mercoledì 23 maggio 2012

Paolo Monelli - LE SCARPE AL SOLE - Il Ponte Mondadori 1965 - £ 1.300


Cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini di muli e di vino, questo è il sottotitolo che Paolo Monelli ha voluto aggiungere al titolo Le scarpe al sole che, nel gergo degli alpini, significa morire in combattimento.

Quando ho comprato e letto, quasi cinquant'anni fa, questo libro era già un successo che Mondadori riproponeva in varie edizioni da dieci anni. Uno di quei titoli sicuri che rappresentavano la base delle fortune editoriali di Arnoldo Mondadori, insieme ai Manzoni, D'Annunzio, Bacchelli, Trilussa, Winston Churchill e tutti i classici italiani. Ricordo una edizione in grande formato con 24 litografie di Mario Vellani Marchi, edito dieci anni prima, e che si vendeva moltissimo ancora negli anni '60 come strenna.

Qual'è stato il segreto del successo di questo insolito libro? Credo la semplicità con cui è scritto e la verità che vi traspare. Paolo Monelli teneva quasi giornalmente una sorta di diario, quando appena ventunenne nel '15 fu chiamato sotto le armi, tenente negli alpini. Quel diario racconta una vita ridotta ai dati più elementari in un rapporto diretto con la natura, nelle marce fra i boschi alla luce di albe fredde, ma anche il cameratismo che è una categoria di fratellanza che la morte improvvisa accomuna, e le grandi bevute e le bestemmie innocue.

 



                                       
Sulle cime del Cauriol, dopo un attacco respinto, il giovane tenente annota sul suo quadernetto:
Sempre quell'odore di cimitero sotto il naso. Ce n'è una ventina ammassati in un crepaccio, che si sfanno lentamente. Ma andarli a tirar fuori, di notte, è un affar serio. La faccia dell'alfiere medico la si vede mutare adagio adagio quotidianamente, sotto la decomposizione: e ieri il suo naso s'è spaccato e ne cola una sanie verde. Ma i suoi occhi sono sempre vivi, e sbarrati - no, non sono io che t'ho ucciso! 
 Non sono io che t'ho ucciso, e poi perché, se eri medico, cacciarti tra le file all'attacco notturno? Avevi una tenera fidanzata che ti scriveva delle lettere bugiarde, forse, ma consolatrici, e tu le tenevi nel portafogli. Rech te l'ha tolto, il portafogli, la notte che t'hanno ammazzato. Abbiamo visto anche il suo ritratto (bellina - ma c'è stato chi ha fatto dei commenti sconci), e la fotografia del tuo castello, e tutte le cianfrusaglie care che tenevi là dentro; un mucchietto nel mezzo, e noi attorno, stretti nel ricovero, lieti di aver respinto l'attacco, con un fiasco per premio alla buona fatica. Tu eri morto da così poco, ed eri già nulla, più nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia; e noi così vivi, alfiere, e così ferocemente vivi che invano cercavo un brivido di rammarico in fondo alla nostra curiosità.  Che ti giova aver guardato il mondo con occhi rapaci, aver tenuto tra le braccia il suo corpo giovane, esser partito per la guerra come per una missione?  Ed anche tu t'inebriasti forse d'altezza e del tuo posto d'avanguardia, e del tuo destino di sacrificio.  Per chi, morto?  I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi abituati alla guerra come ad un ritmo più celere di vita, i viventi che non credono di dover morire.  Come se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita, ma l'abbia annullata. Rimani per un po' di tempo elemento numerico nello specchio del furiere, argomento patetico nel discorso che ti rammemori: ma tu, uomo, non sei ed è come non fossi stato mai.  C'è del carbonio e dell'acido solfidrico sotto a noi, coperto da un mucchio di stracci-uniformi; e ciò chiamiamo morti.
 Ma stasera puzzate troppo, morti.
Allora il capitano Busa ha chiamato quattro mascalzoni che non hanno paura né di Dio né del maggiore, e ha detto:
"Fioi, vi dò una tazza di cognac e la maschera: andate a portarmi via quei morti."
"El cognac el ne lo daga subito, sior capitano."
E più tardi, il capitano Busa racconta:
"Ostia! se no li tegneva, i me sepeliva anca i vivi."

Il giornaliero contrasto tra il sereno eroismo  dell'alpino, e il cieco consueto ottuso formalismo, al limite della stupidità, degli alti comandi. Annota il tenente Monelli:


 
 Colognese è arrivato stamane, in giubba di tela, pallido ed emaciato, e si è presentato al Comando di battaglione.
 "Potevano tenerti ancora un poco giù al deposito, a riposare" brontola il maggiore. "Sei guarito bene?"
"Siorsì."
 "Dov'è la bassa di passaggio? E perché ti mandan fra la neve in giubba di tela?"
"Gnente bassa, salo. Son scampà da Feltre. No me podeve più vedar lavìa. Son scampà sensa dir gnente a nisun."
"Bel pasticcio, adesso. Ti avranno dato per disertore, laggiù."
 A Colognese, che torna dopo quindici giorni di ospedale e cinque di deposito a questa montagna di pena e di spasimo, queste finezze burocratiche paion da ridere. E mentre riprende il cammino della selletta dov'è il suo terzo plotone, il maggiore manda un telegramma al Deposito, spiegando come il caporalmaggiore Colognese sia rientrato di sua iniziativa, con lodevole spirito militare.
 Risposta: il Deposito resta in attesa di conoscere quale punizione è stata inflitta al caporalmaggiore Colognese.

E ancora:

Mattacchioni come al solito, quelli della Divisione mandan su dei mirini luminosi da applicare ai fucili per sparare di notte, e chiedono che si riferisca sulla loro utilità.
"Scriva" detta il maggiore al furiere. "Ottima cosa i mirini luminosi. Ora non resta che rendere luminoso il nemico."

E attese e battaglie, e incomprensibili ordini di ritirata, da una Stato Maggiore che gioca alla guerra come coi soldatini di piombo, e poi tentativi di riconquista di una stessa posizione lasciata al nemico. Infine quando sfondarono a Caporetto, (per ignavia e responsabilità precise del generale Badoglio comandante del 27° Corpo d'Armata) accerchiati dalle truppe nemiche che dilagarono nelle zone abbandonate, anche la compagnia di Paolo Monelli - divenuto capitano - fu fatto prigioniero con tutto il battaglione di alpini.
 Così, dopo le sofferenze e i disagi della trincea, i valorosi alpini conobbero l'umiliazione e la fame nei campi di prigionia. Poi, con uno di quei capovolgimenti della storia che rendono l'esistenza una continua avventura, la capitolazione dell'Impero Austro-Ungarico li trasforma da vinti in vincitori.

Creiamo dunque questo simulacro di riconquista, battaglione armato nel cuore dell'Austria con le armi tolte al nemico, picchetti e pattuglie, ancora le regole dell'ordine interno e del servizio in guerra; fa bene questo risottomettersi ad una disciplina nostra, gli ordini chiusi scattano sul present'arm come una buona molla che s'era lasciata inoperosa.
E poi l'armistizio e il ritorno a casa, dove i riflessi della vittoria sono offuscati da tanti esempi di mediocrità premiata, affarismo dilagante e propensione all'oblio per i tanti sacrifici e le vite dissipate.

Un libro amaro e divertente, profondo e intenso, che ricorda per situazione quel capolavoro che è Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu, che combattè nella Brigata Sassari  sullo stesso fronte degli alpini di Paolo Monelli.

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