giovedì 21 febbraio 2013

Donna ISABELLA, Principessa di Caposele scrive all'amica veneziana Violante Zanolin






Nel raccontare l’inaugurazione avvenuta il 4 novembre 1737 del Teatro San Carlo a Napoli, Salvatore Di Giacomo riproduce integralmente una lunga lettera che la signora Isabella, principessa di Caposele, ancora eccitata dalla serata trascorsa, scrive alla sua amica donna Violante Zanolin a Venezia.

Da questa  lunghissima lettera, scritta probabilmente con i primi pennini in  oro o in argento che già si producevano nel XVI secolo, esce il ritratto di una donna orgogliosa della sua posizione sociale, che non si lamenta troppo dei tradimenti del marito, abbastanza vanitosa da descrivere con compiacimento l'elegante vestito indossato e gli accessori  ricercati comprati a Parigi, oppure le attenzioni che la sua bellezza ha suscitato in alcuni giovani ammiratori. La lettera ci mostra anche una società dove persino i comportamenti erano rigidamente regolati dal sovrano, che ne stabiliva le regole, con pene severe per i trasgressori.

Per quante ricerca abbia fatto sul web, non sono riuscito a sapere alcunché di questa Isabella, principessa di Caposele, né a trovare un suo ritratto, che sicuramente qualcuno dei grandi pittori napoletani dell'epoca avrà dipinto.   E, tutto sommato, questa è una buona notizia perché significa che per fare vere ricerche storiche bisogna sporcarsi le mani, rovistare tra vecchi e polverosi libri e in-folio, giacenti in biblioteche poco frequentate, negli archivi di parrocchie e conventi o di antiche istituzioni araldiche, o nei musei, perché con un click del mouse si accede solo a una paccottiglia che si ripete all'infinito.

Ed ecco la gradevolissima lettera di Isabella:
                                                                                                            


                                                                                        Di casa, li 4 novembre 1737

Amabilissima mia Violante,
La costanza della tua amicizia è sprone continuo al mio affetto e in tale maniera da farmi del continuo aver presente la immagine tua, così nelle occasioni liete come pure nelle tristi. Sia qualunque il piacere o il dispiacere che l’anima mi tocchi, io sempre a te rivolgo il pensiero, e in quello io dico: Se presente l’avessi come con me godarebbe la mia Violante! E, in questo, sospiro: Se meco fosse l’amica mia come il dolore mi renderebbe men grave!
Sono le due ore della notte. Ritorno dal teatro di San Carlo, questa sera per la prima volta aperto alla maraviglia dei Napoletani e con musica e ballo inaugurato alla invitta presenza di Sua Maestà, Dio guardi.
Il mio signor marito, principe di Caposele, che in questo momento si è menato nel letto e dorme, essendo stanco per lo continuo giro per li palchi di visita, possedeva, come tu ben sai, un palchetto al dismesso teatro di S. Bartolomeo, in dove pagavamo di appalto solo ducati novanta. Lo stesso palco di seconda fila ci viene ora al S. Carlo ducati settecento ma volentieri li vuol pagare mio marito per avere il piacere di godere della vicinanza della M .S. ed ossequiarla. Anzi, non ostante la mutazione dell’aria e il continuo piovere, mio marito si è portato lo scorso giovedì dall’ Uditore dell’ Esercito a fissare il palchetto.


Che spettacolo, Violante carissima! Della musica non ti parlo essendo che tu ben sai che io poco ne capisco di questa musica seria; mio marito dice che è stata lodatissima e diffatti il pubblico con continui battimenti di mani le ha mostrato il suo gradimento. Ma io – giacché siamo a quattr’occhi – ti dico che ci provo maggior piacere quando Scarlatti se ne viene a suonare un allegro o  un minuetto al clavicembalo di casa nostra. Che dir ti posso? Sarro potrà essere un maestro di cappella rispettabilissimo, ma pel teatro, secondo il mio debole parere, è troppo lamentoso. Sua Maestà, Dio guardi, se l’ha fatta a dormire quasi tutta la serata. Insomma musica seria, bella mia, ma seria assai e non fatta per li  nostri orecchi.
Mi sono alquanto dispiaciuta nell’udire da mio marito, informatosene dall’ Uditore, che non si potesse da noi piazzare Impresa alcuna di casa nostra al palchetto fittato. Il Re, Dio guardi, ha ordinato che niuno dei proprietari possa fare scolpire o dipingere nemmeno in cifre le Armi del suo casato nel palco, o altro contrassegno che dinoti Impresa dello stemma gentilizio della famiglia.  Mi ha fatto sommo piacere, al riscontro, l’ordine pure di S. M. emanato che non si dovesse fumare nelli corridoi, per evitare lo sconvolgimento di stomaco delle Dame. Per simile dannoso incomodo il dismesso teatro S. Bartolomeo era diventato una caserma e tu sai come soffro in simili contingenze che poco onorano la nobiltà.
Violante mia, che lumiere, che sfarzo, che colpo d’occhio! Il Re è arrivato in punto all’ora fissata per il principio dello spettacolo e subito la conversazione ch’era nelli palchetti e platea si è interrotta. Il primo cembalo ha attaccato il real pezzo seu l’inno e sono scoppiati immensi battiti di mani con grida di: viva il Re! Viva la Regina! Con levarsi tutti all’impiedi e con riverenze. S.M. la Regina, Dio guardi, stava un prodigio e sembrava, in lontananza, bella al maggior segno, abbenché mi si dice da chi ha potuto avere la fortuna di avvicinarla che sia alquanto rovinata dal vaiuolo in faccia. Il suo pellucchiero non è dei più famosi né S.M. troppo s’intrattiene alla tualetta, per essere piuttosto di modesti e religiosi costumi: la sua tualetta è l’oratorio, la sua acqua di odori è l’acqua santa. Benedetta! Così potessi fare anch’io, preparandomi il posto in paradiso. Ma il mio confessore, don Pietro Vigorito a S. Giacomo, mi ha detto che la tualetta si può fare quando è fatta senza iscandalo e con nobile tranquillità. Se  vuoi sapere come mi sono accomodata con l’aiuto ingegnosissimo dell’abate Zanetti, che tu avesti a conoscere l’anno scorso e che vive di me prigione, eccoti soddisfatta.
Pettinatura all’ Amadigi, abbenché poco mi garbi. Però il pellucchiero dice che li ricci contornano amabilmente l’ovale del mio volto, e bisogna sentire il pellucchiero. Le moschette si portano in quantità ma non mi sono adattata se non che una passionata, due galanti, e una assassina all’angolo delle labbra. Nei capegli ho messo alcune perle delle stesse di cui mi stava un filo doppio al collo nudo. Anche il corsetto tortorella, molto lungo e appuntato come si porta, era filettato in lungo da perle e così le aperture delle maniche a sbuffi, allo margini. Tutta la guarnizione, con alcuni altri complimenti, è amabil dono di mio marito che l’ha comperata a Parigi. La veste è quella che tu ben conosci, di seta di color di rosa e tulipani a  rilievo. Ne ho fatto mutare i falbalà e ci ho messo frangia di merli d’argento che fanno più figura. Alli sgonfii laterali una guarnizioni di nocchette naccarà, che ci stanno un amore. Ventaglio con pitture di un certo Fragonard di Parigi, anche dono di mio marito. Mi dicono che è meraviglioso. Io tutta questa meraviglia non ce la trovo: due puttini, un cane e un poco d’erba, questo è tutto. Invece la montatura d’avorio è ricca assai; le bacchette sono traforate e con il traforo formano il mio nome.
Forse mi sono scollata un po’ troppo: il principino di Tarsia, che stava nel palchetto accanto al nostro, se l’ha fatta a sbirciarmi tutta la santa serata. Peggio per lui. All’uscita mi ha servito il braccio quel giovine viniziano ospite del duca di Telese, nostro vicino di casa. Giovine alquanto pericoloso. Mi andava dicendo per li corridoi che io odoravo “tre mia lontan”, ch’era stata tra le più belle della festa, che meritava un trono. E ogni volta soggiungeva sottovoce: - Mi perdarò la salute, siora Isabella!
Vengo all’opera in musica. La Tesi è stata un portento nella parte di Achille che è uscito vestito da donna, come prescrive il libretto. Ma la Peruzzi mi è piaciuta più assai; è piccola di statura, acconcia ed ha un timbro di voce squisito. La Tesi mi pareva il gigante di Palazzo. Il tenore Amorevoli è stato sorpassato dal secondo uomo Marianino che si attraeva l’universale applauso. Scene stupende del Richini di Torino e ballarini  dei migliori, che molto hanno dilettato S. .M. fino all’ultimo padedù. Al grido finale del coro, nel Prologo in dove apparivano la Magnificenza, la Gloria e la Celerità, tutti levatisi in piedi hanno gridato: Viva Carlo ! E il re con ripetuti abbassamenti del capo ha mostrato il suo Real gradimento.
Mi è piaciuto leggere un Reale dispaccio appeso in corridoio, che non sia permesso di salire sulla scena né prima né dopo la recita sotto pena di due anni di arresto in Castelnuovo per i nobili. Caposele mio marito non ripeterà le sue prodezze di San Bartolomeo. Se tu sapessi che mi ha fatto passare per la cantarina Rosa Albertini che poi fu uccisa, poveretta! Nemmeno si può applaudire senza che il Re o la Regina non ne diano il segno, né far replicare qualche aria che incontri piacere, e ciò per non fare campeggiare alcune poco decenti protezioni le quali hanno bastantissimo motivo di mormorare.
Tu mi dirai: - Come è stato in così poco tempo fabbricato un immenso teatro? – Che dir ti posso? La mia mente ancora stordita dallo spettacolo mi par come immersa in un sogno. Tornando a Napoli vedrai, la mia dolcissima Violante, cosa che non ha al mondo intero la somiglianza, per lusso, per ricchezza, per vastità. Più che mai ti desidero vicina in questo riscontro, onde ammirar tu possa ben presto lo sfarzo di Napoli, delle dame e cavalieri in così nobil luogo raccolti.
Termino con abbracciarti ripetutamente, pregandoti se non ti è grave incomodo, di farmi avere il quaresimale del padre Sampieri, che mi dicono dottissimo, e due paccotti della tua cipria al bergamotto con un paio di guanti fini e lo “zendaletto” viniziano che mi promettesti. Scusami, perdonami, Violante carissima, ma la tua bontà mi spinge: Benedetta el pare che t’ha fata! Con mille e mille baci. Tua
                                                                     Sabella Caposele


domenica 17 febbraio 2013

Salvatore Di Giacomo - OPERE - I Classici Contemporanei Italiani - Mondadori 1965 - £ 12.000



A Salvatore Di Giacomo (1860-1934) è toccato in sorte di essere universalmente ricordato come autore di alcune tra le più belle canzoni napoletane, e quanto questo sia riduttivo è facile capirlo sfogliando questi due meravigliosi volumi che racchiudono tutte le sue opere.  La prima edizione risale al 1946, questa in mio possesso è la VII edizione del 1965. 

Le cronache ci informano che la sua canzone di maggior successo, Marechiaro, era quella che amava meno, tanto che una volta lasciò un banchetto cui partecipava, quando una commensale, venuta a sapere che egli era autore di quella canzone, prese ad elogiarlo con tale calore da causarne l'infastidito allontanamento.

Destinato dal padre agli studi di medicina, li abbandonò in seguito ad un famoso  episodio cui assistette e che racconta in una pagina autobiografica,  presente nel primo volume delle opere. Dopo aver descritto con dovizia di particolari  il macabro ambiente dove venivano svolte le lezioni di anatomia, così prosegue:

Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In  cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati.  Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio ! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto, e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi ! Di sopra il bidello urlava e sacramentava, raggomitolato in un angolo, afferrandosi una gamba lussata...
Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.

Fortunatamente per noi, perdendo il fragile medico guadagnammo il vigoroso  poeta, e il narratore rigoroso che si fece le ossa al Corriere del Mattino diretto allora da Martino Cafiero, per poi passare alla Gazzetta Letteraria e in seguito fondare con Benedetto Croce e altri la rivista d'arte Napoli nobilissima. 

Il primo volume si apre con un saggio introduttivo di Francesco Flora che fin dall'incipit  ne esalta la grande musicalità del verso:

Alla lirica nel senso melodico e primordiale di questa parola, si levò per le sillabe e i numeri del dialetto napoletano, Salvatore di Giacomo. Anch'egli, come il Meli e il Porta, e come i napoletani Cortese e Basile, se volle secondare la sua ispirazione sino alla prima sorgiva, dovette rifarsi al suo vivente vernacolo, che è un perenne "volgare" allo stato virgineo, un italiano potenziale, in cui vige la struttura sintattica, prosodica e radicale della lingua colta, e a un tempo la tradizione parlata, dionisiaca e apollinea in un medesimo raggio. 
 






LETTERA AMIROSA

Ve voglio fa' na lettera a ll'ingrese,
chiena 'e tèrmine scrivete e cianciuse,
e ll' aggia cumbinà tanto azzeccosa
ca s'ha d' azzeccà mmano per nu mese.

Dinto ce voglio mettere tre cose,
nu suspiro, na lacrema e na rosa,
e attuorno attuorno a ll'ammilocca nchiusa
ce voglio da' na sissantina 'e vase.

Tanto c' avita di': "Che bella cosa!
Stu nnammurato mio quanto è priciso!"
Mentr'io mme firmo cu gnostia odirosa:
Il vostro schiavotiello : Antonio Riso.

Di questa scherzosa poesia ricordavo una versione recitata da Nino Taranto, che ho ritrovato su Youtube e che offro volentieri ai lettori del blog.:

http://www.youtube.com/watch?v=5H3fz3DDN_g

In questa poesia, invece, prevale quell' amaro senso della vita di cui parla Benedetto Croce  riferendosi alle Novelle di Di Giacomo (Letteratura della Nuova Italia vol 3-XLV) che invece, a proposito delle poesie, scrive : "Molte hanno uno spruzzo di gaiezza e di scherzo... E tutte sono mirabili per intima musicalità, ora giocoso-amorosa, ora malinconica...."

Così Francesco Flora: "Sulla ripetizione non pur di parole ribattute ma di versi, forma l'estasi della malinconia d'amore, l'arietta Tutto se scorda. Ombrata, segreta dolcezza di un amore che passò, eppure in tanto scordarsi d'ogni cosa, non si oblia".
TUTTO SE SCORDA

Tutto, tutto se scorda,
tutto o se cagna o more;
e na chitarra è ammore,
ca nun tene una corda.

Oggi si' tu: dimane,
forze, n' ata sarrà:
e po? n? ata, chi sa, 
se tiempe ce rummane.

Uocchie celeste o nire,
culure 'e giglio o 'e rosa,
sempre, sempre una cosa,
sempre 'e stesse suspire!

Si, suspiranno, io dico:
"Quanto mme si' custata!"
Talee quale a quacc' ata
tu suspire cu mmico...

Tutto, tutto se scorda,
tutto o cagna o more, 
e na chitarra e ammore,
ca nun tene una corda.

Ma, tremmannom sta mano
cierte vote se scorda :
e torna 'a prima corda
a tentà, chiano chiano.

E nu suonno ca sceta
tante cose, o addurmute,
o luntane, o fenute,
esce  'a sotto a sti ddeta...

Delle sue canzoni quella che di gran lunga prediligo è questa Spingule francese che propongo nella classica versione eseguita da Roberto Murolo:
http://www.youtube.com/watch?v=jJz_eydSUTc



I due volumi sono arricchiti da alcune copie di scritti autografi di  Di Giacomo, questa è la poesia Na Tavernella della raccolta Vierze Nuove
La parte più affascinante, e più sorprendente di quest'opera rimangono - secondo me - Le Cronache, dove ho appreso più di quanto avessi mai saputo su Napoli e la sua storia, i suoi teatri, le sue canzoni, le sue strade, le sue antiche taverne, e poi il "quarantotto", Masaniello, la Sanfelice, e Paisiello e i suoi contemporanei.  Una visione d'insieme di una città vicereale con le sue grandezze e le sue miserie, e la sua grande cultura europea.

 Peccato che in questi due volumi non vi sia traccia di La prostituzione a Napoli nei secoli XVII e XVIII, di cui parla ampiamente con parole di grande elogio Benedetto Croce.

domenica 3 febbraio 2013

Michelangelo Pira - SOS SINNOS - La Biblioteca della Nuova Sardegna - 1983


Devo la conoscenza di questo straordinario libro, inspiegabilmente scomparso dal mondo editoriale, alla cortesia di Natalino Piras, curatore della traduzione dal sardo all'italiano con testo a fronte, che me ne ha donato un esemplare fotocopiato; uscito postumo nel 1983 e  mai più ristampato.

Il suo autore, Michelangelo Pira (1928-1980), prematuramente scomparso a soli 52 anni, è stato un apprezzato giornalista, scrittore, docente di antropologia culturale e storia del giornalismo presso l'Università di Cagliari, nonché uno dei maggiori esperti di lingua sarda. La sua opera più famosa è La rivolta dell'oggetto - Antropologia della Sardegna (1978).

Di letteratura in lingua sarda esiste una centenaria tradizione poetica che è base della cultura popolare, la stessa cosa non è avvenuta per la narrativa, e Sos Sinnos  a buon diritto può essere considerato  il primo romanzo scritto in lingua sarda. 

Una ricerca fatta sul web mi ha confermato che, ancora oggi, dei molti libri in lingua sarda editi, la maggior parte sono traduzioni di classici, ovvero opere poetiche, ma non ancora  narrativa. Si consideri che la lingua sarda è stata per anni considerata un dialetto e negli anni cinquanta-sessanta, con la diffusione dei mezzi di comunicazione e la scolarizzazione diffusa, è stata completamente sostituita dall'italiano, tanto da essere classificata dall'Unesco a rischio di estinzione. 

D'altronde, in quale poca considerazione venga tenuta oggi la limba sarda dallo Stato nazionale, lo dimostra la spending review del governo Monti (luglio 2012), che ha escluso la regione dalle aree caratterizzate da specificità linguistiche, quelle cioè con minoranze di lingua madre straniera, (come francese, tedesco o sloveno), e di conseguenza  tagliando finanziamenti  per la scuola di lingua e cultura sarda,  retrocedendola cioé  a semplice dialetto. Un passo avanti e due indietro secondo  specifico italiota.

Sono un lettore paziente, ostinato e curioso (oltreché impenitente) e con questo insolito libro mi sono regolato in questo modo: prima l'ho letto in italiano, poi in sardo, aiutandomi ovviamente con la traduzione a fronte.

 M'è sembrato che nella necessaria,  indispensabile versione in italiano  l'oscura terribilità del racconto venga in qualche modo rischiarata da una modernità che stride, un po' come se La terra del rimorso di De Martino, fosse illustrato anziché dai raffinati B/N di Franco Pinna, da foto digitali a colori. Questo credo dipenda dal suono arcaico della limba sarda ad un orecchio non allenato. Ho deto arcaico ma penso anche ad arcano, dal quale sembrano emergere quegli aspetti di una società che - a differenza della nostra - non ha rimosso il suo rapporto con la morte.

 I cinque capitoli in cui è strutturato il racconto sono:

  1. Su tempus de su parpu e de s'arrastu (Il tempo del tastare e del fiutare)
  2. Su deinu ((L'indovino)
  3. Milianu (Milianu)
  4. Sa cramata de sos mortos (La chiamata dei morti)
  5. A sa Libra (A sa Libra) 

Questo l'incipit:


Li achia' cumpanzia tumbu; e la ninnaia' tumbu-tumbu. It unu sinnu de su cuminzu, de coment'aia' cuminzatu isse a essere viu e de comente i' galu viu, i' biu. Tumbu-tumbu, tumbu-tumbu, tumbu-tumbu e gai li enia' su sonnu e chene si nd'abizzare si dormiata.
Gli faceva compagnia tumbu; e lo ninnava tumbu-tumbu. Era un segno dell'inizio, di come aveva iniziato lui a essere vivo e di come era ancora vivo. Tumbu-tumbu, tumbu-tumbu, tumbu-tumbu e così gli veniva il sonno e senza accorgersene si addormentava.
E' un libro impegnativo, una scoperta sorprendente, una epifania destinata a lettori curiosi,  quei lettori che non si accontentano dei bestseller in  mostra nelle libreria, ma cercano l'inedito e il favoloso.