Dopo quasi quarant'anni sto rileggendo questo classico della letteratura italiana. E' accaduto per caso: sfogliavo un romanzo poco noto di Pavese Il carcere del 1948, che racconta in terza persona la sua esperienza nel soggiorno obbligato a Brancaleone Calabro, dove era stato condannato nel 1935 a tre anni di confino, pensando di scriverne su questo blog.
Per associazione di idee, mi è venuto in mente Carlo Levi e il suo soggiorno obbligato in Lucania nel 1934 e ho raffrontato le due esperienze: mentre Pavese sceglie la forma romanzo per raccontare una storia di solitudine individuale, questa di Carlo Levi è un'opera difficilmente inquadrabile nei tradizionali generi letterari, un po' diario, un po' saggio storico, politico, etnografico e antopologico, è, per dirlo con le parole dell'autore, la scoperta di un'altra civiltà, fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Me ne sono di nuovo innamorato e ho iniziato a rileggerlo.
Mi chiedo se le nuove generazioni conoscono Carlo Levi? Chissà se la scuola, con l'ambiguità con cui tratta i classici, nella migliore delle ipotesi inserendo qualche brano in una antologia, non contribuisca a estraniarli dal semplice piacere della lettura.
Carlo Levi (1902-1975), nasce in una famiglia ebraica benestante della borghesia torinese, si laurea in medicina ma la sua vera passione è la pittura; è in contatto con Felice Casorati e gli esponenti dell'avanguardia, espone alla Biennale di Venezia del 1924; frequenta Piero Gobetti e collabora alla rivista Rivoluzione Liberale, conosce Antonio Gramsci e scrive sul suo Ordine Nuovo, a Parigi è in amicizia con Modigliani, frequenta i pittori della corrente fauve e la sua pittura in qualche modo è influenzata dalla Scuola di Parigi.
In un certo senso il grande successo di Cristo si è fermato a Eboli ha oscurato la pregevole attività pittorica di Carlo Levi, che è stato anche Senatore per due legislature, nel 1963 e 1968, eletto tra gli indipendenti con il PCI.
Questo l'incipi del libro:
Levi analizza i motivi dell'estraneità dei contadini lucani rispetto allo Stato:
L'enorme interesse di quest'opera, secondo me, è dato dalla penetrante osservazione che opera del territorio e di uomini prima che l'omologazione consumista, come un gigantesco bulldozer, appiattisse tutto, scompaginando una realtà contadina millenaria, che solo in tre momenti ha trovato la forza di una disperata difesa: contro l'invasione fenicia, contro le legioni romane e contro gli invasori garibaldini, dando vita al brigantaggio.
Quando la sorella Caterina, medico anch'essa, va a trovarlo a Gagliano (come Carlo Levi chiama nel libro il paese di Aliano) testimonia con parole indimenticabili la situazione sociale e sanitaria che ha incontrato a Matera: l'abbandono nel quale li vivono le popolazioni, (siamo nel 1935 e in tutta Italia si cantava "Faccetta nera" e si inneggiava all'Impero) nentre qui...
I bambini gli si affollavano intorno per chiedere l'elemosina di qualche pasticca di chinino!
Carlo Levi durante il confino non avrebbe voluto esercitare la professione medica, anche perché riteneva di non avere l'esperienza necessaria, ma fu costretto dalle circostante a farlo guadagnandosi la fiducia e l'affetto dei contadini lucani. Quando alle autorità propose un piano igienico-sanitario per combattere la malaria, ricevette in cambio la proibizione ad esercitare la professione medica, che invece continuò a praticare clandestinamente.
Dipinse molto in quel periodo, e quando col bel tempo dipingeva en plein air, era scortato da un codazzo di bambini che lo aiutavano portando cavalletto, tele e colori. Sui bambini le osservazioni di Carlo Levi sono precise e benevoli:
Qui due splendidi documentari dove si vedono molte opere di Carlo Levi:
https://www.youtube.com/watch?v=NUQDptjVVnM
https://www.youtube.com/watch?v=xelUkNRDbUE
Per associazione di idee, mi è venuto in mente Carlo Levi e il suo soggiorno obbligato in Lucania nel 1934 e ho raffrontato le due esperienze: mentre Pavese sceglie la forma romanzo per raccontare una storia di solitudine individuale, questa di Carlo Levi è un'opera difficilmente inquadrabile nei tradizionali generi letterari, un po' diario, un po' saggio storico, politico, etnografico e antopologico, è, per dirlo con le parole dell'autore, la scoperta di un'altra civiltà, fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Me ne sono di nuovo innamorato e ho iniziato a rileggerlo.
Mi chiedo se le nuove generazioni conoscono Carlo Levi? Chissà se la scuola, con l'ambiguità con cui tratta i classici, nella migliore delle ipotesi inserendo qualche brano in una antologia, non contribuisca a estraniarli dal semplice piacere della lettura.
Carlo Levi (1902-1975), nasce in una famiglia ebraica benestante della borghesia torinese, si laurea in medicina ma la sua vera passione è la pittura; è in contatto con Felice Casorati e gli esponenti dell'avanguardia, espone alla Biennale di Venezia del 1924; frequenta Piero Gobetti e collabora alla rivista Rivoluzione Liberale, conosce Antonio Gramsci e scrive sul suo Ordine Nuovo, a Parigi è in amicizia con Modigliani, frequenta i pittori della corrente fauve e la sua pittura in qualche modo è influenzata dalla Scuola di Parigi.
In un certo senso il grande successo di Cristo si è fermato a Eboli ha oscurato la pregevole attività pittorica di Carlo Levi, che è stato anche Senatore per due legislature, nel 1963 e 1968, eletto tra gli indipendenti con il PCI.
Questo l'incipi del libro:
Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si chiama la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
- Noi non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli.
Levi analizza i motivi dell'estraneità dei contadini lucani rispetto allo Stato:
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.
L'enorme interesse di quest'opera, secondo me, è dato dalla penetrante osservazione che opera del territorio e di uomini prima che l'omologazione consumista, come un gigantesco bulldozer, appiattisse tutto, scompaginando una realtà contadina millenaria, che solo in tre momenti ha trovato la forza di una disperata difesa: contro l'invasione fenicia, contro le legioni romane e contro gli invasori garibaldini, dando vita al brigantaggio.
Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgesse uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente la più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c'è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l'umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di eterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono le sue guerre nazionali.
Quando la sorella Caterina, medico anch'essa, va a trovarlo a Gagliano (come Carlo Levi chiama nel libro il paese di Aliano) testimonia con parole indimenticabili la situazione sociale e sanitaria che ha incontrato a Matera: l'abbandono nel quale li vivono le popolazioni, (siamo nel 1935 e in tutta Italia si cantava "Faccetta nera" e si inneggiava all'Impero) nentre qui...
Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili e non le scacciavano neppure con le mani. Si, le mosche gli passeggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n'era, quaggiù: ma vederlo così, nel sudiciume e nella miseria, è un'altra cosa. Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria.
I bambini gli si affollavano intorno per chiedere l'elemosina di qualche pasticca di chinino!
Carlo Levi durante il confino non avrebbe voluto esercitare la professione medica, anche perché riteneva di non avere l'esperienza necessaria, ma fu costretto dalle circostante a farlo guadagnandosi la fiducia e l'affetto dei contadini lucani. Quando alle autorità propose un piano igienico-sanitario per combattere la malaria, ricevette in cambio la proibizione ad esercitare la professione medica, che invece continuò a praticare clandestinamente.
Dipinse molto in quel periodo, e quando col bel tempo dipingeva en plein air, era scortato da un codazzo di bambini che lo aiutavano portando cavalletto, tele e colori. Sui bambini le osservazioni di Carlo Levi sono precise e benevoli:
Tutti questi bambini avevano qualcosa di singolare; avevano qualcosa dell'animale e qualcosa dell'uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. (.....)
Andavano tutti a scuola, l'istruzione è obbligatoria, ma, con quei maestri, ne uscivano analfabeti. Così presero l'abitudine di venire qualche volta la sera a scrivere nella mia cucina. Rimpiango di non aver dato loro, per la mia naturale ripugnanza a tutto ciò che è insegnamento diretto, più tempo e più cura: un buon maestro non avrebbe mai potuto trovare una migliore scolaresca, né più ricca di una quasi incredibile buona volontà.Come con tutti i grandi libri, ora che è finita la ri-lettura già ne sento la nostalgia.
Qui due splendidi documentari dove si vedono molte opere di Carlo Levi:
https://www.youtube.com/watch?v=NUQDptjVVnM
https://www.youtube.com/watch?v=xelUkNRDbUE
Grazie per aver parlato ancora di questo capolavoro. Qui il mio post sul libro di un paio d'anni fa:
RispondiEliminahttp://enezvaz.wordpress.com/2010/08/30/il-piacere-di-leggere-carlo-levi/
E qui c'è il resoconto di un viaggetto nelle terre del confino leviano:
http://enezvaz.wordpress.com/2010/09/01/e-dicono-che-vogliono-fare-il-turismo/
Alle prossime letture
Michele Lischi