giovedì 2 giugno 2011

Giorgio Amendola UNA SCELTA DI VITA - Bur - giugno 1978 - £ 2.000

























Questo lungo racconto è diverso dagli altri libri che Giorgio Amendola ha pubblicato come scrittore politico, qui la testimonianza degli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia del nostro paese dagli inizi del secolo al 1929 (anno della scelta di vita) intrecciati con gli anni della sua infanzia e giovinezza, hanno il respiro del grande romanzo biografico.

Ci sono molte chiavi di lettura che rendono piacevole questo fluido libro: l'analisi politica del periodo, l'indagine storica, la infinita galleria di personaggi che ha incrociato la vita di Giorgio Amendola.

L'aspetto del libro che voglio invece evidenziare, è la descrizione di luoghi che ormai il tempo ha trasfigurato, dai suoi ricordi d'infanzia all'epoca in cui è stato scritto il libro, e da quel lontano 1976 a oggi.

L'incipit riguarda Roma:

Gli anni più belli della mia infanzia li ho passati nella casa di via Paisiello. Alla fine del 1912 la strada attraversava le vecchie vigne Sebastiani, che si andavano trasformando nel quartiere col nome del proprietario che ne aveva iniziato la costruzione. La strada partiva da Villa Borghese, dalla parte del Museo e del Parco dei Daini, e andava dritta tra i campi fino al Viale Parioli. Gli edifici finiti e abitati erano pochi, e grandi prati sassosi li separavano dai casamenti degli "impiegati", che si levavano massicci accanto alla via Salaria. La nostra casa, al numero 15, era la più modesta tra le ville e le palazzine che già si accingevano a dare un tono pretenzioso a quello che sarebbe diventato un elegante quartiere residenziale. Alle spalle, Villa Borghese ci offriva uno sconfinato campo di giochi che giungeva fino a Valle Giulia, ingombra ancora degli edifici e dei padiglioni dell'Esposizione Universale del 1911. Lo spazio si apriva libero alle nostre scorribande, che non conoscevano orari. La casa di via Paisiello è la prima che io ricordi veramente di aver abitato. Dei precedenti vagabondaggi dei miei genitori ho invece ricordi confusi, forse stimolati da racconti posteriori. Mi rivedo su di una automobile tutta rossa. Quel rosso è rimasto indelebile nel mio ricordo infantile, e non posso certo averlo ripreso da una scolorita fotografia che mi ritrae dritto sull'automobile di mio zio Mario, una De Dion Buton - mi disse poi - in via Dandolo, ai piedi del Gianicolo, attorno al 1910. Deve essere, quello, il mio primo ricordo.
Dopo la morte del padre, la madre ricoverata in una clinica, Giorgio e i fratelli vanno a vivere a Napoli, in casa dello zio Mario

Il villino era stato costruito da poco tempo su un terreno ceduto dai parenti Marcolini, dei romagnoli venuti all'inizio del secolo a costruire la parte centrale del Vomero, la collina che col suo castello domina Napoli e la baia. Il costruttore del villino, razionale e moderno, era stato l'ingegnere Amedeo Bordiga, amico di mio zio. Così il primo personaggio politico che conobbi a Napoli fu il comunista Bordiga.
La descrizione della Napoli del 1926 ha una intensità lirica e sincero è l'accoramento nel raffrontarla con quella del 1976 (figuriamoci se la vedesse oggi!).

Il Vomero era allora un quartiere bellissimo, verde e fresco. Le strade moderne ombreggiate dai platani, con molte ville e villini e giardini e fiori. Fino ai primi anni del secolo era considerato un luogo di villeggiatura della borghesia napoletana, che vi aveva costruito quella che oggi chiamiamo la seconda casa. Il grande Vincenzo Scarpetta aveva fatto costruire al Vomero, alla discesa della Santarella, la villa per il suo riposo, dove aveva fatto incidere il suo motto "Qui rido io". Il Vomero era rapidamente collegato con le varie zone di Napoli da tre funicolari e da tre vecchissime scalinate incassate tra alti muri di tufo. La Pedemontina di San Martino scendeva diretta verso il cuore di Napoli, il quartiere di Montesanto e dell'Avvocatura, piazza Dante. La discesa del Petraio portava al corso Vittorio Emanuele e, per i vicoli dei "quartieri", alla Galleria e a San Ferdinando. Più campestre, la discesa dei gradini di San Francesco tagliava le rampe, allora verdeggianti, di via Tasso fino all'Arco Mirelli e di Piedigrotta. Se perdevo la corsa della funicolare, mi buttavo giù rapidamente a grandi gambate, e finivo con l'arrivare prima della corsa seguente. (.......) Intorno il verde si allargava verso Posillipo e verso i Camaldoli, meta di passeggiate incantevoli tra i grandi boschi che coprivano l'alta collina . Giunti all'eremo, la vista spaziava dalla Punta della Campanella a Capri, Procida, Ischia e, nei giorni più chiari, fino a Ponza. Per me, allora, era l'isola dove aveva sostato Pisacane: non sapevo che ci avrei trascorso cinque anni, malgrado tutto buoni perchè in quell'isola mi sarei sposato, avrei avuto una figlia, avrei studiato, conosciuto tanti compagni, stretto tante indistruttibili amicizie.
Adesso tutto è cambiato. La borghesia napoletana, raccolta attorno ai Lauro e ai Gava, ha distrutto, per avidità di lucro e per ignoranza, quella verde bellezza e ci ha costruito quartieri inabitabili, collegati a Napoli da pochi stretti cordoni, facili ad essere spezzati. Quello che non riuscirono a fare i bombardamenti lo hanno fatto i banditi del cemento.
Passai molti pomeriggi nell'esplorazione del "ventre di Napoli". Avevo letto il libro di Matilde Serrao, forse il migliore dei suoi libri. Adesso volevo conoscerlo di persona. Quella parte della città, raccolta in uno spazio abitato ininterrottamente dal periodo greco e pre-greco, si estendeva dalle pendici delle colline fino alla pianura, in un intrico di vie, piazzette e vicoli, rotto soltanto da poche grandi strade, tagliate in periodi diversi: la spagnolesca via Toledo, la borghese via Foria, l'umbertino Rettifilo. La parte più antica era attraversata da via Spaccanapoli, che andava dritta con diverse denominazioni fino ai Tribunali e dove, nella parte inziale dopo Santa Chiara, abitava, a Palazzo Filomarino in via San Biagio dei Librai, Benedetto Croce.
Questa parte della città non era stata ancora abbandonata dai "ricchi", che vi abitavano i piani nobili degli antichi palazzi, che dietro la facciata ed i maestosi cortili nascondevano gelosamente all'interno terrazze e giardini ricchi di aranci e di limoni. Le vecchie famiglie patrizie avevano già iniziatoda un pezzo il loro trasferimento verso Montedidio, la Riviera di Chiaia, via Filangeri, il rione Margherita. Ma i professionisti erano restati, i medici illustri intorno a via Costantinopoli e al Museo, gli avvocati da piazza del Gesù al Rettifilo. Attorno, nei "bassi" o all'interno dei cortili, si accalcava il popolo minuto, valenti artigiani, piccole attività industriali a domicilio, "popolino" alla caccia della quotidiana occupazione, che si contendevano le varie possibilità fornite dalle richieste dei "signori". Era l'economia del vicolo, riscoperta dai giornalisti dopo il colera del 1973, una sopravvivenza precapitalistica, una plebe che viveva della concentrazione nella capitale della classe dominante di un regno, e che si contendeva le briciole delle rendite strappate alle campagne e consumate in città.

Per chi non lo avesse ancora letto, un invito a farlo.

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