martedì 12 giugno 2012

Carnacina - Buonassisi - ROMA IN CUCINA - Aldo Martello Editore - 1972 - £ 2.400


Luigi Carnacina a soli dodici anni inizia a lavorare come sguattero e cameriere in una osteria. A quattordici lascia l'Italia è inizia il suo percorso nel mondo alberghiero e della ristorazione, dove a modo di conoscere e lavorare per il grande maestro Auguste Escoffier al Savoy Hotel di Londra e in seguito dirigendo grandi hotels e ristoranti in Europa e in America.

Vincenzo Buonassisi è stato un apprezzato giornalista, scrittore e gastronomo, autore di libri di cucina e di programmi televisivi.

Di questo libro che è riduttivo definire di cucina, piuttosto di cultura storico-gastronomica, preciso ed esauriente, ho sempre molto apprezzato (ricette a parte che essendo romano conosco abbastanza bene) l'introduzione che è un vero e proprio saggio  sulle caratteristiche della cucina romana.

C'è una sorprendente continuità nella cucina delle fettuccine, dell'abbacchio, della pajata, della testina, della coda alla vaccinara, del pecorino con le fave, dell''anguilla, delle frappe, delle cime di rape, di tanti altri piatti: una continuità che ciene, si, dalle materie impiegate, ma anche ancor più dal modo costante di sfruttarle, legarle, condirle.
 Un romano di mille o duemila anni fa sbalzato da una macchina del tempo nel mondo di oggi non subirebbe a tavola, propabilmente, uno choc troppo grave: mancherebbero tante cose, ma ci sarebbero anche piatti noti, un certo carattere familiare in questa cucina dell'olio e del guanciale, del latte, della ricotta, delle erbe, dei legumi.

Viene analizzato come l'introduzione in alcuni prodotti provenienti dalle Americhe, non abbia, come in quasi tutta Europa, rivoluzionato la cucina romana. La patata, il pomodoro,  infatti entrano nella cucina romana come un accessorio, danno colore, sfumature di gusto, ma non incidono profondamente, non rivoluzionano il modo di concepire la preparazione del cibo.

Poi estendendosi il potere di Roma repubblicana, a questi cibi se ne unirono altri suggeriti dalle risorse e dalla civiltà agricola delle terre vicine, conquistate. Comparve il pane, intanto, senza eliminare le pultes; il pane che si mangiava col formaggio, oppure con l'aglio, con le cipolle, primo sostegno degli stessi legionari romani (donde, per secoli, il motto:"Ubi Roma, ibi allium", che si può tradurre liberamente: dove arriva Roma, lì si sente l'aglio). 

Divennero elementi base dell'alimentazione le olive, l'olio, il vino, considerato come un cibo vero e proprio, oltre che una bevanda; il maiale e gli insaccati; gli ortaggi di ogni specie e i frutti: primo fra tutti il fico, per cui i romani avevano una vera passione; lo ritroviamo in tutte le descrizioni di pasti, in molte ricette. Con erbe e verdure si facevano piatti misti, vere insalate.

Racconta poi come le stravanze di Lucullo e di Eliogabalo, e quanto di eccessivo c'è nella letteratura latina (vedi L'Asino d'oro o Satiricon) riguardava una ristretta cerchia di gaudenti che ruotava intorno agli imperatori, senza nessun legame col popolo romano.

Troviamo l'autorevole conferma di Orazio quando (seconda satira secondo libro) elogia la sobrietà:

La salute anzitutto, che è quel che più conta:
per convincerti che i piatti troppo elaborati
fanno male, basterà che ricordi
come hai ben digerito le pietanze più semplici: ma se vuoi
mescolare l'arrosto col lesso, le ostriche e i tordi,
tutte queste dolcezze si convertono in fiele, e il catarro
ti sconvolge lo stomaco. Non vedi come, da un banchetto
sontuoso, escono tutti pallidi e stanchi? E l'indomani
il corpo, dalla crapula oppresso, l'anima aggrava
e a terra costringe anche la parte divina che è in te.
E ancora:
Lui racconta: "Ho avuto giudizio: nei giorni feriali bastava
al mio pasto un po' di verdura e uno zampetto di porco.
E se veniva a trovarmi un amico dopo tanto tempo,
o un caro vicino in un giorno di pioggia, ci davamo riposo
facendo gran festa, non coi pesci mandati a comprare
in città, ma con un pollo o un capretto nostrani; e alle frutta,
un po' di una passa, due noci con i fichi secchi.

 Si chiedono gli autori:

Avevano già i romani le lasagne, antenate delle moderne fettuccine? Pare proprio di si, sebbene i pareri non siano unanimi: Si usava a Roma un cibo chiamato laganum che era fatto con farina e acqua mescolati: l'impasto veniva schiacciato e tagliato a pezzi, poi cotto. Non sappiamo altro, ma è chiaro per incominciare, che questo laganum era stato preso dalla cucina greca, diffusa nel sud d'Italia.
Poi le notizie che abbiamo sono sempre incomplete, citazioni casuali. Per esempio certi versi di Orazio dicono "inde domum me ad porri et ciceris refero, laganique catinum"; dunque se ne andava a casa per mangiarsi una scodella di porri, ceci e legano. Cicerone, a sua volta, se ne confessa ghiotto.

Che si tratti delle antenate delle fettuccine si può ricavare dalla terminologia napoletana moderna che chiama ancora laganelle i taglierini, e laganaturo il mattarello.

Poteva mancare qualche esempio di poesia romanesca dedicata al cibo? Questa che proponiamo e firmata solo "er Patocco":

Benché l'anni so' tanti, nun me scordo
'na via che me pareva un coridore
indove, sur cantone, er friggitore
venneva li pezzetti a cinque un sòrdo.
U' misto d'ojo fritto un po' balordo...
se spanneva dar dentro l'ore e l'ore,
ma 'sti pezzetti avevano un sapore
che là pe là ce doventavi ingordo.
Broccoli, gobbi, baccalà, patate...
co' poco se faceva pranzo o cena;
la gente li comprava a cartocciat.
Ah, come li risogno 'sti pezzetti,
che, assieme ar mezzolitro su' la vena,
era er mejo scialà da poveretti!


Un libro prezioso, da leggere, da consultare, da tenere sempre a portata di mano per scoprire i mille semplici segreti (e la loro storie) della vera cucina romana.

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