2 Milano.

Tutte le edizioni hanno il facsimile dell'iscrizione autografa del Compagno Lin Piao, che recita:

Studiare le opere del presidente Mao, seguire i suoi insegnamenti e agire secondo le sue istruzioni.
Il libro, che è formato da 328 pagine, più 4 di prefazione di Lin Piao e 3 di indice, si articola in XXXIII brevi capitoli tratti dalle Opere scelte o da discorsi tenuti durante congressi, manifestazioni e interviste. E' appunto durante una famosa intervista con la giornalista americana Anna Louise Strong nell'agosto del 1946 che Mao affermò:

Tutti i reazionari sono tigri di carta. In apparenza essi sono terribili, ma in realtà non sono poi così potenti. Da un punto di vista lungimirante, non i reazionari, ma il popolo è veramente potente.

E precisa, qualche anno dopo, all'ufficio politico del Comitato Centrale Cinese:

Dato che non vi è cosa al mondo che non racchiuda in sè una duplice natura (questa è la legge dell'unità degli opposti), anche l'imperialismo e tutti i reazionari hanno una duplice natura - sono al tempo stesso tigri vere e tigri di carta.


La copia in mio possesso è una prima edizione del 1967. Negli anni '70 da noi in Italia non è mai stato esibito nelle manifestazioni, però possederlo, citarlo era un vezzo molto comune tra i giovani comunisti.

Dopo l'aforisma della tigre di carta il passo più famoso e citato è quello sulla rivoluzione:

La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un'pera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità.
La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra. (mazo 1927)

Un libretto utile, non da sventolare per conformismo, ma da leggere per capire un'epoca e un movimento che ha coinvolto milioni di persone nel mondo.




domenica 1 maggio 2011

LO SPETTATORE ADDORMENTATO di Ennio Flaiano - Rizzoli - 1983 - £ 16.000



Malgrado lo abbia frequentato poco, ho sempre molto amato il teatro. Ho sopperito a questa forzosa rinunzia, leggendo molti testi: sia i più economici, pubblicati nella storica Bur (Biblioteca Universale Rizzoli), sia quelli più eleganti della BMM (Biblioterca Moderna Mondadori) fortunatamente supplivano egregiamente alla bisogna; per il teatro contemporaneo in casa entravano regolarmente riviste come Il Dramma e Sipario che ne davano un panorama completo e aggiornato.

E poi i libri che parlano di teatro.

Questa cronaca di fatti teatrali di Flaiano, abbraccia due momenti particolari della vita italiana: dal 1939 al 1942, in piena la guerra, e dal 1963 al 1967, in pieno boom economico.

Tra le curiosità, che da sole giustificano la godibile lettura di questo volume, una nota del 13 aprile 1940, la recensione di una piéce, Gli innamorati, di quel Guglielmo Giannini che soli quattro anni dopo avrebbe creato il movimento politico l'Uomo qualunque.

La stroncatura di Flaiano non potrebbe essere più netta:


Quelle persone che si dilettano di stampare carta moneta non sono, come si crede comunemente, i falsari più pericolosi: tutt'al più costoro sono pericolosi verso se stessi. L'esperienza ci insegna ogni giorno un poco che di gran lunga più temibili sono quei manipolatori delle cose dell'arte che si possono chiamare falsari del gusto e che l'epoca sembra produrre e favorire.
Per costoro poco esiste che sia abbastanza ben fatto: tutto è invece da correggere, da aggiornare e infine da ripristinare: Così ci sono quelli che vorrebbero affumicare il Vittoriano per dargli una parina storica e coloro che invece rimetterebbero a nuovo oggi stesso il Colosseo per ragioni altrettanto storiche di prestigio. I loro punti di vista sono discordi ma il panorama che vorrebbero ammirare è lo stesso.
Alla seconda specia, a coloro che odiano la romantica confusione e gli oltraggi del tempo e vorrebbero tutto nuovo di zecca, ai c
lassici per intenderci, appartiene il commediografo Guglielmo Giannini. Il suo sbracato e paroloso tentativo di tradurre in italiano "moderno" una commedia di Goldoni basterebbe a dimostrarlo se già una sua precedente riduzione scenica di un raccondo di Oscar Wilde non ce ne avesse pienamente convinti.

Segue un'analisi dell'opera originale, con un preciso riferimento alle Memorie di Goldoni dove si evince che i caratteri dei personaggi della commedia da cui è tratta la pièce, sono contingenti al periodo indicato e non trasportabili nello spazio e nel tempo.



I buoni uffici di Giannini ti arrivano addosso all'improvviso come il contenuto di un pitale e nemmeno trovi la forza, nel disgusto, di indignarti e protestare.


E conclude:


Una simile miseria di linguaggio, il piacere del rifacitore nel tuffarcisi dentro e rivoltarcisi come in un letto sfatto, dovrebbero allarmare seriamente. Pensavamo l'altra sera se non sarebbe stato il caso che l'accademico Bertoni (1) dichiarasse lo stato d'assedio al Valle e desse una buona lezione a tutti i colpevoli.

(1)Presidente dell'Accademia d'Italia, glottologo e filologo insigne)
Del periodo successivo, esattamente del 1964, mi ha colpito un articolo che tratta del settimo Festival dei Due Mondi, perché ha riacceso ricordi precisi: la bagarre durante lo spettacolo Bella Ciao, all'esecuzione della canzone anarchica Gorizia da parte di Michele L.Straniero,
"O Gorizia tu sei maledetta/per ogni cuore che sente coscienza/dolorosa ci fu la partenza/ e il ritorno per molti non fu. (ecc)
 ma alla Strofa:



Traditori signori Ufficiali
/voi la guerra l'avete voluta/scannatori di carne venduta

questa guerra ci insegni a punir."


si scatena un putiferio, volano sedie, da una parte si intona Bandiera Rossa dall'altra si risponde con Faccetta Nera, insulti spintoni, insomma si menano.

Così Flaiano:


Ecco, sono bastati quattro versi di una canzone antimilitarista del 1916 a buttare un festival nell'arena politica, con tutti gli inevitabili interventi e, lo sapremo due giorni dopo, con le forse altrattanti inevitabili denunce all'autorità e le interrogazioni parlamentari. Quattro versi di una canzone che dovrebbe essere presa come un documento storico, collocata nel clima che l'ha suggerita, nella delusione di una guerra che doveva durare due mesi e che si andava invece logorando nelle trincee, con centinaia di migliaia di morti: l'inutile strage. (........) Per la seconda rappresentazione un giornale annuncia ottocento agenti di polizia attorno al Teatrino Caio Melisso, cioè quattro per ogni spettatore.

E poi altre chicche: una difesa e una stroncatura per Carmelo Bene, e una garbata stroncatura per Alberto Arbasino, nella doppia veste di traduttore e regista di un'opera di John Osborne Prova inammissibile.

La lettura di questo piacevole libro mi ha ricordato che negli anni '60 Jean-Paul Sartre era un autore molto presente nei teatri italiani, oggi completamente scomparso dai cartelloni, così mi ha preso il desiderio di rileggere una ironica piéce sul giornalismo: Nekrassov. Ma di questo ne perlerò in un prossimo post.

 http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2014/02/ennio-flaiano-lo-spettatore.html

(Riletto e rifatto post il 16.02.2014)