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giovedì 31 luglio 2014

Anna Maria Ortese - IL TRENO RUSSO - Viviani Editore 1994 - Edizione speciale per i viaggiatore FS



Nel 1994 le Ferrovie dello Stato stipularono un accordo con Viviani Editore per la pubblicazione di una serie di titoli, già in catalogo dell'editore, da distribuire gratuitamente a cura delle Ferrovie dello Stato sui vagoni ristorante; la scelta per il primo numero cadde fatalmente, per il titolo,  su Il treno russo  di Anna Maria Ortese.

Il programma prevedeva scritti brevi di vari autori, di tutte le epoche e paesi. I titoli che sono riuscito a trovare, della trentina pubblicati, sono questi: Cicerone, De senectute; Dickens, Canto di Natale; le Novelle picaresche di Cervantes, Il barone di Munchhausen di Raspe, Il Monaco Nero di Cechov, La spiaggia di Pavese, Il giro di vite di James, Dialoghi da Operette Morali di Leopardi, l'introvabile Possibile che sia già primavera di Palazzeschi, e vari volumetti di poesia. 

Il treno russo, edito da Viviani, si avvale di una prefazione di Dario Bellezza che definisce mitica la sua autrice, ricordandola come 
Maestra del racconto realistico e fantastico (questi due filoni spesso si mescolano insieme e si coagulano nel suo capolavoro narrativo, L'iguana del 1965), la Ortese se fosse vissuta all'estero, avrebbe avuto una carriera trionfante come Dorothy Parker, tanto per fare un nome....

Il racconto è il resoconto lirico del viaggio effettuato dalla Ortese nel 1954, quale componente di una delegazione dell'Unione Donne Italiane, organizzazione femminile del PCI, invitata  a visitare l'Unione Sovietica. L'avversione della Ortese per il volo aereo, la costrinse ad un solitario, lungo viaggio in treno, da Milano  a Mosca via Praga, senza la compagnia  degli altri componenti la delegazione che viaggiarono in aereo.

Per avere un idea di cos'era il mondo nel 1954, basti pensare che è l'anno in cui a Dien Bien Phu i francesi si arrendono al generale Giap, Nasser prende il potere in Egitto, in Italia scoppia il caso Montesi,  Trieste torna ad essere italiana, e la guerra fredda divideva il mondo: da una parte noi, l'Occidente e dall'altra i comunisti, cioè i cattivi.


Questo viaggio solitario, senza conoscere il russo, le consentirà tuttavia di intrecciare rapporti di grande simpatia con gli occasionali compagni di viaggio: studenti curiosi del nostro paese, ufficiali dell'Armata Rossa che rientrano da  Berlino occupata, una cantante che rientra da Vienna e una varia umanità che, guardata da lontano, sembra inerte, fredda, assorta, ma :
Erano come il mare guardato da lontano: una linea morta, plumbea. Mi accostavo: ecco il fragore, un movimento, una gioia: Ecco le onde. Il profondo mare dell'animo russo da lontano nemico. Da vicino, è fresco, colmo di suoni.

 Il racconto, triste e felice insieme, ma anche toccante per la delusione che emerge per quel Paese che doveva rappresentare la Liberazione dell'Uomo, agli occhi della scrittrice iscritta al PCI,  e che per i toni dimessi con la quale racconterà la società sovietica negli articoli pubblicati dall'Europeo, dai quali è tratto il racconto, dovette subire un impietoso, durissimo pubblico attacco, una vera aggressione verbale, da parte di Rossana Rossanda.
Sembra il destino di Anna Maria Ortese, quello di scatenare violente polemiche all'interno dell'ambiente in cui vive; dopo le polemiche per Il mare non bagna Napoli, stroncato a suo tempo da Rinascita, ecco di nuovo scatenarsi le condanne per la scrittrice che non riesce ad uniformarsi al  comune sentire della sinistra, e destinata alla solitudine dei poeti e dei visionari.

Quando entrammo nel ristorante, in quel momento preciso, dal cielo coperto venne fuori un gran raggio e illuminò tutti i tavoli. Vidi laggiù, al solito posto, i due ufficiali, già seduti. Sembravano di metallo dorato. Alle loro spalle, due giovani in abiti civili e piuttosto eleganti, molto alti. A destra, a sinistra, avanti, indietro, a quei quindici o venti tavolini, sedevano altri soldati e ufficiali sovietici, dall'aspetto curato eppure modesto, insieme a donne e ragazze con qualche pretesa di eleganza - come un cappellino ornato di un nastro di velluto rosso - e, vestiti completamente di nero, due cinesi.
Su ogni tavolo c'erano insalata di cetrioli, champagne, caviale, pane scuro e pane bianco. A qualche tavolo, la cameriera serviva del cioccolato caldo.
Come ieri sera, Pietro sedeva di fronte a me, mi parve per un momento, mentre il sole uscendo dalle nuvole grigie, lo avvolgeva, più pacato. Qualcosa come un sorriso vagava nelle sue pupille azzurro cupo. Volgendosi a Liza mormorò alcune parole in russo, poi come aspettando, guardò me.

« Pietro dice », tradusse Liza, « che il sole è dolce in Russia, se il cuore è in pace »
« Oh si! » dissi commossa.
Liza ripeté a Pietro la mia esclamazione.
L'ufficiale si volse ancora a Liza. Parlava con la dolcezza di una donna.
« Pietro spera », disse Liza, « che questo sole vi accompagni fino a Mosca e poi durante tutto il tempo che rimarrete in Russia e, tornando a casa, lo ritroviate sulla soglia della vostra casa».
Queste parole produssero in me un'impressione violenta. Non potei rispondere nulla e abbassai lo sguardo sul tavolo.
Poco dopo, ecco ancora, davanti a me, una mano spingere un bicchiere di champagne.
 
Questo racconto è un piccolo gioiello, che aiuta a comprendere oltre che la poetica,  anche la personalità di questa grande scrittrice.

Ho trovato libro, completo del suo segnalibro, in vendita su e-bay, non è una novità che la gente  vende di tutto, anche le cose ricevute in regalo!

domenica 13 luglio 2014

Anna Maria Ortese - IL CARDILLO ADDOLORATO - Adelphi 1993 - £ 35.000


Il cardillo addolorato è un romanzo unico nel panorama letterario italiano, (ma questo si può dire di tutte le sue opere), che Anna Maria Ortese (1914-1998) scrisse nel 1993, quando aveva quasi ottantanni!, con una freschezza di linguaggio, un'eleganza e un'ironia, che rende la lettura un piacere continuo; spesso ammiccante con il lettore, la Ortese intesse con lui un dialogo continuo, come a sollecitarne la complicità, nella valutazione dei comportamenti umani.

La storia si svolge a Napoli, alla fine del Settecento, o Secolo dei Lumi, dove tre giovani Signori di Liegi: il commerciante Nodier, lo scultore Dupré e il principe-poeta Neville, si recano per acquistare guanti dal più grande e famoso produttore di guanti europeo, don Mariano Civile, ma anche attratti dalla fama di sfrenatezza e lusso di cui godeva Napoli, rielevata a capitale di un regno, e anche dal suo cupo e sanguinoso passato, come da quelle storie non chiare, remote e dolci, di Sibille, di Sirene, di creature femminili in rapporto con gli Inferi...

Come abbiamo imparato a conoscere dalle opere precedenti, la Ortese eccelle nei ritratti dei suoi personaggi, così dell'artista Albert Dupré descrive l'aspetto:

Egli era bello, è la cosa, al nostro orecchio, come siamo avvezzi a pensare la bellezza, può non voler dir nulla. Ma una qualità rara e indefinibile della sua mente, l'ardore, l'ampliava rendendo quel giovane volto simile a un sole talvolta, a una notte lunare talaltra; mentre quasi eternamente emanava da lui la luce e la dolcezza stordente di una marina ionica nel mese di maggio. Era anche come un bosco in aprile, quando si sciolgono le nevi e i rami delle betulle dondolano simili a sottili braccia d'oro, braccia di bambine. A bella posta abbiamo usato queste espressioni retoriche; senza la retorica, nulla di serio e di vero può essere detto, mancando quel falso ch'è misura o supporto del vero. Almeno questa è la nostra convinzione.
Questa la descrizione dell'incontro delle figlie del guantaio con i nobili signori di Liegi:

Tuttavia, di lì a poco, in un silenzio che era seguito a quella musica lontana, e che pareva sprofondare la casa in una calma di sogno, esse entrarono. E l'attenzione dei visitatori fu tutta per loro.
Nel dire «attenzione» tentiamo di designare qualcosa di meno e di più di una improvvisa ripresa d'interesse, perché in quella repentina, fulminea «attenzione», soprattutto di Dupré e Neville, e soprattutto per Elmina, vi era invece qualcosa di cui i signori non si rendevano conto, simile a uno stordimento dell'anima: ma ecco, essi trattenevano il respiro.
La bellezza di Elmina era grande, e quella di Teresa, benché ancora bimba, non meno; avevano, malgrado la differenza di età, quasi la medesima statura, e non potremmo dire se fosse stata Elmina a limitare, per cortesia, la propria crescita, o Teresa, per ansia di vita, ad affrettarla. Forme piene, per quanto delicate, braccia stupende, nivee dal gomito a cuore alle sottili dita rosee; gli abiti ugualmente rosa, con pettorine di seta rosa adorne di trine color avorio; colli di merletto, avorio o verdino, ricevevano quei due bei volti di fiore, dalle fini sopraciglie d'oro e le pupille anche d'oro (ma in Elmina, a momenti, verdi), come coppe ancora umide di rugiada accolgono a volte una rosa. I capelli biondi erano in ciascuna delle sorelle corti e fittamente ricciuti, ma fermati sulla nuca, per Elmina, da un nodo di raso marrone e un pettine d'ambra; in Teresa, da nastrini. Le fronti appena sudate (la sera era calda), e ingenuo il sorriso in Teresa; in Elmina, grave e riservato. Forse perché maggiore di anni, in Elmina, che portava sul petto una croce d'oro sormontata da una barretta nera, vi era qualcosa di più. Una freddezza, non altro parve a Neville, che si poteva vincere; una distanza, un abisso, parve a Dupré, che non si sarebbe mai potuto superare.
Appurato che lo scrivere è attività faticosa, stancante, anche per chi, come Anna Maria Ortese, possiede una istintiva passione per l'arte dello scrivere,  non si può non rilevare nelle pagine di questo fantastico romanzo, una gioia naturale nella costruzione delle frasi, una felicità manifesta nelle descrizioni, un godimento estetico pieno nelle similitudini. 

Il principe Neville, al termine di una spavalda cavalcata, eccolo entrare nella famosa città di Carlo III, ornata di una delle più belle Regge del mondo, per incontrare un amico:

Il maggio splendeva quel giorno a Caserta in tutto il suo fulgore. Il principe non ricordava di aver visto in Europa, negli ultimi dieci anni della sua gaia vita, un cielo come quello: immensa cupola di un azzurro purissimo e lucente in ogni punto della sua volta, così da richiamare - immagine abusata, ma al momento non troviamo altro - la superficie di un bicchiere appena lavato, appoggiato su una fresca foglia. Sembrava che l'intero mondo tutto colmo di primavera si riflettesse, capovolto, in quel cielo, come usa nei miraggi desertici. Dovunque, insomma, gli pareva che fossero palazzi, fontane e giardini: se guardava in basso, se guardava in alto. Faceva molto caldo.
La vista del Palazzo Reale della città, al quale si era subito avvicinato, portò al culmine la sua emozione di trovarsi in un mondo come quello in cui siamo immersi anche noi, così meraviglioso. L'ammirazione lo sollevava, per così dire, dal suolo.
Si trovò presto a passeggiare, aveva tempo per la sua visita, davanti ai Giardini di quella famosa Reggia: mirabile complesso, da poco compiuto, sorto dalla immaginazione e la colta libertà del sublime Vanvitelli; opera, gli parve,  quasi prodigiosa, serena, la cui vista lo commosse con l'immagine di ciò che poteva essere la vita e la ragione umana, se veramente coltivate, educate. Così non era. Più ancora lo entusiasmò lo scenario dei Giardini e lo esaltò quello delle fontane, e ammirò incondizionatamente l'artista inglese che aveva ideato quel mirabile complesso. Addirittura, quella meraviglia di acque che sembravano - a incantarsi un poco - tante fanciulle convenute a una festa, gli fece sentire un non so che di mistero della vita, mistero che era (gli parve) proprio nella freschezza, fluidità, scorrere e precipitare, sparire e risorgere continuo delle sue infinite forme. In quegli istanti, veramente rapito, aveva dimenticato le sue pratiche, o almeno propensioni e passioni magiche, la curiosità o volontà di malsano dominio delle vite e gli eventi, che lo possedeva. S'inchinò a Dio! Purtroppo, fu un attimo solo! Nel secondo, era tornato di nuovo il sottile, allegro e poco benevolo indagatore e giocatore dei segreti e destini altrui.

Trovo questa prosa di una bellezza assoluta, e penso che, se leggerla è fonte di inesauribile piacere, non lo sarà stato di meno scriverla, e allora non credo di andare lontano dal vero se ipotizzo che la Ortese, che ha avuto una vita tribolata, sia stata pienamente felice solo scrivendo.

Della trama non parlo, per conoscerla è necessario leggerlo il romanzo.



lunedì 30 giugno 2014

Anna Maria Ortese - IL MARE NON BAGNA NAPOLI - Giulio Einaudi 1954 (quarta edizione) - £ 800




Quando questo modesto, discreto, quasi anonimo libricino in brossura, con le pagine ancora da dividere con il tagliacarte, è entrato in casa, giusto sessant’anni or sono, non ha creato particolare impressione nel quindicenne che ero. 

Vorace lettore fin d’allora, credo di aver solo leggiucchiato questo libricino (n.18 della collana I gettoni, voluta e diretta da Elio Vittorini) forse abbandonandolo dopo le prime pagine, perché all’epoca i miei interessi di lettore erano rivolti ai narratori americani, che raccontavano un mondo affascinante e lontano, con ritmi incalzanti e cinematografici.

L'adolescente che ero, in quegli anni successivi alla fine della guerra, non sentiva particolare attrazione per questi narratori italiani, che parlavano della nostra realtà di tutti i giorni, delle nostre miserie quotidiane, con un linguaggio che percepivo come troppo classico, non moderno, inattuale.

Questo atteggiamento verso la letteratura italiana, si estendeva naturalmente al cinema: perché chi aveva vissuto gli orrori della guerra e le ristrettezze e privazioni del dopoguerra, se poteva scegliere: ai capolavori del neorealismo preferiva le commedie, i musical, i polizieschi o gli avventurosi film di cowboy, che Hollywood sfornava copiosamente. 

Ma fortunatamente si cresce....

Lessi veramente Il mare non bagna Napoli, una decina di anni dopo quando, insieme a una maggiore maturità, avevo sviluppato un interesse politico per le cose italiane e per la sua migliore narrativa, scoprendo così una delle più intense opere letterarie mai scritte nella nostra lingua. E in questi giorni sono tornato a leggerlo, dopo la rilettura di Il porto di Toledo,  trovandolo ancora più bello e straziante. E pietoso nel suo appassionato grido di denuncia.

Il mare non bagna Napoli (1953) è la terza raccolta di racconti pubblicati da Anna Maria Ortese (1914-1998), che aveva esordito giovanissima nel 1937, quando aveva appena ventitre anni, su sollecitazione di Bontempelli, con Angelici dolori, poi nel 1950 aveva pubblicato la sua seconda raccolta : L'infanta sepolta.  

Il mare non bagna Napoli comprende cinque racconti, il primo, Un paio di occhiali,  è la drammatica storia di una povera bambina, Eugenia, quasi cecata a cui gli occhiali regalati svelano impietosamente la squallida realtà nella quale vive.

Eugenia, sempre tendendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tramavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia. Con le labbra bianche voleva sorridere, ma quel sorriso si mutava in una smorfia ebete. Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l'aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all'Addolorata; il selciato bianco d'acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava.

Interno familiare racconta invece la storia patetica di una quarantenne, Anastasia, che con il lavoro del suo negozio mantiene tutta la famiglia che, egoisticamente, le impedisce  di  immaginare per se un futuro diverso.

Una passeggiata a Spaccanapoli è lo spunto per il racconto Oro a Forcella, dove la lucidità dell'analisi, privata delle comode scappatoie consolatorie (basta ca ce sta 'o sole, basta ca 'nce rimasto 'o mare) centra dolorosamente l'obiettivo di svelare a una intera popolazione la tragica realtà nella quale vive. 

(...) Faceva contrasto a questa selvaggia durezza dei vicoli, la soavità dei volti raffiguranti Madonne e Bambini, Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei Librai, chini su una culla dorata e infiorata e velata di merletti finissimi, di cui non esisteva nella realtà la minima traccia. Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia; infine una razza svuotata di ogni logica e raziocinio, s'era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l'uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegria. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regima. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all'Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiasti. Qui il mare non bagnava Napoli. (...)

Segue La città involontaria.  Il reportage della discesa agli inferi che l'autrice compie nel gigantesco Palazzo dei Granili. Nato nel 1779 per custodirvi grano e vettovaglie, trasformato in seguito in arsenale di artiglieria, carcere per gli oppositori del regime, lazzaretto, caserma;  alla fine della guerra nel 1945, nonostante l'esteso degrado, divenne rifugio per i senzatetto, conosciuto col nome III e IV Granili. 

(...) Perché il III e IV Granili non è solo ciò che si può chiamare una temporanea sistemazione di senzatetto, ma piuttosto la dimostrazione, in termini clinici e giuridici, della caduta di una razza. Secondo la più discreta delle deduzioni, solo una compagine umana profondamente malata potrebbe tollerare, come Napoli tollera, senza turbarsi, la putrefazione di un suo membro, ché questo, e non altro, è il segno sotto il quale vive e germina l'istituzione dei Granili. Cercare a Napoli una Napoli infima, dopo aver visitato la caserma borbonica, non viene più in mente a nessuno. Qui, i barometri non segnano più nessun grado, le bussole impazziscono. Gli uomini che vi vengono incontro non possono farvi nessun male: larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole, di questi beni non serbono quasi ricordo. Strisciano o si arrampicano o vacillano, ecco il loro modo di muoversi. Parlano molto poco, non sono più napoletani, né nessun'altra cosa. Una commissione di sacerdoti e studiosi americani, che oltrepassò arditamente, giorni or sono, la soglia di questa malinconica Casa, tornò presto indietro, con discorsi e sguardi incoerenti. (...)
Credo fermamente, avendo letto altro della Ortese, che questa forte invettiva nei confronti di una città che tollera questa vergogna, nasca dal suo grande amore per tutti gli esseri viventi, specialmente i più indifesi, e dalla sua incontenibile indignazione per le iniquità, e vera intolleranza per l'indifferenza che le accompagna.
 
E, finalmente, siamo arrivati all'ultimo racconto, Il silenzio della ragione, il botto finale che conclude i fuochi artificiali di questo libro, la cui eco, dopo sessantanni, ancora risuona nelle aspre polemiche, mai sopite nell'intelligencija partenopea, impietosamente ritratta con nomi e cognomi, come aveva voluto Elio Vittorini al momento della pubblicazione.

Tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come adormentarsi sulla neve. Avvertita dal suo istinto più sottile, la borghesia non smetteva di sorridere, e urtata continuamente dalla plebe. dai suoi dolori sanguinosi, dalla sua follia, resisteva pazientemente, come un muro leccato dal mare. Non si poteva prevedere quanto questa resistenza sarebbe durata. Infine, anche la borghesia aveva dei pesi, ed erano l'impossibilità di credere che l'uomo fosse altra cosa dalla natura, e dovesse accettare la natura in tutta la sua estensione: erano l'antica abitudine di rispettare gli ordinamenti della natura, accettare da essa le illuminazioni come l'orrore. Dove nel popolo scoppiava di tanto in tanto la rivolta, e dalle alte mura della prigione uscivano bestemmie e rumore di pianti, qui la ragione taceva in un silenzio assoluto, temendo di rompere con la benché minima osservazione l'equilibrio in cui ancora la borghesia si reggeva, e vedere i suoi giorni sciogliersi al sole, come mai stati. La paura, una paura più forte di qualsiasi sentimento, legava tutti, e impediva di proclamare alcune verità semplici, alcuni diritti dell'uomo e, anzi, di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo. Tollerato era l'uomo, in questi paesi, dall'invadente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata di vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo in apparenza era idillica e soave. Tutto qui sapeva di morte, tutto era profondamente corrotto e morto, e la paura, solo la paura, passeggiava nella folla da Posillipo a Chiaia.

Un racconto che è anche un giudizio politico su un periodo storico, gli anni '50, che videro compromessa la possibilità di uno sviluppo diverso per Napoli, asservita alle scelte del comando americano, che mortificava lo sviluppo della città e favoriva la nascita dell'astro politico dell'epoca, l'armatore Lauro.


Qui di seguito si può approfondire la conoscenza di questa nostra grande autrice che, ancora oggi, non viene letta abbastanza.


https://www.youtube.com/watch?v=RAczJdzZzUg
https://www.youtube.com/watch?v=FYVzVnc4pl8
https://www.youtube.com/watch?v=BkTrYqCsHfM
https://www.youtube.com/watch?v=Wj1MkW9TRfE

https://www.youtube.com/watch?v=oFCQpBYeFMU

https://www.youtube.com/watch?v=7TdhivHOl3E



sabato 17 maggio 2014

Anna Maria Ortese - IL PORTO DI TOLEDO - Ricordi della vita irreale - Rizzoli Editore 1975 - £ 5.000



I. DESCRIVE LA SUA CASA NELLA CITTA' BORBONICA, E LA SUA SOLITUDINE IN DETTA CASA CHE ERA SITUATA DAVANTI I CANCELLI DEL PORTO. APA E MAMOTA. PRIMI INTERROGATIVI DELLA MENTE CHE SOGNA.
Sono figlia di nessuno, nel senso che la società, quando io nacqui, non c'era, o non c'era per tutti i figli dell'uomo. E nascendo senza società, in certo senso io non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all'alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno. Non starò perciò a dire dove nacqui, e come vissi fino agli anni tredici, età cui risalgono questi scritti e confuse composizioni. So che un certo giorno mi guardai intorno, e vidi che anche il mondo nasceva: nascevano montagne, acque, nuvole, livide figure.

Così comincia questo sconvolgente romanzo che Anna Maria Ortese (1914-1998), enfant prodige del nostro novecento, scrisse nella piena maturità con una sorprendente  freschezza narrativa.

Chi è Anna Maria Ortese? Su questo blog ho già parlato di un suo romanzo, che presentato dal poeta Alfonso Gatto vinse nel 1967 il premio Strega: Poveri e semplici.

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/2013/11/anna-maria-ortese-poveri-e-semplici-i.html

Stupisce che una scrittrice così fantasiosa, che ha sempre utilizzato un linguaggio moderno, al limite dello sperimentale, non abbia tutti i  lettori che merita e sia quasi sconosciuta alla maggior parte degli italiani.  

Viene quasi di pensare che la sua marginalità nel panorama letterario del novecento italiano, sia la conseguenza dell'implicita "condanna", emessa dall'establishment culturale all'epoca della pubblicazione di Il mare non bagna Napoli,  come se quella "condanna" fosse ancora valida e operante.

Riassumere questo romanzo - che all'epoca della sua uscita fu accusato di eccesso di manierismo  e sublimità  -  è impossibile, come riassumere Cent'anni di solitudine. Puoi citare dei personaggi, dire dei nomi ricorrenti, ma l'essenza rimane ineffabile.

Nella seconda e terza di copertina è la stessa Anna Maria Ortese a definire il suo romanzo, pieno di stranezze e disordini formali:

Se mi si chiedesse cosa ne penso: ricordo solo la fatica, forse vana, che m'è costata: per sistemare passabilmente linguaggio e struttura che non avevo pensato così; per capire chi fosse questo personaggio tanto fuori di sé e malinconico (che a volte temevo poter essere stata io) e l'uomo dai molti nomi appoggiato all'angolo della Rua Azar. E dove questa Rua Azar, e le altre.
Insomma, dove tutto. Non in questo mondo, certo. (In questo mondo, credo non ci sia nulla).
Mi dispiace di aver scritto tanto di cose così assurde, e comunque non comprensibili neppure a me stessa. Di aver liberato una persona così inesplicabile e triste. E tante altre ombre. Ma esse - e la città perduta dove camminavano - non sono di qui e di nessun luogo. Devono, quindi, essere prese per sogni, o narrazioni confuse dal vento (così negli armadi marini di Austen, e Bath, 200 anni fa), e come tali, a lettura finita, considerare.
E' chiaro che la Toledo che Damasa Figuera percorre non è terra di Spagna - basterebbe la improbabile presenza di un porto di mare ad escluderlo - somiglia più a una Napoli, sperduta provincia di  Macondo o  Comala o Paskas, nella regione di Chentomines.

Toledo come un vecchio teatro*, come se le sue strade e case fossero quinte, senza rumore alcuno cadeva. Si, io la vedevo cadere; la gran via, il corso, i palazzi della Citta reale, intorno alla Plaza de Carlo; i chiusi e odorosi di gelsomino recinti monacali; i campanili quadri, le torri accigliate (così scure, un tempo, nella rossa sera); tutto, lentamente, sotto croci bianche, in una luce verdastra, lentamente cadeva.
Poi, venne fino a noi un gran vento.
Tale, nel mio sogno, pareva.


Rendiconto del BARRIO
Quel tempo là era l'adolescenza; e forse tale turbamento mi veniva dal trovarmi piuttosto senza scopo tra questi larghi orizzonti marini, e cieli gialli e navi, e poi tra tali vicende di persone e non mie, di un tumulto alla base costantemente monotono.
Apa si era assuefatta ormai alle vie del barrio, e le amava, ma indifferente quasi alle sventure della gente, e dicendo mirabilia di Monte Serrat.
Era una vita dolce. Un nostro marine maggiore andava intanto anche lui sui mari, tornandone certe sere di tempesta con un agnello da arrostire, portato dalle isole di Pietra, che qui era grande festa. Vi erano poi altri mirabili avvenimenti, come in luglio la festa della Roseda (Reyna al Mare Interrado) e, in settembre, quella dell'adolescente nera - Mosera chiamata.

Una qualche curiosità spero proprio di averla provocata !

In questo link Giorgio Di Costanzo ricostruisce il rapporto speciale di Anna Maria Ortese con Il porto di Toledo, il romanzo da lei più amato, citando il contributo di Franz Haas in occasione del centenario della nascita della grande scrittrice, promosso dal blog Letteratitudine

 https://www.facebook.com/giorgio.dicostanzo.3/posts/731701980225125

http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/06/11/il-centenario-della-nascita-di-anna-mariaortese/

lunedì 11 novembre 2013

Anna Maria Ortese - POVERI E SEMPLICI - I Premi Strega - Club degli Editori 1970


Anna Maria Ortese (1914-1998) è considerata, insieme ad Elsa Morante, la maggiore narratrice   che il nostro Novecento abbia prodotto.  

Poveri e semplici (1967) è il suo secondo romanzo, il primo era stato L'Iguana (1965), seguirono: Il porto di Toledo (1975), Il cappello piumato (1979), Il cardillo innamorato (1993), Alonso e i visionari (1996). 

Ma l'attività della Ortese ha spaziato in tutti i territori della narrativa: racconti, novelle, cronache, poesia. Ed è proprio con una raccolta di racconti,  Angelici dolori, che esordisce nel 1937, ma sarà nel 1953 con il dirompente  Il mare non bagna Napoli, che all'epoca fece, per ragioni diverse, scalpore quanto il recente Gomorra di Saviano, ad imporla prepotentemente all'attenzione del paese. Il libro ottenne un  premio speciale a Viareggio, che non la compensò delle infinite  polemiche  con gli intellettuali di Napoli, criticati - forse ingiustamente - in modo spietato.

Maria Bellonci, parlando del Premio Strega 1967 alla Ortese, ricorda che in quegli anni la pornografia si affacciava prepotente al cinema e pareva condizione addirittura necessaria per chi si mettesse a scrivere. E qualcuno ha visto  nella scelta del libro della Ortese una forma di tacita ribellione dei votanti contro la moda dell'imperante oscenità. 

 Prosegue Maria Bellonci:

Poveri e semplici è un libro esile, forse semplice ma non povero; è un piccolo poema di una purezza inquetante e come sul punto di frantumarsi, una memoria del tempo perduto e ritrovato nelle sillabe sguarnite.

Scrive nella prefazione il poeta Alfonso Gatto:

Poveri e semplici è la poesia degli esseri e dei sentimenti che mandano avanti il mondo. E' un racconto inaspettato, di illuminata felicità, di vivente trepidazione. Una scrittrice chiama l'amore, e con parole che torneranno dal silenzio e dal cuore degli uomini. «Io lo sentivo, sentivo ch'era dappertutto: in quest'acqua, nei monti, negli occhi degli uomini,nella miseria come nella gioia, dove si resisteva, dove si apettava.» E non so se sia il gesto della parola - una parola energica, risoluta, più che espansa - a dare il piglio di questa lontana vista, là dove la Ortese è col suo «primo sole», nel dirci: «... a volte, solo a pensarlo, mi veniva di portarmi una mano, ridendo, sugli occhi».


I poveri e semplici del romanzo sono giovani appena usciti dalla guerra e dalla lotta di liberazione, per loro i valori della resistenza sono ancora valori assoluti, e  comunismo non è un'astrazione ideologica, ma pratica quotidiana, più simile al socialismo utopico ottocentesco che a un regime autoritario e centralista. Ingenui e generosi, estranei alle rigide contrapposizioni partitiche, sembrano essersi imbevuti piuttosto che di testi rivoluzionari di Leaves of Grass di Whitman o Canto general di Neruda.

Roy era con noi quella sera, e ora guardava il giornalista, ora Andrea, ora me, con un sentimento che mi stupiva: di simpatia e  amicizia, che finora, così apertamente, non aveva mostrato mai.
 «Ho saputo, Gill, che tu canti, qualche volta... hai una bella voce», disse rivolto al nostro nuovo amico.
Questi si schernì, proprio perché era vero, e anzi, per una canzone partigiana, che cantava meravigliosamente (e partigiano lo era stato davvero, sebbene per poche settimane, e anche, credo, ferito), intitolata Quinto Reggimento, lo chiamavano scherzosamente «El Quinto». Ma poi come ripensandoci, si accostò a Roy, e sfiorando con un dito la chitarra che il ragazzo reggeva sulle ginocchia:
«Carmela: conosci Carmela?», domandò. Era un'altra bellissima canzone di guerra, ed egli ne accennò qualche nota, con una voce che non mi parve niente di eccezionale, bassa e roca.
(...........)

Io provavo una serenità, un bene, come una resurrezione, dentro di me, che senza eccitarmi molto, causa la mia fredda natura, però mi esaltava, e vedevo ogni cosa tanto perfetta, la bella sera verde, quei giovani, la mia Soniuccia, la buffa e cara figura del Barone, quasi tutto ciò io lo avessi sempre aspettato, e fosse perfetto, e non trascolerebbe più. E abbassai il viso, per la piena di questi sentimenti, come  a prolungarli o intenderli meglio.

Questo volume del Club degli Editori, collana I Premi Strega, contiene anche il romanzo L'Iguana, che quando uscì nel '65 incontrò un solido muro di incomprensione. Ma trattandosi di un romanzo assai diverso di Poveri e Semplici, per la sfrenata fantasia che lo sostiene, facendone uno dei pochi casi di realismo magico della letteratura italiana, credo per questo opportuno parlarne prossimamente, e in modo circostanziato.

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