venerdì 17 aprile 2015

Milan Kundera - L'IMMORTALITA' - Adelphi 1990 - £ 26.000






L'arte del romanzo in quest'opera di Milan Kundera, pur essendo modernissimo nella struttura, raggiunge livelli di perfezione, di completezza e di bellezza formale riscontrabili solo nei grandi classici.
Come tutti i suoi romanzi, anche L'immortalità è diviso in sette parti, di cui solo la terza contiene venti capitoli, mentre le altre sei parti sono costituite da un unico capitolo. Kundera ha spiegato come i suoi romanzi siano concepiti come una composizione musicale, dove ogni parte rappresenta un movimento e ogni capitolo un tempo.
L'autore, che è per sua esplicita ammissione l'io narrante, fin dal primo capitolo ci rende partecipi del processo creativo: la protagonista, Agnes,  nasce sotto i nostri occhi dall'osservazione di un gesto colto nella quotidianità intorno al quale l'autore sviluppa l'intreccio.

Questo il magistrale incipit, che val la pena di includere con tutto il primo paragrafo:

La signora avrà avuto sessanta, sessantacinque anni. La guardavo, steso su una sdraio di fronte alla piscina di un circolo sportivo all'ultimo piano di un moderno edificio da dove, attraverso grandi finestre, si vede tutta Parigi. Aspettavo il professor Avenarius, con il quale mi incontro lì di tanto in tanto per fare due chiacchiere. Ma il professor Avenarius non arrivava e io osservavo la signora. Era sola nella piscina, immersa nell'acqua fino alla vita, lo sguardo rivolto in su verso il giovane maestro di nuoto in tuta che le stava insegnando a nuotare. Ora lei ascoltava le sue istruzioni: doveva aggrapparsi con le mani al bordo della piscina e inspirare ed espirare profondamente. Lo faceva con serietà, con impegno, ed era come se dal fondo delle acque risuonasse la voce di una vecchia locomotiva a vapore (quel suono idillico, oggi ormai dimenticato, che per coloro che non l'hanno conosciuto può essere descritto soltanto come il respiro di un'anziana signora che inspira ed espira forte vicino al bordo di una piscina). La guardavo affascinato. Ero attratto dalla sua comicità commovente (anche il maestro l'aveva notata, perché ad ogni istante gli si contraeva un angolo della bocca), ma poi qualcuno mi rivolse la parola distogliendo la mia attenzione. Poco dopo, quando volevo tornare a guardarla, l'allenamento era finito. La donna si allontanava in costume da bagno facendo il giro della piscina. Superò il maestro di nuoto e quando si trovò a quattro o cinque passi di distanza, girò la testa verso di lui, sorrise e lo salutò con la mano. E in quel momento mi si strinse il cuore! Quel sorriso e quel gesto appartenevano a una donna di vent'anni! La sua mano si era sollevata con una leggerezza incantevole. Era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare con il suo amante. Quel sorriso e quel gesto avevano fascino ed eleganza, mentre il volto e il corpo di fascino non ne avevano più. Era il fascino di un gesto annegato nel non-fascino del corpo. Ma la donna, anche se doveva sapere di non essere più bella, in quel momento l'aveva dimenticato. Come una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori del tempo. Forse è solo in momenti eccezionali che ci rendiamo conto dei nostri anni, mentre per la maggior parte del tempo siamo dei senza-età. In ogni caso, nell'attimo in cui si girò, sorrise e salutò con la mano il giovane maestro di nuoto (che non resse e scoppiò a ridere), lei ignorava la propria età. In quel gesto una qualche essenza del suo fascino, indipendentemente dal tempo, si rivelò per un istante e mi abbagliò. Ero stranamente commosso. E mi venne in mente la parola Agnes. Agnes. Non ho mai conosciuto una donna con questo nome.

Dal nome della protagonista, dal suo semplice gesto del braccio alzato per salutare, si sviluppa una storia avvincente, con escursioni in epoche diverse e il coinvolgimento di personaggi della letteratura come Goethe e Hemingway, chiamati nel loro ruolo di "immortali", in una partitura che ha tutte le caratteristiche della polifonia romanzesca, già teorizzata da Kundera nel saggio L'arte del romanzo (Adelphi, 1986).

La lettura è piacevole e avvincente, pervasa da quel sottile humour che è la cifra caratteristica di questo grande narratore contemporaneo.

mercoledì 15 aprile 2015

Salvatore Satta - IL GIORNO DEL GIUDIZIO - Adelphi 2011 (IX Edizione) - € 22,00






Devo ad un felice suggerimento di Natalino Piras la conoscenza di questo capolavoro della letteratura italiana del Novecento, che  ho letto lentamente,  traendone quel piacere che ci riservano solo quei testi che non si vorrebbe mai finire. Un tesoro inaspettato.

Non sappiamo se Salvatore Satta (1902-1975), illustre giurista, autore di fondamentali testi di diritto, avesse intenzione di pubblicare questo suo romanzo, Il giorno del giudizio, che uscì postumo nel 1977, presso l'editore delle sue opere giuridiche, dopo il ritrovamento del manoscritto da parte dei famigliari. Il dubbio è legittimato da quanto Satta fa dire all'io narrante, all'inizio del III capitolo:


Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte, nella loggetta della casa che mi sono costruito nei lunghi anni della mia laboriosa esistenza.

Fortunatamente il drastico proposito non ebbe modo di realizzarsi, posto che l'autore avesse realmente quell'intenzione, così il manoscritto fu ritrovato e pubblicato con grande soddisfazione di tutti gli amanti delle buone letture.

Passato sotto silenzio alla sua uscita nel 1977, forse a causa della specificità dell'editore, noto soprattutto nel settore giuridico, venne riproposto nel 1979 da Adelphi, e questa volta il romanzo si impose subito all'attenzione della critica, divenendo ben presto un clamoroso caso letterario.

Se somiglianza c'è, come qualcuno ha scritto, tra quest'opera e Spoon River, non è tanto nella rievocazione dei morti, nel groviglio inestricabile dei loro destini in vita, quanto nel senso di tragedia che li accomuna tutti, nella  consapevolezza di scontare l'imperdonabile colpa di essere stati vivi.

Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d'ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso alla loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccontare nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria.
Cercando in internet notizie su Salvatore Satta, ho trovato questo interessante commento del Prof. Massimo Pittau, linguista e glottologo, studioso di lingua sarda nonché nuorese come Satta, che chiarisce alcuni termini e modi di dire utilizzati nel romanzo.

http://www.pittau.it/comune/satta.html

venerdì 20 marzo 2015

Vladimir Nabokov - RISATA NEL BUIO - Mondadori 1961 - £ 300

Questo romanzo di Vladimir Nabokov (1899-1977), che Mondadori stampa nella gloriosa collana del Pavone nel 1961, nella speranza di replicare il clamoroso successo  di due anni prima con Lolita, è in realtà un romanzo scritto in russo nel 1932 dal titolo Kamera Obskura, e tradotto da Winifred Roy nel 1938 col titolo Laughter in the dark.

Com'è noto Lolita ha la struttura narrativa di un manoscritto-confessione, redatto dal protagonista Humbert Humbert,  in carcere in attesa di un processo che non si celebrerà per l'avvenuta morte - trombosi delle coronarie - dell'imputato. Nella finzione narrativa la pubblicazione, sotto forma di romanzo, avviene su disposizione dell'avvocato, a cura di un John Ray Junior che nella premessa, al di là dei pregi letterari dell'opera, ne esalta il significato etico.

In Risata nel buio, che è raccontato in terza persona, il dramma viene anticipato fin dall'incipit:

Viveva un tempo a Berlino un uomo che si chiamava Albinus. Era ricco, rispettabile, felice: un giorno lasciò la moglie per amore di una giovane amante: amava, non riamato, e la sua vita finì in una catastrofe.
La storia è tutta qui e avremmo potuto fermarci a questo punto se il raccontarla non fosse stato utile e piacevole: quantunque sulla pietra tombale di ognuno vi sia spazio sufficiente per contenere, incorniciato di muschio, il compendio di una vita umana, i particolari sono sempre graditi.

A differenza di Lolita, che è un romanzo ricco di osservazioni interessanti sulla società americana, descrizioni colorite sul paesaggio, profonde analisi sui comportamenti umani, questo, in confronto, è  spoglio, essenziale, addirittura povero nel linguaggio, racconta direttamente il fatto, e i personaggi non sembrano vivere di vita propria, un po' burattini nelle mani  di uno scaltro autore, intenzionato a bissare il successo di Lolita.

Nella seconda di copertina l'editore conclude la presentazione del romanzo con queste parole:

Lolita è un caso limite che il pubblico ha universalmente acclamato, Margot (la protagonista di Risata nel buio) è una figura concreta, prodotto di una determinata società (?), che il pubblico può riconoscere nella vita quotidiana. Più drammatica e disperata di Lolita, Risata nel buio è un'opera che senza dubbio contenderà alla prima la palma del successo.
Non credo che l'auspicio dell'editore si sia realizzato.



sabato 7 marzo 2015

Antonio Caprarica - IL ROMANZO DI LONDRA - Sperling & Kupfer 2014 - € 18,50


Questo è uno di quei libri di cui non si programma l'acquisto, salvo essere un grande ammiratore di Antonio Caprarica; ma può accadere che essendo in libreria, magari per ordinare un libro, è facile che ci si lasci tentare dalla bella edizione esposta, dal titolo accattivante, dall'immagine allusiva: così improvvisamente senti il bisogno di conoscere queste storie, segreti e misfatti di una capitale leggendaria.

Se poi sfogli il volume e cominci a leggere l'amabile, lunga introduzione, è abbastanza prevedibile che ti convinca all'acquisto:
Scrivo queste righe con la melanconia di un marianio che sbarca dopo un lungo periplo. Solo quando affida al foglio la memoria delle meraviglie che ha incontrato si rende conto del tempo trascorso e dei mutamenti che intanto hanno cambiato, oltre alla sua, anche la faccia del soggetto del suo racconto. Sono stato così a lungo «imbarcato» sulla nave di Sua Maestà «Londra»che comandanti ed equipaggi, mozzi, macchinisti, calafati e passeggeri si sono avvicendati a più riprese. E ogni volta sono cambiate abitudini sociali, galateo e covenzioni, mode e linguaggi.
Non intendo aggiungere l'ennesima metafora alle tante usate per Londra. Un albero, un corpo umano, un gigante, un giovinetto baldanzoso ma evidentemente macrocefalo. Non sono mai riuscito a riconoscerla in nessuna di queste immagini. E se proprio tirato per i capelli, l'ho semmai paragonata a una vecchia pantofola per la comodità della vita che offre a confronto di quella scarpina a punta come Parigi. (E Roma, dite?....rumorosa come uno zoccolo?)
Parlo di Londra come una nave solo perché il lungo tempo che ho trascorso a «bordo» coincide con gran parte del mio viaggio verso la maturità. Perciò non ho mai avuto di lei un'immagine statica ma perennemente in movimento. Con quel moto lento e incessante che solo le lunghe crociere possono offrire. E' la ragione per cui questo libro che vuole raccontarla non può che offrirne istantanee. A studiarle ognuna un po' più da vicino, lo sfondo si sgrana ma dalla folla dei visi, dal labirinto dei gesti, una faccia si stacca, una vita si anima, un segreto si svela.    E' questo il momento che Londra racconta la sua storia. E che io ho cercato di raccogliere per voi. (......)

In dodici capitoli densi di fatti storici, tutti legati ai luoghi simbolo di Londra, con salti temporali che rendono la narrazione fluida e piacevole, Antonio Caprarica ci racconta storie antiche e moderne che nascono dalle strade e dalle pietre, dai luoghi più gloriosi, paurosi e incantevoli della metropoli leggendaria. 

Drammatica come una cronaca giornalistica la descrizione del Grande Incendio di Londra del 1666:

... gli incendi, in quella Londra di legno, erano all'ordine del giorno, e questo non sembrava niente di straordinario, Samuel Pepys scosse le spalle e se ne tornò tranquillo a letto.
Purtroppo era quello che aveva fatto anche il Lord Major della City quando gli avevano portato le prime notizie. La panetteria di Thomas Farriner si trovava più o meno alla metà di Pudding Lane, giusto dietro lo Star Inn di Fish Street, che è il principale accesso da nord al London Bridge. (.....)
Mentre il fuoco muoveva ormai dal forno carbonizzato alle case vicine, i pompieri suggerirono di non perdere tempo e di fargli il vuoto attorno demolendo le abitazioni ancora intatte. Ma Bludworth era un pusillanime che non osava toccare gli edifici senza il consenso dei proprietari: e dove trovarli? Il Lor Major si rifugiò in una fanfaronata. Dopotutto, disse, il fuoco non gli sembrava così serio,  «una donna può spegnerlo facendoci la pipì». E con questa battuta che lo consegnò alla storia, se ne tornò a letto.
Mentre lui dormiva il fuoco dilagava. Da Cheapside scese giù verso il Tamigi, lungo Cornhill, Tower Street, Fenchurch Street fino a Baynard's Castle.

Intervenne direttamente il Re, Carlo II, che navigando con la chiatta reale sul Tamigi, raggiunse il luogo dell'incendio e diede ordine di abbattere tutte le case sulla strada dell'incendio. 
In quattro giorni, dal 2 al 6 settembre, il fuoco si era mangiato cinque sesti della City, 460 strade, 13,200 case. Distrutte ottantanove chiese e quattro delle sette porte cittadine. Solo un miracolo aveva consentito che le vittime di una simile catastrofe fossero ufficialmente appena sei.

 Nel 1945 ci pensarono i bombardamenti tedeschi a trasformare gran parte della capitale, la City e L'East End soprattutto, in una tabula rasa su cui edificare una nuova Londra, più grande, più bella e più moderna.

La lettura di questo libro equivale a un tour esclusivo, un'escursione sulle tracce dei luoghi, degli eventi e delle personalità che hanno reso Londra una capitale leggendaria.

venerdì 27 febbraio 2015

Francesco Pinto - LA STRADA DRITTA - Mondadori 2014 - € 18,00





Se una cara amica non mi avesse indotto alla lettura di questo libro, portandomelo recentemente in una occasione conviviale, non ne avrei saputo niente, perché è escluso che, anche incrociandolo sui banconi di una libreria, sarei stato indotto all'acquisto.

Pur essendo vissuto e avendo viaggiato in un'epoca in cui per arrivare in auto da Roma a Firenze bisognava percorre la via Cassia, attraversare Sutri, Viterbo e poi affrontare la tremenda salita tutta curva di Radicofani, dove le possibilità di una Fiat 600 erano messe a dura prova, cosa poteva dirmi di emozionante un libro sull'Autostrada del Sole?

Poi ho cominciato a leggerlo e ho capito perché Francesco Pinto, direttore di Rai Tre dal 1998 al 2002, lo ha scritto e perché l'amica Tiziana me lo ha portato in lettura.

Nel panorama di sfiducia nei confronti dello Stato e della Pubblica Amministrazione, che sembra aleggiare come una condanna sui nostri connazionali, questo romanzo dell'Autostrada del Sole di Francesco Pinto potrebbe agire come un balsamo per restituire speranza e orgoglio a un popolo di depressi. 

Dal 19 maggio del 1956,  giorno in cui su uno sterrato di poche centinaia di metri viene dato inizio ai lavori, senza un progetto definitivo, senza le tecnologie, ne le competenze professionali, ma neanche i soldi necessari, al 4 ottobre del 1964, appena otto anni dopo e in anticipo sui tempi previsti, una striscia di asfalto lunga 755 chilometri collega Milano con Napoli, il Nord con il Sud.

Armati di coraggio e di orgoglio, come se il lavoro benfatto avesse dignità e valore, come i costruttori di cattedrali che siamo stati, in otto anni, pagando un prezzo altissimo in vite umane, un esercito di manovali, carpentieri, tecnici, progettisti combatte senza sosta dall'alto dei viadotti e nel buio delle gallerie, nel fango degli inverni e nell'afa delle estati per rispettare la promessa della sua costruzione, in un percorso impossibile, con soluzioni tecniche ardite e record costruttivi mai eguagliati.

Il gruppo guidato da Fedele Cova, con il transatlantico Cristoforo Colombo, si reca negli Stati Uniti per incontrare chi le autostrade le conosce per averle fabbricate: il maneging director della New Jersey Turnpike, Louis Tonti:

Tonti era quasi costretto ad urlare a causa del rotore, per descrivere agli italiani le caratteristiche della sua autostrada.
«Basta guardarla dall'alto per capire la differenza con una strada normale» spiegava Louis «Un'autostrada non va alla ricerca dei paesi, delle città che deve raggiungere, non si piega alla geografia e nemmeno alla storia. Non farà mai una deviazione per raggiungere un villaggio che poi è diventato un grande insediamento urbano: ha un lavoro da svolgere e lo fa in modo razionale. Corre dritta, il più dritta possibile perché la retta è il sistema più veloce per andare da un posto a un altro»

E quando l'ingegnere Cova rivela all'americano le dimensioni e le caratteristiche dell'autostrada che vogliono costruire:


«Settecentocinquanta chilometri? Mille metri d'altezza?» Tonti era colpito: «Ma che razza di autostrada volete fare? Quali città volete unire?»

Prima di rispondere, Cova, si prese un attimo di tempo, guardò la sua squadra, poi l'americano, e finalmente si decise, scandendo bene le parole.
«Non si tratta di unire delle città, si tratta di unire il Paese.»
L'emozione che il romanzo - almeno a me -  trasmette, è proprio nei fatti concreti che racconta, sull'ostinazione di un gruppo di uomini visionari, decisi ad andare avanti come i bulldozer che aprivano il tracciato, scontrandosi con la cecità di burocrati e funzionari dell'Anas che, ad esempio, non approvavano i progetti perché troppo innovativi, non prevedendo l'autostrada ne parracarri, ne marciapiedi!

Mi ha convinto di meno l'utilizzo di personaggi di fantasia, con le loro storie private, i loro amori, gli smarrimenti dell'anima, che inseriti per arricchire la narrazione, di fatto la sviliscono.

Le foto che documentano la complessità dell'opera, non appartengono al volume, ma le ho trovate su internet.

Per non far confusione: la Salerno-Reggio Calabria di competenza dell'Anas (quelli dei parracarri e dei marciapiedi), è stata costruita come una strada statale e non come un'autostrada, finita nel 1972; è dalla fine degli anni '80 che si sta cercando di ammodernarla, anche per l'obbligo imposto dalla Comunità Europea, il finanziamento fino al 2016 è nella legge di stabilità del 2013.  Campa cavallo....
 







Prova statica sul ponte del Po (progetto Silvano Zorzi) con l'impiego di carri armati Sherman

http://video.sky.it/news/cronaca/lautostrada_del_sole_compie_50_anni/v215779.vid

giovedì 19 febbraio 2015

Fausta Cialente - LE QUATTRO RAGAZZE WIESELBERGER - Mondadori 1976 - £ 4.000


Fausta Cialente (1898-1994) è stata una giornalista, traduttrice e scrittrice che ha anticipato di molti decenni le tematiche legate alla condizione della donna, tanto da essere definita antesignana del femminismo moderno.

Già negli anni trenta le sue opere erano molto apprezzate, le ricordiamo: Marianna (1929), Natalia (1930), Pamela e la bella estate (1935) Cortile a Cleopatra (1936). Durante il periodo bellico, collaborerà alla lotta antinazista da Radio Cairo, con trasmissioni di propaganda antifascista, fondando poi e dirigendo, dal 1943 al 1945, un giornale, "Fronte Unito", destinato ai prigionieri italiani in Egitto. Rientrata alla fine della guerra in Italia, collaborerà con Rinascita, Noi donne e L'Unità.

Fausta Cialente negli anni '50



Dopo una lunga pausa, il suo ritorno alla narrativa è nel 1961 con Ballata levantina  che sfiorerà lo Strega di quell'anno, in competizione con Delitto d'onore di Arpino,  e  Ferito a Morte di La Capria. 

Scrive Maria Bellonci in Come un racconto gli anni del Premio Strega:

All'ultimo, per un solo voto vinse La Capria e la Cialente e Arpino rimasero indietro di un passo. Sebbene il titolo del premio spettasse a La Capria, si poteva dire che i vincitori erano stati tre: e si palesava così il giudizio critico dei votanti che indicavano un peso non molto dissimile nei tra libri tanto diversi. Dalle pagine della Cialente si alzava quel ritratto prestigioso della nonna in Egitto che è un'apparizione indimenticabile nella narrativa italiana.

Ma l'appuntamento con il Premio Strega era soltanto rimandato, Fausta Cialente lo vinse infatti nel 1976 con Le quattro ragazze Wieselberger che presentiamo qui. 


 Questo l'incipit:

Le sere in cui l'orchestra veniva a suonare in casa la famiglia doveva cenare assai più presto del solito perché la signora e le ragazze, aiutate dalle due domestiche, avessero il tempo sufficiente per sbarazzare la tavola della sala da pranzo e riporre ogni cosa, la grande porta a vetri che la separava dall'entrata sovendo rimaner aperta. Bisognava tenere ben chiusi, invece, tutti gli usci verso la cucina e i "servizi" giacché il padre non voleva sentire durante l'esecuzione - ch'era più che altro una "prova" - gli strepiti delle rigovernature e le chiacchiere, le ciàcole, anzi delle serve. Queste prove si facevano dunque nell'entrata dell'appartamento, ch'era molto ampia e comunicava s'un lato con la sala da pranzo e sull'altro col salotto "buono", in modo che la sonorità piacevolmente si spandeva  e si potevan piazzare le file delle seggiole destinate agli eventuali ascoltatori. I vasi delle piantye ornamentali venivano spinte da parte e si tiravano i tendaggi per dare il maggior spazio possibile agli orchestranti che con le loro sedie e i loro strumenti dovevano stare s'una bassa pedana. Non erano molti, una ventina forse, ma tutto v'era compreso, gli archi, i fiati, gli ottoni; e il padre dirigeva, lui, in piedi s'un basso panchetto posto col leggìo di fronte alla pedana, ma un po' discosto e giusto nel mezzo.
Il direttore d'orchestra, Gustavo Adolfo Wieselberger (1834-1910), che appare in copertina in un ritratto del 1853, quando aveva meno di ventanni, è il padre delle quattro ragazze e nonno dell'autrice: patriarca vecchio stampo, autoritario e un po' brontolone, ma viziato dalle cinque donne di casa che, forti del loro essere maggioranza, non lo temevano affatto. 

Nella cornice incantevole della Trieste fine Ottocento prende l'avvio la storia di questa famiglia borghese, che vive con serenità il proprio benessere, in un ambiente sociale elegante, cosmopolita e tollerante. 

Nel folto paesaggio quotidiano dell'epoca c'era dunque chi portava il turbante e chi il fez, si vedevano le giacche vistosamente ricamate dei montenegrini che giravano quasi sempre con la pistola o il pugnale infilati nella cintura, mentre i turchi indossavano i loro gonfi pantaloni serrati alle caviglie; dal Carso scendevano i monaci eremiti a piedi nudi, i carniolini e le carnioline nelle loro vesti sgargianti, e tutto quel rimescolio si scontrava negli ufficiali della marina inglese, elegantissimi nei loro calzoni bianchi e frac rossi, gli spadini al fianco. I giovani triestini delle già arricchite famiglie avevano carrozze sontuose, a due a quattro cavalli, come forse si vedevano solo a Vienna, a Londra o a Parigi, e certuni avevano perfino i loro gallonatissimi lacchè, due messi davanti, in  serpa, e due dietro, che saltavano su e giù come scimmie ammaestrate per aprire e chiudere gli sportelli, nemmeno fossero sovrani quelli che dentro il cocchio sedevano su cuscini di broccato.
 «Difatti, erano i re del cotone! dello zibibbo e dei fichi secchi!» il padre diceva sorridendo.
 «Anche mio nonno e mio padre immigrarono qui da Vienna, dov'erano nati in piazza Santo Stefano! Ma quando decisero di farsi commercianti o importatori, dimenticarono di aver avuto un avo commissario di guerra alla corte di Maria Teresa, e il von che precedeva il nostro cognome lo lasciarono cadere. Bene hanno fatto, che per vendere carube, farina o uvetta del von non c'era nessun bisogno. Chissà, poi, quanto aveva rubato sulle forniture di guerra quel commissario dell'imperatrice!
» E se una delle figlie scherzando osservava che lui, musicista, il von avrebbe potuto giustamente riprenderselo, alzava le spalle, e come sua moglie esclamava ch'erano sempiezi, stupidaggini, per i quali non valeva davvero la pena di bazilar.

L'aspirazione della ricca borghesia triestina di uscire dall'impero austro-ungarico e fondersi col Regno d'Italia, viene ampiamente trattato nel romanzo, distinguendo lucidamente l'aspetto ideale post-risorgimentale che anima i migliori, per i secolari legami storici, linguistici e culturali con l'Italia, da quelli alimentati da un nazionalismo intriso da profondo disprezzo nei confronti delle popolazioni slovene e croate:  'sti maledeti s'ciavi.

Ciò che più avrebbe colpito chi avesse voluto esaminare da un punto di vista strettamente economico e sociale la questione irredentista intorno agli anni di quelle liete vendemmie e quei balli alla Filarmonica, avrebbe senza dubbio scoperto, o almeno imparato, come per salvarsi dalla secolare oppressione di Venezia Trieste aveva dovuto concedersi ai duchi d'Austria pochi secoli dopo il mille; e per molto tempo aveva vivacchiato sfruttando un hinterland che le era completamente straniero, anche per il linguaggio, ma era il solo retroterra di cui poteva disporre. 
La storia della famiglia si snoda attraverso gli anni della prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, con l'affermarsi della dittatura fascista, e quindi l'altro periodo buio della seconda guerra mondiale.

II fratello di Fausta Cialente, Renato (1897-1943), fu un grande attore di teatro e cinema, iniziò la sua  carriera giovanissimo con Ermete Zacconi, fece compagnia con Elsa Merlini nel 1934, e con Andreina Pagnani nel 1938. Oltre 30 i film girati.



 Nel 1943, a Roma,  fu travolto e ucciso da un automezzo tedesco, un'ambulanza, all'uscita del Teatro Argentina dove aveva recitato con enorme successo, in L'albergo dei poveri di Gorkij.

 http://www.treccani.it/enciclopedia/renato-cialente_%28Dizionario-Biografico%29/

Uno strano incidente, incomprensibile, se non si fa riferimento all'attività antifascista e antinazista della sorella al Cairo per conto degli Inglesi, ma anche per l'impegno antifascista  che manifestava nelle scelte del suo repertorio teatrale.

I nazisti non erano nuovi a questo procedimento di eliminare personaggi scomodi, facendo affidamento sulla fatalità. Era già successo al poeta ceco Jiří Orten (1919-1941) di essere ucciso sempre da un'ambulanza tedesca, nella Praga occupata nel 1941.

Jiří Orten


Un libro bellissino, da leggere assolutamente.

mercoledì 11 febbraio 2015

Francesco Duscio - LA ROMANESCA - Cucina Popolare & Tradizione Romana - Fuoco Edizioni 2014 - € 12,00


Finalmente un libro di argomento culinario che rompe la banalità cui tendono le molte trasmissioni televisive, dove guru furbacchioni alla ricerca della popolarità, spingono l'acceleratore dell'originalità a tutti i costi, rischiando di farci perdere la bussola delle nostre origini, in un'omologazione contraria al buon senso prima che al buon gusto.

Questo delizioso vademecum della cucina popolare e tradizione romana di Francesco Duscio, architetto, con la passione per la storia e la tradizione della propria città, si differenzia da ogni altro libro di genere perché non si limità ad elencare ricette, ma le arricchisce fornendoci utili e gustosi aneddoti storici su prodotti, luoghi, abitudini della tradizione culinaria sia romana classica che romanesca.

Dopo l'interessante prefazione di Maurizio Di Paolo, già il primo capitolo ci introduce in una tradizione tipicamente romana legata alla notte di S.Giovanni: la famosa lumacata (o ciumacata, in romanesco) che mi ha riportato di colpo agli anni della mia infanzia, alla visione della lunga e chiassosa teoria di tavolini imbanditi che da Santa Croce in Gerusalemme (dove vivevo) su per via Carlo Felice, fino a S.Giovanni e oltre, dove allegre famiglie consumavano il rito di mangiare lumache.

Belle che andate pe' li sette sonni,
svejateve, 'stanotte è San Giovanni.
E' notte d'incantesimi, è notte de magia,
le streghe, in groppa ai diavoli, volano in compagnia...

La piacevolezza di questa lettura è anche dovuto alla sapiente scansione dei capitoli, che non è banalmente divisa tre antipasti, primi, secondi ecc. ma, come anticipa l'autore:

Ogni capitolo del libro si sviluppa per temi e argomenti legati alla genesi delle ricette romanesche, alternando escursioni storico-gastronomiche ed aneddoti e curiosità, con sconfinamenti nella leggenda.
Divertente e arguta la distinzione tra cucina romanesca e la cucina dei cugini laziali (peraltro indispensabile e necessaria) nel XVIII capitolo, dove il riferimento alla storica rivalità calcistica  è momento di spassoso sfottò.

Ho trovato La Romanesca,  indipendentemente dalle ricette, che sono sacrosante e precise, un libro godibile, da leggere non solo in funzione di un piatto da preparare, ma per immergersi nella cultura tradizionale romana, nello stesso modo che la lettura dell'Artusi consente di penetrare nella cultura gastronomica della borghesia dell'ottocento.